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Intimacy - Nell'intimità (2001)


Intimacy - Nell'intimità

(Intimacy) Francia/UK/Germania/Spagna 2001 dramma 1h59’

Regia: Patrice Chéreau

Soggetto: Hanif Kureishi

Sceneggiatura: Anne-Louise Trividic, Patrice Chéreau

Fotografia: Éric Gautier

Montaggio: François Gédigier

Musiche: Éric Neveux

Scenografia: Hayden Griffin, Jacqueline Abrahams

Costumi: Caroline de Vivaise

Mark Rylance: Jay

Kerry Fox: Claire

Susannah Harker: Susan

Alastair Galbraith: Victor

Philippe Calvario: Ian

Timothy Spall: Andy

Marianne Faithfull: Betty

Fraser Ayres: Dave

TRAMA: Lui si chiama Jay, lei Claire. Li incontriamo in uno squallido appartamento londinese: lui è in casa, lei suona il campanello, lui le apre; non si dicono nulla, fanno l'amore. Claire è sposata e fa l'attrice dilettante; Jay è divorziato, è capo barman in un locale. Entrambi hanno figli, e sono socialmente inseriti. Ma ogni mercoledì hanno questo spazio di libertà, di intimità, senza parole, in cui i rituali sociali lasciano il passo a un Eros senza sottintesi.


Voto 8,5


L’amore. L’amore che l’arte rappresenta e racconta in mille maniere, con mille aspetti, con mille risvolti. Amore felice, sofferto, carnale, idilliaco, platonico. Anche senza futuro. Il cinema, come arte recitativa con voce e corpo, è in prima linea e solo il coraggio di un cast tecnico e artistico come in questo meraviglioso film è riuscito a farci vedere quale forma può prendere in casi particolari e in una storia così forte. Come può succedere, a volte l’amore può essere inizialmente solo fisico, sessualizzato al massimo, che dà soddisfazione solo ad una parte recondita della mente ma che poi scatena le reazioni psicologiche e di necessità esistenziali che non ti aspetti, che non sono previsti, anzi sono esclusi in anticipo per patto tacito. È quello che succede a Jay e Claire, due persone che vivono a Londra in ambienti differenti: lui è andato via di casa all’improvviso, lasciando una mattina, uscendo come sempre e senza dir alcuna parola, moglie e due bambini. Aveva chiuso all’improvviso, scegliendo di andare a vivere in compagnia di un suo amico, forse neanche lui sa perché. Di mestiere fa il capo barman in un locale chiassoso, sovrastato nella vita dalla musica punk che furoreggia, musica che ha praticato come musicista in una band. Lei è una madre di famiglia e ama alla follia la recitazione teatrale: la sera è una delle attrici ne Lo zoo di vetro di Tennessee Williams in un pub che ha un teatro underground, dove il marito Andy e il figlioletto la guardano con costanza.


Patrice Chéreau, regista avvezzo più al teatro che al cinema, non ci spiega come i due si son conosciuti, ma ci presenta immediatamente il loro rito settimanale (ogni mercoledì pomeriggio) in cui Claire bussa alla porta del disordinatissimo appartamentino di Jay: si guardano negli occhi, si spogliano e si baciano furiosamente, iniziano le due ore in cui i loro corpi si fondono in slanci famelici, dandosi totalmente. Sesso. Nessuna parola di affetto, non si chiamano perché nessuno dei due conosce il nome dell’altro, non sa che vita vive. Si incontrano e fanno sesso. E basta. Un tacito accordo che non prevede assolutamente di sapere chi è veramente l’altra persona, sanno solo che hanno bisogno di fare questo. Il disordine della casa è lo specchio del momento di Jay, incasinato nella vita in cui non sa ancora che direzione prendere, sa solo che ha bisogno di lei, che invece pianifica la vita casalinga, il teatro, la scuola di recitazione che ha aperto in periferia, l’appuntamento del mercoledì. Un giorno, la porta lasciata socchiusa da Claire dà l’impressione all’altro di un segno del destino e lui decide che vuole sapere, contrariamente agli accordi, chi è lei, dove vive, cosa fa per tutta la settimana, e decide di pedinarla. Così, contravvenendo al patto stabilito, scopre il pub in cui recita. Entrando una sera e scoprendo con enorme sorpresa quello che Claire svolge lì dentro, trova posto (il fato ha deciso così) proprio accanto a Andy, il marito, con cui fa conoscenza. Con gli occhi spalancati dallo sbalordimento della scoperta, cerca di mimetizzarsi nella piccola platea, timoroso di essere individuato dalla donna. Jay ormai ha capito che il sesso, seppur così esaustivo e svuotante, non gli basta più, ha bisogno di lei come persona, come donna, del suo affetto esclusivo, chissà, forse del suo amore. Da quando ha deciso di lasciare la moglie, è la prima volta che si accorge di essere solo. Forse, addirittura, la ama. Da questo momento nulla può essere come prima. L’equilibrio precario che aveva raggiunto con la vita indipendente non regge più, avvertendo la necessità della presenza costante della donna che gli sta sconvolgendo la vita.


Jay, le sue intemperanze intime, le riversa nella provvisoria amicizia che stabilisce con Andy, a cui fa finta di chiedere un parere su una storia di tradimenti coniugali, stimolando reazioni nervose dell’uomo, che fa solo finta di non capire ma ha già intuito la situazione. Lui, tassista di Londra, per amore verso la moglie ha la forza di soprassedere, perché le vuole veramente bene e sa che non verrà mai lasciato da Claire, che è troppo responsabile per un colpo di testa. Eppure, nei pericolosi e doppi discorsi avuti con Andy, questi glielo diceva: “Se ami davvero davvero qualcosa spesso va a finire che butti via qualcos’altro, così io e Claire abbiamo deciso di non buttare via niente.” In questa maniera cercava di difendere il suo piccolo cortile. Da canto suo, la donna è rattristata e spaventata dalla situazione creatasi, anche perché Jay è venuto meno ai patti e decide di non frequentarlo più. Si presenta inaspettatamente per l’ultima volta un mercoledì, lasciando di stucco il suo amante che non se la aspettava dietro la vetrata della porta. Fanno ancora furiosamente sesso e sarà per l’ultima volta: quando lei va via, lui la guarda allontanarsi, sperando si giri, ma non lo fa, attraversa la strada e aspetta pensierosa il bus che la raccoglie, per portarla via per sempre. Dimenticare i loro pomeriggi non sarà facile, quel sesso praticato senza censure, neanche nascosto dall’obiettivo di una camera da presa nervosa e scattante che spia ogni gesto, ogni movimento dei corpi nudi. Audaci riprese dal realismo sconcertante, come mai mi è capitato di vedere, perfino un'esplicita scena di fellatio non simulata: tutto è chiaro, tutto è lampante. Solo così, il coraggioso Patrice Chéreau poteva e doveva fare per far arrivare forte e chiaro il contenuto della storia e i magnifici attori si sono messi al totale servizio del regista e della sceneggiatrice, bypassando le loro iniziali perplessità, dando tutto se stessi, smascherando la finzione palese degli altri film. Solo in questa maniera riusciamo ad immergerci in una storia come questa. La macchina da presa ce li rivela sempre in posizione fetale, a terra, su una coperta, aggrovigliati prima e dopo, quando il sonno si prende la rivincita, quando si risvegliano malvolentieri perché è l’ora di slacciarsi e di ritrovare gli indumenti sparsi nella stanza.



Jay soffre dopo la promessa non mantenuta e subisce anche il rimprovero del barman alle sue dipendenze: Cosa potevi pretendere di più? È bello che una persona ti dà cosa cerchi, forse le dai molto e non te rendi conto, gli dice. Ma forse il suo errore è stato di non avere l’impressione di stare con qualcuno, forse cercava di evitarlo, come se lo rifiutasse, ormai inaridito dalla solitudine. Nel frattempo, dopo il dissidio, Claire, nella sua scuola di recitazione, soffre fino a piangere e litigare con tutti, diventa insopportabile, diversa dalla cara e affabile maestra, rivedendo se stessa nelle scene di finzione di sofferenza tra i suoi discenti. È evidente che, adesso che il giocattolo è rotto, quel rapporto era tanto così essenziale e il vuoto che avverte rappresenta qualcosa di più significativo di ciò che pensava: “Ho perso una persona!” afferma alla sua più cara amica. Un po’ come succede in Shame di Steve McQueen (con Michael Fassbender allo sbando), Jay nel peggior momento della vita scende nei bassifondi di Londra, nei locali più degradati pieni di ragazzi totalmente decotti dalla droga, trovando sesso con ragazze occasionali. Alla ricerca dell’autodistruzione mentale. Claire è una droga, adesso soffre di dipendenza e astinenza: annusare l’odore della sua pelle che ha lasciato sulle coperte che sono a terra ad aspettarla è una sofferenza insopportabile, né serve controllare chi passa sotto la finestra. Jay sa fare a meno di Claire.


Attori a completa disposizione del regista, regista colto e preparato che non rovina l’eccellente materiale a disposizione, fatto di soggetto, sceneggiatura e attori strepitosi. La recitazione è parecchio impegnativa ed è caratterizzata da una pronunciata cadenza inglese (fatta eccezione per Kerry Fox, neozelandese), fatta di dialoghi velocissimi, discussioni repentine, battibecchi tra Jay e i suoi amici, una continua analisi psicologica che fuoriesce in ogni dibattito, in ogni litigio, con la macchina da presa che sta al ritmo incalzante dei fitti dialoghi (si fa fatica a seguire i sottotitoli). In una London frenetica ed umida come da tradizione, con il punk imperante di quei tempi irriverenti (i titoli di coda con David Bowie di The Motel sono l’ultima goccia di miele in questo gioiello di film). Patrice Chéreau si rivela il regista ideale perché teatrale non è solo la passione della protagonista femminile, è soprattutto la visione globale del film, è l’imprimatur che il cineasta sa dare al soggetto di partenza di Hanif Kureishi, drammaturgo, sceneggiatore e scrittore britannico di origine pakistana, soggetto derivato da due suoi lavori: il racconto Lampada da notte contenuto nella raccolta Love in a Blue Time e il romanzo breve Nell'intimità. Da qui il regista e Anne-Louise Trividic hanno elaborato una sceneggiatura di straordinaria efficacia recitativa, segnando passo passo anche i gesti dei protagonisti. E qui arriviamo ad un altro punto di eccellenza del film.



Kerry Fox è Claire ed è un incanto vederla e sentirla, nella sua semplicità di donna senza trucco è una donna vera e schietta, che sa manifestare i sensi di gioia o di colpa che prova, che sa esternare le sofferenze intime prima e dopo la scelta dolorosa che deve compiere, che non si tira indietro di un millimetro per l’impegnativo copione che le è stato affidato e si dona completamente nell’atto sessuale, sino al culmine di quella fellatio che fa sobbalzare. Un tale incanto che ottenne un gran riconoscimento, l’Orso d'Argento quale migliore attrice al Festival di Berlino 2001.

Mark Rylance è Jay. Fu in questa occasione che lo conobbi e ne rimasi folgorato, motivo per cui mi son sempre chiesto perché fosse un attore così poco noto e poco visto al cinema. Il motivo era semplice: tanto teatro e quasi solo film d’autore. Poi il grosso del pubblico se ne accorse e io tirai un sospiro di sollievo e di soddisfazione quando finalmente fu conosciuto da tutti e premiato con l’Oscar per Il ponte delle spie (2015) di Steven Spielberg. Da quel momento è stato richiesto da parecchi registi, tanto che son seguiti Il GGG - Il grande gigante gentile (sempre Spielberg, 2016), Dunkirk (Christopher Nolan, 2017), Ready Player One (Steven Spielberg, 2018), Waiting for the Barbarians (Ciro Guerra, 2019), Il processo ai Chicago 7 (Aaron Sorkin, 2020). Quindi solo blockbuster, quando fino al 2001 non lo conosceva praticamente nessuno. Un grande attore dallo sguardo profondo e indagatore, leggermente inclinato sull’occhio sinistro, che sa dare umanità e credibilità ad ogni personaggio. Un grandissimo!

Timothy Spall è Andy, un interprete grande (fino a qualche mese fa anche di corporatura) che spazia da personaggi storici a piccoli insignificanti uomini contemporanei, dotato di grande carisma e di sapiente recitazione teatralmente elevata. All’uscita del film fu addirittura il più apprezzato dalla critica, immagino per aver saputo esplicare le difficoltà umane di chi sapeva di essere un terzo incomodo tra due amanti e di difendere con intelligenza e umiltà la sua posizione di marito comprensivo. Bravissimo anche lui.


Un film che mi lascia ogni volta esausto, come se avessi recitato io stesso, travolto dalla bravura dei due protagonisti, da questa trama così originale e diversa dalla massa dei film ordinari, dalla enorme sagacia di una regia che ha saputo cogliere e trasmettere l’essenza di una bellissima storia. Per merito di Patrice Chéreau e di chi lo ha aiutato, siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, che ormai pochi hanno conosciuto, pochi hanno comprato come me il supporto home video, che le TV non hanno il coraggio di trasmettere, perché qualsiasi taglio, qualsiasi censura danneggerebbe l’opera rendendola monca. Bene ha fatto il regista a cercare di conservare, come dice lui, “la cattiveria, l'assenza di compiacimento, la severità” originarie degli scritti, tutti elementi caratterizzanti il film. Lui ha saputo esplorare i corpi, renderci autentici tutti i movimenti, gli assalti furiosi, le carezze che lasciavano malvolentieri i centimetri della pelle, fotografando i naturali rossori di due corpi fusi fino allo sfinimento, mentre qualcosa si muoveva nell’intimo della mente, embrione di sentimenti che nascevano con la paura di rovinare l’armonia fisica che si era stabilita come un incantesimo.


Un film che mi lascia esausto ogni volta. Io scrivo per hobby e credo che le tre interviste che seguono spieghino molto meglio la pellicola. Un consiglio: queste interviste andrebbero lette solo dopo aver visto il film, prima non si comprenderebbero appieno.

Kerry Fox: Quando ho incontrato per la prima volta Patrice Chéreau, diversi mesi prima di cominciare a lavorare a Intimacy, non avevo alcuna idea di chi fosse. Mi ha parlato delle sue idee e delle fonti per la sceneggiatura che stava scrivendo. Cos’è la vera intimità tra due persone? Questa domanda mi aveva attraversato la mente e l’opera di Hanif Kureishi mi era assai familiare, anche se non avevo letto né Intimacy né i racconti della raccolta Love in a Blue Time. Patrice mi ha osservato attentamente per valutare la mia reazione al carattere sessualmente esplicito del soggetto. Ho sostenuto il suo sguardo, fingendo indifferenza. Soltanto dopo questo incontro ho saputo chi fosse e cosa avesse fatto. È raro e apprezzabile incontrare qualcuno senza essere influenzati dalla sua reputazione. Penso che questo mi abbia permesso di essere aperta e in confidenza con Patrice. Malgrado tutto, sono andata al nostro secondo appuntamento meglio preparata ed è stato là che ho fatto l’errore, non così infelice, di dire che non avevo paura del ruolo, cosa che mi è stata in seguito chiesto di provare. Quando Patrice mi ha scritturata per il film, ero in uno stato di choc e di esitazione. È diventata una questione di fiducia. Mi ero impegnata a riporre una fiducia assoluta nelle sue indicazioni e di colpo mi sono avventurata in territori che non avrei probabilmente mai esplorato. Patrice mi ha aiutato a forzare i miei limiti di attrice e ha orientato il mio lavoro in direzione opposta a quella in cui avevo l’abitudine di muovermi. È stata una sfida continua, ma senza che ci siano mai stati antagonismi o paure: una cosa che non posso certo dire delle mie altre esperienze cinematografiche.

Mark Rylance: Se ho accettato di lavorare con Patrice nell’autunno del 1998 è stato perché non avevo mai incontrato un regista che mi avesse contattato così educatamente. Ma durante le riprese di Intimacy ho scoperto un regista che si rimetteva costantemente in discussione e che rimetteva anche me in discussione. Era una storia difficile da filmare. Come indica il titolo, si tratta di intimità e l’intimità, tra chiunque, esige la fiducia e la sincerità. Patrice mi ha ricordato che in teatro, come nel cinema, noi che raccontiamo storie dobbiamo diffidare dei trucchi del nostro mestiere. Ciò che ha apparenza di verità può essere solo una maschera o una versione della verità. Patrice è sempre stato alla ricerca dell'essenza della relazione che unisce i personaggi. A volte non riuscivo a capire se gli davo quello che voleva ma vedendo oggi film mi rendo conto fino a che punto lui e il suo meraviglioso direttore della fotografia Eric hanno saputo cogliere frammenti di recitazione improvvisati, selvaggi, intima armonia con la storia. Spero che questo film renda giustizia al genio di Hanif Kureishi e di Patrice. Insieme hanno provato a raccontare la storia vera (e a volte brutta) della mancanza di intimità che turba i nostri rapporti con gli altri, con il mondo che ci circonda, con noi stessi. Mi piace il fatto che nella storia sia la donna che cerca le intimità, mi piace anche che sia il mondo fisico, il mondo dei sensi a costruire, più che quello delle emozioni o della ragione, la griglia attraverso la quale i personaggi finiranno per trovare una certa intimità.

Patrice Chéreau: Con la sceneggiatrice Anne-Louise Trividic abbiamo scritto le scene, minuziosamente, gesto per gesto, e così le ho filmate. Stabilendo alcune regole: filmare tutto quello che era scritto nei dettagli, farle ripetere varie volte, così come si fa per i dialoghi, a un gesto di lui corrisponde uno di lei e viceversa come fossero battute; ho rifiutato di girare con la camera a mano perché non volevo rubare niente agli attori senza il loro consenso. Abbiamo rifatto tutto in studio, tende nere intorno per stare tranquilli, e il miracolo è stato la capacità di questi due attori di interpretare scene che durano sette o otto minuti senza interruzione: alla fine vengono fuori questi particolari, la pelle che cambia colore, il segno della coperta sulla spalla di lei, la traccia delle carezze che si sono dati.



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