Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (2018)
- michemar

- 17 apr 2019
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 31 ago 2019

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità
(At Eternity's Gate) Irlanda/Svizzera/UK/Francia/USA 2018, biografico, 1h51’
Regia: Julian Schnabel
Sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Julian Schnabel, Louise Kugelberg
Fotografia: Benoît Delhomme
Montaggio: Louise Kugelberg, Julian Schnabel
Musiche: Tatiana Lisovskaya
Scenografia: Stéphane Cressend
Costumi: Karen Muller Serreau
Willem Dafoe: Vincent van Gogh
Rupert Friend: Theodorus "Theo" van Gogh
Oscar Isaac: Paul Gauguin
Mads Mikkelsen: prete
Mathieu Amalric: dott. Paul Gachet
Emmanuelle Seigner: madame Ginoux
Vladimir Consigny: dott. Felix Ray
Stella Schnabel: Gaby
Niels Arestrup: paziente
TRAMA: Il pittore Vincent van Gogh, dopo un'esperienza a Parigi, dove non ottiene la stessa fortuna che all'epoca avevano gli impressionisti, decide di recarsi ad Arles, paesino di campagna ideale per dipingere gli ampi paesaggi da lui amati. Gli abitanti però, lo considerano un pazzo e lo maltrattano provocando nel pittore dall'animo irrequieto reazioni impulsive. Durante i ricoveri in ospedale, il fratello minore Theo, unica persona che lo capisce e crede nelle sue doti, gli propone di farsi spedire i dipinti a Parigi, affinché li possa vendere. Le sue opere però non vengono apprezzate e Vincent continua a passare una vita da povero ad Arles. In seguito giunge ad Arles anche il pittore Gauguin, inizialmente amico e sostenitore di Vincent, ma poi sempre più in contrasto con quest'ultimo, a tal punto da abbandonare la "casa gialla" in cui i due vivevano e lavoravano. In seguito ad un'altra crisi emotiva, van Gogh si taglia un orecchio. Infine si reca in una chiesa e in un ospedale per cercare di riabilitarsi.
Voto 7

Ci sono personaggi facili da raccontare nel cinema, altri invece non lo sono affatto, perché troppo complessi e i tentativi dei registi e degli sceneggiatori spesso si rivelano velleitari. Il campo dei biopic, lo sostengo da sempre, è un campo minato e ad ogni passo si può saltare in aria con tutto il progetto, rivelandosi fatui sforzi per giunta inutili, dati i risultati deboli e innocui. Van Gogh poteva rientrare in questi casi: troppo tumultuosa la sua vita, come i suoi tormenti e i comportamenti, sempre istintivi e poco ragionati. Però così affascinante che in diversi ci hanno provato. L’elenco di questi sono nomi pe(n)santi, sono autori di tale valore e autorevolezza che la loro attenzione sta giusto ad indicare l’importanza e l’interesse artistico che il pittore è riuscito sempre a stimolare: Vincente Minnelli (Brama di vivere, con Kirk Douglas), Robert Altman (Vincent & Theo, con Tim Roth), Maurice Pialat (Van Gogh, con Jacques Dutronc), Akira Kurosawa (Sogni, addirittura con Martin Scorsese). Una lista impressionante!
L’ultimo caso è sembrato perfino scritto nel destino. Tutti conosciamo i tratti del suo viso, in special modo grazie all’autoritratto che il celebre pittore realizzò nel 1887 a Parigi, una delle sue tante tappe di vita, ma osservando i primi piani sul viso di Willem Dafoe ho provato la netta sensazione che l’attore fosse un sosia, anche con tutte le differenze che si possono scorgere. Sarà stata quella capigliatura rossiccia, saranno state quelle sue rughe e quella barba, oppure il profilo irregolare, sarà il nome con cui è conosciuto così simile al secondo di battesimo del pittore, Vincent Willem van Gogh… certo è che guardando il film non riuscivo a non pensare alla reale similitudine fisica tra i due uomini, nonostante l’incongruenza volutamente ignorata dal regista della differenza di età tra i due (ricordiamo che l’olandese morì 37enne).

Come sempre quindi, parlando di film biografici, ero prevenuto e poco fiducioso, anche per le non eccelse prove fino ad oggi del regista Julian Schnabel, il quale va detto che è anche pittore. Per tutti questi motivi son partito allora con il piede prudente ma alla fine mi sono dovuto ricredere. E di molto. E non perché il film sia un capolavoro ma perché credo sia uno dei più riusciti nel genere negli ultimi anni. Julian Schnabel ha scelto, anche sulla base della sua esperienza di artista, di girare scene chiaramente ispirate ai dipinti del pittore: è come vedere nelle varie sequenze del racconto le tele impregnate da quella abbondanza di colori che l’amico Gaugain gli rimproverava, è come immergersi nei campi fioriti e splendenti nella stessa maniera in cui van Gogh li percepiva. Le definizioni che la sceneggiatura fa pronunciare al nostro sulla natura e sulla sua varietà e bellezza saranno pure d’effetto e magari manieristiche ma indubbiamente incidono in maniera sensibile per descrivere lo sguardo con cui egli percepiva ciò che lo circondava, ne esaltano la sensibilità sia di pittore che di osservatore naturalistico. A questa scelta ben precisa, il regista ha aggiunto, con molto giudizio e quindi riuscendoci molto bene, gli eventi della vita di van Gogh sia acclarati come veri sia altri solo presunti o raccontati dalla leggenda che gira da sempre intorno all’esistenza irrequieta del pittore. La cui vita emerge piena di sofferenze e violenze, non tanto fisiche quanto psicologiche, dal momento che tutto il mondo che girava intorno a lui non lo ha mai trattato bene e ciò lo portava ancora di più ad affidarsi alla bontà e all’enorme affetto che provava, ampiamente ricambiato, per il fratello Theo, persona a cui si affidava ciecamente nei tanti e frequenti momenti difficili della sua pur breve esistenza. La macchina da presa a mano aumenta notevolmente la sensazione della vita instabile, i cui primissimi piani storpiano i visi come la sua sbilenca esistenza, il colore della fotografia raggiunge tonalità cariche che continuamente ricordano i bellissimi e forti colori che egli distribuiva abbondantemente sulle tele: il giallo e il blu sono attori protagonisti quanto Willem Dafoe! Colori intensi che accendono la bella fotografia di Benoît Delhomme, nel film e sul poster ufficiale. Nel contempo capisco però le ragioni di chi critica l’eccessivo nervosismo della macchina da presa o i pretenziosi giochi di fuoco/fuorifuoco evidenziato dalla striscia inferiore dello schermo, ma questi ahimè sono i limiti registici di Schnabel, già evidenziati in altre occasioni.

Si avverte nettamente, grazie alla scrittura dell’autore, la sensazione di capire il carattere di van Gogh, la cui ispirazione istintiva derivava dal talento con cui egli coglieva quello che l’occhio dell’uomo qualunque non vedeva, dalla forza che conservava nonostante le continue disgrazie che gli capitavano, dalla fiducia cieca che tutto derivasse dal dono divino ricevuto da Dio, pur se lo accusasse di averlo fatto nascere nel periodo sbagliato, perché non capito dai contemporanei. Era convinto che la sua enorme opera (non dimentichiamo che fu autore di oltre 900 dipinti e più di mille disegni, oltre a centinaia di schizzi e appunti) sarebbe stata compresa infatti solo nei decenni a seguire, come affermava placidamente tra lo stupore dei suoi interlocutori, che va da sé che lo guardassero come un pazzo, ancor più delle malattie mentali che gli diagnosticavano.
Il prete: "Credi che Dio ti abbia dato il dono della pittura perché tu viva in miseria?"
Vincent van Gogh: "Non l'ho mai vista in questo modo. Forse Dio mi fa dipingere per quelli che nasceranno."

Julian Schnabel ha tenuto a precisare che questo film “…non è una biografia del pittore realizzata con precisione scientifica. È un film sul significato dell'essere artista. È finzione, e nell'atto di perseguire il nostro obiettivo, se tendiamo verso la luce divina, potremmo addirittura incappare nella verità. L'unico modo di descrivere un'opera d'arte è fare un'opera d'arte.”
D’altronde basterebbe andare col pensiero a ciò che lo stesso pittore olandese diceva convinto: “Riuscire a creare qualcosa di imperfetto, di anomalo, qualcosa che alteri e ricrei la realtà in modo tale che ciò che ne risulta siano anche delle bugie, se si vuole, ma delle bugie più vere della verità letterale”. Ebbene, tutto ciò è quello che appunto il regista voleva farci arrivare e guardando il film lo si percepisce benissimo. Il film, perfetto o imperfetto, questo messaggio ce lo trasmette e quindi credo raggiunga lo scopo. E dico perfetto perché riesce in quell’intento, e imperfetto perché non racconta tutto il vero, anzi è sicuramente un lavoro di pura immaginazione. È quindi – credo si possa affermare - un omaggio, accorato e innamorato di un uomo che ama la pittura, allo spirito artistico che ha toccato un uomo maltrattato dal destino e dagli uomini che lo hanno vissuto da vicino. Tra ospedali, manicomi, piccole pensioni, città come Parigi che lo affascinava così tanto, piccoli paesi di campagna che lo attiravano per via dei bellissimi panorami fonti continue di ispirazione, tra la poca gente che voleva aiutarlo e i paesani che picchiavano, è stato un calvario neanche tanto lungo ma pieno denso di una ispirazione tumultuosa come la sua vita corsara.

C’era bisogno però di un attore che sapesse trasmettere tutte le emozioni interne, le turbolenze psichiche, i tormenti dell’anima, il desiderio di tradurre ciò che la retina trasmetteva alla mente che poi traduceva in una visione sovrumana, la brama di andare oltre i fiori gli alberi i campi l’erba piegata dal vento. Distese immense di enormi girasoli, erba sbattuta dal vento, che attorciglia anche il blu profondo del cielo in spirali visionari. Io non so se c’erano veramente questi elementi ma lui li vedeva chiarissimamente. Se tutto ciò era la vita di Vincent, non facilmente traducibile in una sceneggiatura, la fortuna del film è che Willem Dafoe si è trovato in stato di grazia, un attore che, dopo mille personaggi interpretati, a volte protagonista molte altre volte no, raggiunge l’apice della maturità artistica con una recitazione sublime, sofferta e carica. Lui è il van Gogh che il regista sicuramente cercava e da cui viene oltremodo ricambiato. Ogni sorriso, ogni ruga, ogni espressione corrucciata per non essere stato capito o ogni espressione spaventata per l’avversione che avverte in chi lo avvicinava, Willem Dafoe ce la trasmette con una prova attoriale che sorprende e che affascina.
Un Oscar scippato e una Coppa Volpi strameritata.






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