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È andato tutto bene (2021)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 19 nov 2022
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 8 giu 2023


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È andato tutto bene

(Tout s'est bien passé) Francia/Belgio 2021 dramma 1h53’


Regia: François Ozon

Soggetto: Emmanuèle Bernheim (romanzo)

Sceneggiatura: François Ozon, Philippe Piazzo

Fotografia: Hichame Alaouié

Montaggio: Laure Gardette

Scenografia: Emmanuelle Duplay

Costumi: Ursula Paredes Choto


Sophie Marceau: Emmanuèle Bernheim

André Dussollier: André Bernheim

Géraldine Pailhas: Pascale Bernheim

Charlotte Rampling: Claude De Soria

Éric Caravaca: Serge Toubiana

Grégory Gadebois: Gèrard Boisrond

Hanna Schygulla: signora svizzera

Judith Magre: Simone

Nathalie Richard: cap. Petersen

Jacques Nolot: Robert

Daniel Mesguich: Georges Kiejman

Denise Chalem: Denise


TRAMA: Quando l'ottantacinquenne André ha un ictus, la figlia Emmanuelle si precipita al suo capezzale. Malato e mezzo paralizzato nel suo letto d'ospedale, André chiede a Emmanuelle di aiutarlo a porre fine alla sua vita.


Voto 7

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È facile, leggendo velocemente la breve sinossi, cadere nel tranello di pensare che sia un film sulla eutanasia, sull’ancora non risolto dibattito – in tutti i Paesi – sul diritto di chiedere il fine esistenza almeno giustificato dalla cessazione della sofferenza fisica che spesso diventa anche mentale. Le leggi, dove è possibile, sono giustamente severe e rigide, per non dare facili pretesti a chi, momentaneamente e senza aver profondamente riflettuto, decide di autoaffliggersi il fine vita. Meglio dar tempo e modo per meditare e ponderare. No, non è questo l’obiettivo del film di François Ozon, non è proprio il tipo di autore che si pone problemi filosofici ed esistenziali di questo tipo: a lui interessava ciò che succede attorno alla persona in questione e il comportamento e le reazioni dei parenti stretti e degli amici più intimi. Lo dimostra il fatto che il personaggio principale del film è Emmanuèle (Sophie Marceau), una delle figlie di André (André Dussollier), un ricco ebreo che si occupa anche di arte, marito separato di Claude (Charlotte Rampling), omosessuale e ora colpito da ictus, che diventa per questo l’oggetto delle attenzioni e della completa dedizione della donna.

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Emmanuèle non è solo una scrittrice di romanzi nel film, fu proprio la reale scrittrice che pubblicò il suo vissuto come figlia che un giorno, come mostra la prima sequenza, riceve una telefonata che le comunica il malore del padre e corre in ospedale dove lo trova in rianimazione, con una paresi alla parte destra del corpo, labbra semiaperte e storte, occhio spalancato. Soprattutto moralmente abbattuto e quasi in lacrime. Lei non lo ha sempre amato, avrebbe perfino desiderato vederlo morto almeno a parole quando era adolescente, ora invece non sa come aiutarlo assieme alla sorella Pascale, con cui è sempre in sintonia d’onda e in competizione per il suo affetto. Entrambe si dichiarano a completa disposizione del genitore ma restano senza parole quando lui chiede loro, constatando le condizioni in cui si trova, di essere “aiutato” a morire. Non sopporta di trovarsi e continuare a vivere in quello stato.

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Emmanuèle vorrebbe, come farebbe ognuno di noi, dire di no, opporsi, incoraggiarlo, mostrargli che la vita è importante, la necessità di combattere ed invece gli si arrende per amore, per rispetto, perché lo vede determinato. Come opporsi a tanta ostinazione? Decide così, solo con qualche limitata perplessità di Pascale, di assecondarlo, di interessarsi come e dove rivolgersi e ogni volta che gli fa rapporto lui ne è felice, diventa impaziente. L’operazione speciale si potrà fare in Svizzera, presso una struttura specializzata che le chiede solo alcune formalità di volontà chiara e dimostrabile, tramite una signora che se ne occupa e che le fornisce le istruzioni necessarie. L’unica persona che infastidisce e disturba questa fase è l’odiato compagno dell’anziano, che aveva abbandonato la moglie Claude per questo Gèrard, parecchio più giovane, scatenando le ire delle donne. Ora, si è rifatto vivo fintamente affranto ma materialmente attratto dalla promessa del suo Patek Philippe, mentre la moglie confessa alla figlia che lei non lo ha mai voluto lasciare perché, in fondo, lo ha sempre amato. Non è facile uscire dalla Francia con un’autombulanza e giungere a Berna per l’ultima e letale bevanda: la polizia riceve una denuncia (da chi?) e stringe i controlli. La combattiva e commovente Emmanuèle non si arrende e organizza ugualmente la spedizione confortata dalla soddisfazione evidente del padre: s’ha da fare e si farà, costi quel che costi. Quando l’evento si compie, la telefonata della signora svizzera (Hanna Schygulla) è calma, serena, confortante: “Tout s'est bien passé”. È andato tutto bene. È una buona notizia, è quella che aspettavano: è stato un trapasso tranquillo, ora è sereno.

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Una delle caratteristiche (involontaria a quanto pare) di François Ozon è che gli capita spesso di girare un film e subito dopo farne un altro di natura totalmente opposta, in discontinuità con il precedente, come succede ancora in questa occasione. Il film di prima è l’interessante Estate '85, quindi un’opera di formazione (e thriller) e qui, un anno dopo, un dramma con tracce di commedia sulla vecchiaia. E la morte. Per giunta cercata e assecondata da familiari sorpresi. Come dice lui stesso: “Me l’hanno fatto notare: subito dopo un film sulla gioventù ne ho fatto uno sulla vecchiaia. Si dà il caso che Emmanuèle Bernheim fosse mia amica, che è morta, e che avessi voglia di raccontare la sua storia. Seguo solo i miei desideri man mano che si manifestano, nessun piano di carriera prestabilito. Mi piaceva che nel libro la sua storia non avesse pathos: la morte è percepita come un tabù, mentre André non solo la guarda in faccia, ma obbliga anche i suoi cari a fare lo stesso. Certo è un egoista, pensa solo a se stesso senza curarsi di ciò che le sue scelte provocano negli altri. Ma è anche un uomo che è stato felice, che ha scelto quale vita vivere e il modo di finirla. Era importante per me fare un film vicino alla vita. E nella vita c’è anche umorismo, come quando a un funerale ci facciamo prendere da una folle crisi di riso. Quando Serge Toubiana, il compagno di Emmanuèle, ha visto il film e ha sentito il pubblico ridere sulla scena dell’ascensore, mi ha detto che la cosa per lui era tutt’altro che divertente. Ecco, volevo tracciare quella linea che corre tra drammatico e comico perché fanno entrambi parte della vita.”

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Non è una sua commedia acida o ammiccante all’eros come piace a lui, non è un thriller psicologico come pure piace a lui, è un dramma con punte di sarcasmo come piace a François Ozon, che, alla sua maniera, non offre spunti alla commiserazione, tutt’altro. La morte è normalmente e quotidianamente percepita come una sciagura, mentre l’anziano padre ammalato non solo non ne ha paura, ma ne parla ai familiari come un impegno qualsiasi. Certo è un egoista, pensa solo a se stesso senza curarsi di ciò che le sue scelte provocano negli altri (e lo si nota benissimo osservando la reazione), ma è anche un uomo che è stato felice, che ha sempre scelto la strada che gradiva di più. Il regista non disdegna neanche di creare momenti di semplice umorismo (appunto la scena dell’ascensore), che poi è uno degli spiazzamenti tipici del suo cinema, quando dal dramma vira verso la commedia. Il lato misterioso che in Ozon non può mancare lo conferisce il romanzo stesso a proposito della figura del compagno di André, Gèrard, che quando appare viene definito “pezzo di merda” dalle figlie, è odiato dalla moglie e nessun elemento della trama ci fa capire chi sia e quale ruolo e importanza abbia, è indefinito. Però, in verità, qualche dubbio viene presto ed in seguito appare chiara la sua posizione e quanto abbia influito sulla stabilità della famiglia.

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A proposito degli interpreti diventa obbligatorio un elogio senza limiti per Sophie Marceau che personalmente non avevo mai giudicato non avendo mai visto un suo film (era nota per i teen movies degli anni ’80 a base di mele) e ora, osservandola da signora, viene spontaneo dire quanto sia brava (almeno oggi) e quanto sia bella. Il suo bel personaggio è spontaneo, vitale, paziente, legato alla famiglia e lei ci entra dentro con tutta se stessa commuovendosi e sorridendo. Brava davvero. Tra i tanti ottimi attori che girano nella trama, necessita applaudire l’eccellente André Dussollier, che da vecchio esperto attore fornisce una ulteriore prova di grande efficacia. Per essere molto realistico, ha incontrato dei medici per rendere in maniera credibile i postumi dell’ictus, ha voluto il viso deformato da una protesi che richiedeva ogni giorno due ore di trucco. E, per ciò che si racconta di lui, è certo che ci fosse un piacere un po’ perverso, come attore, nel rivolgere alla bella collega-figlia una battuta tipo “da bambina eri brutta” perché tutti sanno quanto piacere provi a dire cose orribili a tutti. Simpaticamente francese.

Film dalla sceneggiatura intelligente, sicuramente figlia di un buon libro, basilarmente attaccato ai fatti, non tanti ai dialoghi che sono pur sempre sincopati, simpatici ed efficaci. Anche se l’eutanasia non è l’oggetto principale e il film vi gira attorno costantemente, è la frase di André, sempre usata e abusata, quella che riassume in maniera lapidaria le sue pretese: “Vivere non è sopravvivere”.

Come dargli torto?



 
 
 

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