La ragazza del mare (2024)
- michemar

- 1 ott
- Tempo di lettura: 7 min

La ragazza del mare
(Young Woman and the Sea) USA, Ungheria, Italia, UK, Francia 2024 biografico/sportivo 2h9’
Regia: Joachim Rønning
Soggetto: Glenn Stout (libro)
Sceneggiatura: Jeff Nathanson
Fotografia: Oscar Faura
Montaggio: Úna Ní Dhonghaíle
Musiche: Amelia Warner
Scenografia: Nora Takacs Ekberg
Costumi: Gabriele Binder
Daisy Ridley: Trudy Ederle
Tilda Cobham-Hervey: Meg Ederle
Stephen Graham: Bill Burgess
Kim Bodnia: Henry Ederle
Jeanette Hain: Gertrude Ederle
Christopher Eccleston: Jabez Wolffe
Raphael J. Bishop: Henry Jr. Ederle
Glenn Fleshler: James Sullivan
Sian Clifford: Charlotte “Eppy” Epstein
Alexander Karim: Benji Zammit
TRAMA: La storia di Gertrude Ederle, detta Trudy, campionessa americana di nuoto che vinse per la prima volta una medaglia d’oro ai Giochi Olimpici del 1924. Nel 1926, Ederle divenne la prima donna a nuotare per 21 miglia marine attraverso il canale della Manica.
VOTO 6,5

Cenni storici.
Gertrude Ederle nacque nel 1905 a Manhattan, figlia di immigrati tedeschi. Il fatto che suo padre avesse una macelleria in Amsterdam Avenue suggerisce una condizione economica che le permise di avere accesso a una residenza estiva nel New Jersey, luogo dove probabilmente imparò a nuotare. Inizialmente Gertrude non mostrava particolare interesse agonistico per il nuoto. Entrò in piscina per la prima volta a 9 anni e ricevette un allenamento formale solo a 15. Nonostante ciò, a 17 anni aveva già stabilito diversi record nazionali e mondiali, dimostrando un talento straordinario. Ai Giochi del 1924 di Parigi vinse la medaglia d’oro nella staffetta più due medaglie di bronzo individuali. Nel 1925 nuotò per 21 miglia (circa 33 km.) attraverso la baia di New York, da Manhattan a Sandy Hook, in 7 ore e 11 minuti, stabilendo il nuovo primato assoluto (maschile e femminile). Quell’anno tentò anche la traversata della Manica, ma dovette abbandonare per squalifica, essendo stata sostenuta da uno degli allenatori durante un attacco di tosse. Gertrude Ederle volle ritentare l’anno seguente. Il 6 agosto 1926 partì da Cap Gris-Nez, in Francia, alle 7.05 del mattino e arrivò a nuoto a Kingsdown, in Inghilterra, dopo 14 ore e 34 minuti, record che abbassò di oltre due ore il primato precedente. Era la prima volta che una donna compiva la traversata della Manica a nuoto.
Il film racconta questo percorso in modo romanzato ma fedele nella sostanza esaltando il gesto sportivo indubbiamente proibitivo per tutti, ma non trascurando l’ambientazione e quindi le difficoltà oggettive dei tempi. Nei primi decenni del ‘900 la società, anche americana, viveva un’epoca in cui le donne faticavano ancora a essere accettate come atlete e Trudy (interpretata da Daisy Ridley), come la chiamavano anche in famiglia – dove c’era il papà macellaio Henry Ederle (Kim Bodnia), la mamma Gertrude (Jeanette Hain) il fratellino Henry Jr. e la sorella maggiore Meg (Tilda Cobham-Hervey) con cui condivideva ogni gioia e dolore, oltre alla passione per il nuoto - non solo doveva superare le difficoltà per affermarsi con il suo enorme spirito sportivo combattivo, ma anche i pregiudizi sociali, le strutture sportive solitamente riservate ai maschi e una mentalità diffusa che non gradiva l’invadenza positiva di una giovane che sapeva farsi valere: in pratica era un mondo che non sapeva dove collocare una donna così forte. Piuttosto le femmine erano destinate a sposare l’uomo scelto dai padri e a lavorare in bottega, come quella della famiglia Ederle, dove l’odore della carne sicuramente dominava.
Per dare maggiormente quel sapore di epico e avventuroso al film, il regista Joachim Rønning – che fino a quel momento si era occupato di cinema fantasy e avventura – inizia la narrazione mostrando le gioiose bambine di una famiglia dallo stampo germanico ma ben ambientate e la gravissima malattia che colpisce la piccola Trudy, affetta da una forma acuta di morbillo che, a sentire il medico, era sul punto di farla morire. Ed invece eccola alzarsi dal letto, vispa come sempre e affamata ma con conseguenze non lievi sull’udito. Particolare vero della vita della coraggiosa donna, tanto da indurla, una volta divenuta davvero sorda, ad insegnare nuoto ai ragazzi affetti da quella menomazione. E dire che da ragazzina era rifiutata nella piscina delle femminucce per paura del contagio da morbillo, e solo per l’occhio sveglio dell’allenatrice, la signora Eppy (Sian Clifford), si era accorta delle grandi qualità di nuotatrice.
Il titolo originale è molto più efficace: la ragazza e il mare, non del mare, non è un scontro o un’appartenenza, anche se la voglia di riuscire a tutti i costi indurrà Trudy a guardare le onde come un nemico da battere: invece lo osserverà e diventerà una sua creatura, lo abiterà come una seconda casa, sia per gli allenamenti a cui si sottoporrà, sia per la durata della faticosissima traversata, fallita la prima volta per il sabotaggio del suo allenatore-nemico, tal Jabez Wolffe (Christopher Eccleston, sempre in ruoli gaglioffi). Trudy è dotata, la natura le ha dato tutto ciò che serviva, anche la forte determinazione mentale ma le serviva soltanto un buon allenatore come Bill Burgess (Stephen Graham), per giunta esperto dei tentativi sulla Manica (che non gli riuscivano) ma che sapeva prendere sempre le giuste decisioni in merito alle traiettorie, all’alimentazione, all’assistenza. E l’impresa storica riesce eroicamente, nonostante le correnti che la ostacolavano, l’enorme branco di meduse graffianti che pareva l’ostacolo peggiore che le si parava davanti, e le secche sabbiose in prossimità delle coste inglesi che non permettevano la navigazione del battello su cui la sostenevano il papà, la mirabile affettuosa sorella e il coriaceo Bill, il miglior sostenitore della nuotatrice.
Un po’ storia vera, un po’ suggestioni d’avventura eroica che esaltano, anzi servono per rendere l’impresa più mitica (lo sarebbe comunque, date le dure difficoltà), un po’ di proto-femminismo che non guasta mai, l’aggiunta a coriandoli di personaggi antipatici sempre utili, qualche tocco di commozione nei frangenti di maggiore problematicità, figure intorno alla protagonista che ispirano fiducia e simpatia: ci mette tutto il necessario, Joachim Rønning, e il risultato è un piacevole, anche se non trascendentale e memorabile, film di sano agonismo e di azione sportiva che è passata meritatamente alla Storia. Qui e là si scorgono anche momenti fiabeschi, per un eccesso di voglia, presumo, di mitizzare la figura e per enfatizzare il messaggio di riscatto. Facile pensare che se il regista fosse stato un artista con minore predisposizione per lo spettacolo avremmo visto un lavoro più dedito all’aspetto “romantico” dell’impresa sportiva e alla vita privata della protagonista, che invece resta anestetizzata sotto questo aspetto. Ne risulta così una figura, erroneamente, mascolina.
Infine serviva il viso giusto, l’attrice adatta, e Daisy Ridley (ex Rey Skywalker) si è rivelata perfetta: quel suo ampio sorriso franco e diretto unito alla recitazione spigliata di cui è dotata l’anno resa una credibile Trudy. Ma subito dopo di lei, a prescindere dai buoni attori che hanno attorniato la protagonista, è da menzionare il sempre eccellente Stephen Graham, la cui grinta riconosciuta gli serve a creare personaggi forti che si distinguono bene nella platea di tutti i film a cui partecipa. Un attore che ha avuto le capacità di emergere lasciando alle spalle i compiti di caratterista ed oggi raccoglie il frutto e i premi di tante partecipazioni in opere importanti al cinema e in TV.
La società patriarcale, che oggi è ancora difficile da sconfiggere del tutto, qui viene molto evidenziata e questo film, tratto dal romanzo biografico di Glenn Stout, ripercorre la parabola della ragazza con toni epici e una forte impronta emotiva, restituendo alla figura di Trudy Ederle la centralità che la storia le ha troppo a lungo negato. Sfido chiunque a dire in quanti la conoscevano e che solo ora, come me, la scopriranno. Una ribelle che incarna una forza solitamente attribuita ai maschi e questo ribaltamento di ruoli è centrale nella vicenda narrata notando come gli uomini fingono di sostenerla solo per vederla fallire e perfino il concetto di abbigliamento femminile è retrogrado, prevedendo che una ragazza dell’epoca sia coperta il più possibile pure quando entra in acqua. Attraverso la sua vicenda, la ragazza (e il mare) ci invita a riflettere sul valore della tenacia, sul potere della sorellanza (bellissimo il legame tra lei e Meg, un rapporto complesso, segnato da tensioni ma anche da solidarietà essenziale: questa la aiuta cucire il costume più leggero e soprattutto le ripara gli occhialini con la cera e le fa compagnia durante la traversata prima nuotandole accanto e poi cantandole canzoni) e sulla necessità di riscrivere i ruoli imposti, bracciata dopo bracciata, controcorrente.
Il mare, meglio enunciato nel titolo originale, serve anche a essere visto come un elemento primordiale e metaforico, non solo come spazio fisico da attraversare: per Trudy, l’acqua è rifugio, è sfida e mezzo di espressione ed il regista usa l’acqua per rappresentare il viaggio interiore della protagonista, tra paure, ambizioni e desiderio di libertà. La fotografia calda e marcata e il commento musicale contribuiscano a costruire un’atmosfera emotiva e coinvolgente, anche a costo di qualche eccesso melodrammatico. Il film è anche una riflessione sul sogno americano, sulla possibilità di emergere dal nulla grazie alla determinazione e la scena delle bambine fuori dalla macelleria del padre, che le mostrano tutta la loro ammirazione, è emblematica: Trudy diventa modello, ispirazione, mito.
Non è soltanto il racconto di una straordinaria storia, ma un ritratto potente e sfaccettato di una donna che ha saputo sfidare i limiti imposti dal suo tempo. Gertrude “Trudy” Ederle emerge dal film non come una semplice nuotatrice, ma come un simbolo di emancipazione, resilienza e coraggio. La sua traversata della Manica diventa metafora di un percorso più ampio: quello di una generazione di donne che ha lottato per affermarsi in un mondo che le voleva silenziose e invisibili. Joachim Rønning, pur scegliendo una narrazione dai toni fiabeschi e motivazionali, su una sceneggiatura priva di spigoli o sfumature, riesce a restituire con forza il valore storico e umano di questa figura, intrecciando estetica, emozione e memoria. L’importanza dell’evento storico è spiegata e celebrata dalla grandissima sfilata che New York dedicherà alla donna il 27 agosto 1926, tra due ali di folla acclamante, come mai si è ripetuta.
Un mito.


















































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