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Men (2022)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 6 set
  • Tempo di lettura: 6 min
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Men

UK, USA 2022 horror 1h40’

 

Regia: Alex Garland

Sceneggiatura: Alex Garland

Fotografia: Rob Hardy

Montaggio: Jake Roberts

Musiche: Ben Salisbury, Geoff Barrow

Scenografia: Mark Digby

Costumi: Lisa Duncan

 

Jessie Buckley: Harper Marlowe

Rory Kinnear: Geoffrey

Paapa Essiedu: James Marlowe

Gayle Rankin: Riley

 

TRAMA: Alla ricerca di un rifugio dopo aver subito un tragico lutto, la giovane Harper affitta una casa nella campagna inglese ai margini di Cotson nel Leicestershire. All’arrivo l’accoglie il proprietario della tenuta, un gioviale signorotto inglese di mezza età e dalla battuta facile che le mostra la proprietà. Dopo i primi istanti di illusorio benessere, Harper si rende conto che la serenità è un’illusione.

 

VOTO 7


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Premesso che ritengo Alex Garland uno dei più geniali autori degli ultimi anni e che trovo che i suoi film, senza eccezione, siano tra i più interessanti e originali che si possano vedere, mi accingo a scrivere del suo terzo lavoro dopo Ex Machina e Annientamento, prima dello sconvolgente - e speriamo non profetico - Civil War, dopo aver parecchio riflettuto, perché è come se avessi l’impressione che sia il meno facile da trattare. Eppure, a distanze di tempo dopo averlo visionato, ho capito che se anche - forse, molto forse – è appena al disotto degli altri è pur sempre una gran film, con la consueta caratteristica di essere, sebbene nel genere, un horror diverso dal solito panorama. Chiaro segno di quanto sia vasta la mia stima per l’artista.



La premessa di partenza del film è più che mai necessaria, per capire in quale situazione ci catapulta. Harper Marlowe (Jessie Buckley, la cui bravura non finisce mai di stupirmi) va a trascorrere una vacanza da sola nel piccolo villaggio di Cotson, per riprendersi in seguito al suicidio del marito James. Nei flashback viene rivelato che lei intendeva divorziare, ma l’uomo era così contrariato da arrivare a minacciare di suicidarsi. Ed infatti, in seguito ad un diverbio molto acceso e dopo che James la colpisce, Harper lo chiude fuori dall’appartamento, prima di vederlo cadere dal terrazzo, lasciandola, come è facile immaginare, scioccata. Per questo decide di prendere una pausa e di rilassarsi nella campagna inglese.



Arrivata alla spaziosa casa padronale che ha preso in affitto viene accolta dal suo proprietario Geoffrey (il Rory Kinnear che non ti aspetti). Successivamente va a fare una passeggiata nel bosco e si imbatte in un vecchio tunnel ferroviario in disuso, alla fine del quale appare una figura che inizia a camminare e poi a correre verso di lei. Scappando, Harper raggiunge un campo aperto, in cui scatta una foto a un edificio abbandonato, catturando inavvertitamente l’immagine di un uomo nudo in piedi che la fissa. Più tardi, durante una videochiamata con la sua amica Riley, nota l’uomo nel suo giardino e chiama la polizia, che interviene tempestivamente arrestando l’intruso. Da notare che tutti questi uomini hanno il viso, che cambia ogni volta, uguale a quello del suo padrone di casa! Tutti, naturalmente, interpretati da Rory Kinnear.



Alex Garland, già noto per le sue incursioni visionarie nella fantascienza e nel thriller psicologico proprio con i film su indicati, con questo lavoro si avventura in territori ancora più oscuri e simbolici, firmando un horror che è al tempo stesso un viaggio interiore e una riflessione disturbante sulla mascolinità (quella tossica), il trauma e la percezione.



Riassumendo, Harper, interpretata con intensità da Jessie Buckley, è una donna segnata da una tragedia personale: il suicidio del marito, avvenuto in circostanze ambigue e dolorose. E per ritrovare se stessa, si rifugia in una villa nella campagna inglese, dove spera di trovare pace. Ma la quiete bucolica si rivela presto un’illusione: gli uomini del villaggio — tutti interpretati dallo stesso attore, in una performance camaleontica e inquietante — iniziano a manifestare comportamenti sempre più disturbanti, insinuanti e minacciosi. La narrazione si sviluppa come un incubo a occhi aperti, dove il confine tra realtà e allucinazione si dissolve. Garland costruisce un mondo che sembra familiare ma è profondamente alieno, dove ogni incontro è una variazione sul tema dell’oppressione, del giudizio e della violenza mascherata da cortesia.



Però, non abbiamo a che fare con un horror convenzionale. È un film che lavora per stratificazioni, dove il folklore (la figura del Green Man, simbolo di rinascita e fertilità) si intreccia con il cristianesimo, la psicanalisi e il femminismo. Il regista non offre risposte, ma, come piace a lui, semina inquietudine. Ogni personaggio maschile è una declinazione di un archetipo tossico: il protettore invadente, il giudice moralista, il bambino manipolatore, il predatore silenzioso. Inoltre, il film è anche un’esplorazione del senso di colpa e del lutto. Harper non è solo perseguitata dagli uomini del villaggio, ma anche dai fantasmi del suo passato. I flashback del marito, interpretato da Paapa Essiedu, mostrano una relazione corrosa da ricatti emotivi e violenza psicologica. Il trauma non è solo personale, ma collettivo: il film ci suggerisce che la società stessa è costruita su dinamiche di potere che perpetuano il dolore.



Jessie Buckley è magnetica: la sua Harper è vulnerabile ma determinata, spaventata ma lucida. Rory Kinnear, intanto, è il vero epicentro e motore del film. La sua capacità di incarnare una galleria di personaggi - spesso grotteschi, talvolta comici, sempre inquietanti - è impressionante. Garland lo utilizza come una sorta di maschera multipla, un volto che si ripete e si deforma, fino a culminare in un finale visivamente scioccante e simbolicamente denso. Come ci si può attendere e come sempre, la regia è elegante e disturbante. I paesaggi rurali, fotografati con cura da Rob Hardy, diventano luoghi di tensione e minaccia. La colonna sonora di Ben Salisbury e Geoff Barrow amplifica il senso di straniamento, alternando momenti di quiete a esplosioni di dissonanza.



È un film che, comunque, divide. Per questo motivo il mio incipit stabilisce a priori la mia ammirazione. Alcuni lo troveranno criptico, altri lo considereranno una provocazione intellettuale. Ma è proprio nella sua ambiguità che risiede la forza dell’opera. Garland non vuole spiegare, vuole evocare. E ciò che evoca è un mondo in cui il trauma femminile si scontra con il prototipo maschile, generando un horror che non vive nei mostri, ma negli sguardi, nei silenzi, nelle parole dette e non dette. Un’opera disturbante, poetica e profondamente personale. Non per tutti, ma indimenticabile per chi è disposto a lasciarsi travolgere.



Il finale è uno dei più inquietanti, enigmatici e simbolicamente densi del cinema horror contemporaneo. Alex Garland abbandona ogni pretesa di realismo per immergersi in un body horror allegorico che culmina in una sequenza viscerale e surreale, destinata a dividere il pubblico tra chi lo considera un capolavoro e chi lo trova eccessivo o incomprensibile. Analizzando questo finale, si può dedurre che, nel climax del film, Harper si trova faccia a faccia con una serie di uomini - tutti, come detto, con il volto di Rory Kinnear / Geoffrey - che iniziano a “partorirsi” l’un l’altro in una catena grottesca e visivamente scioccante. Ogni uomo genera il successivo, in un ciclo di dolore, sangue e deformità.



L’ultimo a emergere è James, il marito defunto, che si presenta nudo e vulnerabile, con una ferita alla gamba che richiama quella della sua morte. Per indicare cosa? Questa scena è una rappresentazione visiva della perpetuazione della mascolinità tossica: ogni uomo nasce dall’altro, portando con sé le stesse dinamiche di controllo, giudizio e violenza. Garland sembra suggerire che certi archetipi maschili si rigenerano all’infinito, come un virus culturale che si trasmette da una generazione all’altra. Una metafora della riproduzione dei comportamenti patriarcali: non c’è evoluzione, solo ripetizione e ogni uomo è una variazione dello stesso schema. È una rappresentazione inesorabile del maschilismo su cui tanto discutiamo in questi anni.



Quando Harper chiede a James “Cosa vuoi da me?” e lui risponde “Solo il tuo amore” questa è una risposta che racchiude l’essenza della manipolazione emotiva: l’amore come ricatto, come giustificazione per il controllo e la violenza. Persino la ferita sulla gamba del marito morto ha il suo significato, è sempre un simbolo, in un film che ne è pieno. È il segno del trauma che Harper non riesce a lasciarsi alle spalle. La ferita è anche un tratto cristologico, evocando il martirio e la colpa. Ma per fortuna della donna, e forse anche merito, dopo la sequenza orrorifica, lei si siede nel giardino, sporca di sangue ma serena. Il giorno dopo, la sua amica finalmente arriva e la trova sorridente. Questo momento può essere interpretato come una rinascita: Harper ha affrontato i suoi demoni, ha guardato in faccia il trauma e ne è uscita trasformata. Non è chiaro se ciò che ha vissuto sia reale o simbolico, ma il cambiamento è tangibile. Il finale, quindi, è nascita, morte, ripetizione e rinascita. Finale volutamente aperto, ma profondamente evocativo: Garland non cerca di spiegare, ma di far sentire. È un’esplorazione visiva del trauma, della colpa e della liberazione. Un incubo che si chiude con un barlume di luce, non perché il mondo sia cambiato, ma perché lei ha trovato la forza di non lasciarsi più definire da esso.

 

I 2 premi e 36 candidature raccolti danno valore al film.

 


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