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Illégal (2010)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 5 dic 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

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Illégal

Belgio/Lussemburgo/Francia 2010 dramma 1h30’


Regia: Olivier Masset-Depasse

Sceneggiatura: Olivier Masset-Depasse

Fotografia: Tommaso Fiorilli

Montaggio: Damien Keyeux

Musiche: André Dziezuk, Marc Mergen

Scenografia: Patrick Dechesne, Alain-Pascal Housiaux

Costumi: Magdalena Labuz


Anne Coesens: Tania

Alexandre Gontcharov: Ivan giovane

Natalia Belokonskaya: Olga

Olga Zhdanova: Zina

Tomasz Bialkowski: Nowak

Denis Dupont: Dimitri

Christelle Cornil: Lieve


TRAMA: Tania Zimina, una donna russa, e suo figlio Ivan di 13 anni sono in Belgio già da 8 anni e, nonostante si siano integrati, non hanno ancora le carte in regola e vivono in clandestinità. Un giorno finiscono nelle reti della polizia e mentre Tania si fa prendere e viene inviata in un centro di raccolta per immigrati clandestini, Ivan riesce a scappare. Nel luogo di detenzione, Tania dovrà affrontare l'inferno carcerario e scoprire che esistono luoghi dove i diritti vengono annullati. Sapendo anche che un giorno o l'altro verrà espulsa e separata da suo figlio.


Voto 8


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Illegale. Illegale è una persona che scappa perché oppressa. Illegale è chi emigra per fame. Illegale è chi non vuol vivere perennemente in guerra. Illegale è chiunque diventa clandestino perché si rifugia per necessità in un altro paese cercando lavoro e casa per la famiglia. Illegale è una donna single che scappa dalla Bielorussia con suo figlio di 13 anni per cercare miglior vita in Belgio, galleggiando tra l’anonimato e la minacciosa protezione di un connazionale che la ricatta concedendole un appartamentino e un documento falso. Illegale è dunque ogni essere umano che ha il bisogno primario di sopravvivere e che attraversa un confine marcato solo sulle cartine geografiche, per cui aldiquà sei oppresso, aldilà sei fuorilegge, peggio di un criminale qualsiasi. Per gente così è previsto il fermo, la detenzione in un centro “accoglienza” (quale dicotomia antitetica! quale ossimoro!), un breve processo ed infine il rimpatrio forzato. Praticamente delinquenti.

Tania è una donna di cui non conosciamo il passato ma di cui capiamo bene e immediatamente la scomoda situazione in cui si trova: arriva dall’est europeo a Molenbeek-Saint-Jean, grosso comune belga nell’area di Bruxelles, da anni caratterizzato da una grande concentrazione di immigrati, soprattutto magrebini, purtroppo recentemente salito alla ribalta per i noti attentati da parte di estremisti islamici. Lavora come donna di pulizie e ha un figlio molto sveglio e affezionato, Ivan, che frequenta regolarmente la scuola locale e ha amici come ogni adolescente. Sorride amaro, non è più giovane ma è ancora presentabile seppur trasandata, ha un’amica connazionale con cui divide le sofferenze dei sans papiers, costantemente sotto il controllo e la pressione del piccolo boss connazionale, un losco individuo che le ha affittato l’appartamentino e che le ha fornito un carta di identità falsa e che le chiede assoluta sottomissione e la regolarità dei pagamenti, pena l’aggregazione coercitiva del figlio al suo servizio.


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Per il bene del ragazzo, Tania riga dritto con la speranza che un giorno possa avere il diritto umano di vivere la sua vita e nel frattempo cerca di essere il più invisibile possibile, come tutti i clandestini che si accontentano del minimo pur di mantenere viva la speranza di un domani migliore. Solite frasi, le mie, solita retorica che leggiamo e sentiamo di frequente in una società che contemporaneamente chiude gli occhi e non vede i fantasmi (riguardiamoci Atlantique di Mati Diop) che vagano tra l’Europa e l’Africa, il Medioriente, l’Europa dell’Est. La Bielorussia nel caso specifico. Quando purtroppo viene fermata da due poliziotti in borghese inizia il calvario. Ella sa di essere una delle tante donne che vivono in clandestinità in Belgio e altrove, ma si rende meglio conto di cosa l’aspetta allorquando viene rinchiusa in un centro di accoglienza per donne e famiglie. Persone di ogni razza, colore, religione, provenienza: tutte distinzioni che la società si è create per ripulirsi da ciò che ritiene fastidioso, inutile, improduttivo.

Per allungare disperatamente la sua esistenza in Belgio - parla un francese fluente senza alcun accento rivelatore – si rifiuta di fornire i propri dati personali e le impronte digitali le ha già bruciate da tempo, nella sequenza iniziale del film, una scena da brividi per coraggio e disperazione. Quando assiste – proprio come il regista Olivier Masset-Depasse fa assistere a noi spettatori inerti e spaventati – al tentativo non riuscito di rimpatrio forzato di una africana che torna gravemente tumefatta e con fratture, si rende conto della violenza che lo Stato usa per potersi lavare la coscienza, cercando con ogni mezzo di liberarsi di persone come lei, come loro, come tutti gli “intrusi”. Illegali. Poi quell’impietoso atto di polizia (pulizia) toccherà inevitabilmente anche a lei. La sua opposizione disperata, tra le scene più emotive di tutto il film, scatenerà reazioni anche nell’opinione pubblica. Quelle sue urla sull’aereo, quella sua voglia di ribellarsi ad un destino atroce costituiscono una delle sequenze più toccanti, unitamente a quella più amara e dolorosa che è il suicidio dell’amica africana. Solo toccando i sentimenti più emozionanti e più penosi il regista può dimostrare la tragicità della situazione di queste persone infelici e abbandonate al loro destino.

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Olivier Masset-Depasse non ci dà una risposta certa a proposito del futuro di Tania e di Ivan: la vediamo in fuga dalla casa-prigione, la seguiamo zoppicante nelle strade vicino casa sua, che intravede il figlio, che la abbraccia incredulo e felice. Cosa ne sarà di loro d’ora in poi, avranno un futuro, potranno ottenere un regolare permesso di soggiorno, una casa dignitosa, un’istruzione? La chiusura del film tronca le considerazioni ma non chiude le porte: l’abbraccio finale di ricongiungimento di una mamma con un figlio che non si vedono da mesi può essere solo un augurio, un nuovo inizio. Chissà. Ma è semplicemente un film che espone la posizione del regista in merito alla questione dei diritti dei migranti? No, assolutamente! Olivier Masset-Depasse, nei suoi lavori (corti, TVmovies o lungometraggi che siano), ha costantemente amato parlare di donne, o meglio ancora, la sua filmografia ha quasi sempre seguito il percorso della riflessione sulla figura materna, come se l’istinto di una madre sia un superpotere. Se nel suo bellissimo film seguente, Doppio sospetto (di cui potete leggere qui) quel rapporto s’inceppa e la forza materna diventa distruttrice, qui è simbolo delle donne sole, migranti, guerriere, pronte a sfidare il Potere Costituito per difendere il legame di carne e sangue che le unisce ai figli. Come Tania. La donna assurge a figura carismatica e padrona del suo destino e della sua prole, quasi come una dea. E questa dea si incarna regolarmente in tutte le opere del regista belga in una attrice che sa rappresentare tutte le sfumature e la forza delle sue donne: Anne Coesens. Che se nel film del 2018 stupisce per il modo in cui sa rappresentare il cambiamento di umore di una madre orfana di figlio, qui, nel 2010 è una forza della natura scatenata come una tempesta nell’oceano della burocratica ragnatela anti-accoglienza della grigia regione di Bruxelles. La sua interpretazione è indimenticabile, carnale, sanguigna, feroce, con lo sguardo infuocato come una belva attaccata nella savana a cui vogliono togliere il diritto di vivere con i suoi cuccioli. Mentre in una sequenza sorride provocando piccole rughe intorno agli occhi, in quella seguente, se infastidita e sfidata, ruggisce e si dimena. Una recitazione che si rivela imprescindibile dal personaggio combattivo e inarrendevole di Tania.


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Nonostante le tante disavventure della protagonista, la sintesi del film è racchiudibile in un breve dialogo tra lei e l’unica poliziotta che prova pietà per quelle donne, Lieve, la sola persona della parte opposta della barricata che cerca di guardare negli occhi quella gente:

“È davvero così duro per voi tornare a casa? Vale proprio la pena vivere questa vita di merda?”

Tania: “Ma per chi ci prendi? Per masochisti? Che cosa vuoi sapere? Se ho sofferto abbastanza per avere il diritto di restare qui?”

Subito dopo il momento topico del suicidio, Lieve, quella secondina, già in crisi da tempo nello svolgimento delle sue mansioni, capisce che non è un mondo in cui lei può restare un attimo in più, che è un lavoro che la nausea. E mentre arrivano i soccorsi, lei si spoglia della divisa e dei finimenti lasciandoli lungo tutto il corridoio andando via. Lieve siamo noi che assistiamo inorriditi, Lieve è la nostra coscienza che non vuol girare più la testa dall’altra parte. Ma Lieve è anche il generoso Walter (Richard Jenkins) de L’ospite inatteso, dove il povero Tarek viene prima detenuto in carcere e poi rimpatriato, nonostante gli sforzi di chi lo aveva accolto.


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È una regia sorprendente, efficacissima, impetuosa alla pari della macchina da presa a mano, traballante come la vita della protagonista, che insegue da vicino le sue palpitazioni cardiache ad ogni imprevisto dando maggiore risalto alla esaltante interpretazione di quell’attrice fantastica che è Anne Coesens. Il montaggio non perde il ritmo, si adegua alla vivacità del susseguirsi continuo degli avvenimenti, asseconda la trama e ne rende l’essenziale disagio. La grigia fotografia rende bene l’idea del colore autunnale dell’Europa del nord e della vicenda. Un film completo sotto tutti i punti di vista. Un bravo particolare a Olivier Masset-Depasse gran direttore d’orchestra.

Allora, illegali siamo tutti. Clandestini siamo tutti. “Soy una raya en el mar, fantasma en la ciudad, mi vida va prohibida, dice la autoridad” (Sono una striscia nel mare, fantasma nella città, la mia vita è proibita, dice l'autorità). “Peruano clandestino, Africano clandestino, Algerino clandestino, Nige­riano clandestino, Boliviano clandestino, Mano Negra illegal.” (Manu Chao). E continuare con il mio idolo di gioventù: “Immagina che non ci sia alcuna nazione / Non è difficile farlo / Niente per cui uccidere o morire / E neanche alcuna religione / Immagina tutta la gente / Vivere la vita in pace” (John Lennon).


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Riconoscimenti:

2011 - Premio Magritte

· Candidato a miglior film

· Candidato a miglior regista a Olivier Masset-Depasse

· Candidato a migliore sceneggiatura a Olivier Masset-Depasse

· Migliore attrice a Anne Coesens

· Migliore attrice non protagonista a Christelle Cornil

·


2011 - Premio César

· Candidato a miglior film straniero



 
 
 

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