Monsieur Aznavour (2024)
- michemar

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Monsieur Aznavour
Francia 2024 biografico 2h13’
Regia: Mehdi Idir, Grand Corps Malade
Sceneggiatura: Mehdi Idir, Grand Corps Malade
Fotografia: Brecht Goyvaerts
Montaggio: Laure Gardette
Musiche: Varda Kakon
Scenografia: Stéphane Rozenbaum
Costumi: Isabelle Mathieu
Tahar Rahim: Charles Aznavour
Bastien Bouillon: Pierre Roche
Marie-Julie Baup: Édith Piaf
Camille Moutawakil: Aïda Aznavour
Hovnatan Avédikian: Misha Aznavourian
Narine Grigoryan: Knar Aznavourian
Ella Pellegrini: Micheline Rugel
Petra Silander: Ulla Thorsell
Luc Antoni: Raoul Breton
Nicolas Chupin: Jean-Louis Marquet
Gulia Avetisyan: Mélinée Manouchian
Dimitri Michelsen: Charles Trenet
Lionel Cecilio: Gilbert Bécaud
Victor Meutelet: Johnny Hallyday
Charlotte Agrès: Joséphine
Rupert Wynne-James: Frank Sinatra
TRAMA: L’ascesa del cantautore franco-armeno Charles Aznavour verso la celebrità nel corso degli anni ‘50 e la grande amicizia nata con Édith Piaf, che lo portò con sé in una tournée in Francia e negli Stati Uniti.
VOTO 6,5

Che personaggio, che personalità! Charles Aznavour, nome d’arte di Shahnourh Varinag Aznavourian di origine armena nato a Parigi il 22 maggio 1924 e vissuto fino a 94 anni: soprattutto e per sempre un grandissimo cantautore, ma poi anche attore (e diplomatico per l’UNESCO) che prese parte a ben 85 tra film, corti e serie Tv, un artista in senso pieno, completo, poliedrico. Noto per la caratteristica voce tenorile vibrata, nella sua carriera ultra-settantennale Aznavour ha venduto oltre 300 milioni di dischi e registrato più di 1.200 canzoni in nove lingue diverse (tra cui italiano e napoletano), scrivendo o co-scrivendo più di mille canzoni: una divinità del pop francese, come fu definito.

Di biopic su cantanti famosi nella storia della musica se ne sono stati fatti a bizzeffe e spesso maluccio. Di eccezioni di film riusciti se ne contano pochissimi: ebbene, una coppia affiatata di registi, certamente non vecchi, Mehdi Idir e Grand Corps Malade (nome d’arte del musicista Fabien Marsaud), entrambi nativi del dipartimento di Seine-Saint-Denis, al loro terzo film - sempre assieme, come anche come sceneggiatori - hanno avuto l’ardire di intraprendere un’operazione non facile: quella, appunto, di scrivere e dirigere un film sulla vita complessa e articolata de gigantesco artista che i giovani d’oggi non conoscono ma quelli “datati” ricordano bene. Bene perché c’è stato un periodo in cui ogni disco edito del divo (tale era davvero) era un successo assicurato, era ascoltato in tutto il mondo, in conseguenza anche della sua voglia estrema di voler far tradurre i suoi brani in altre lingue e cantarle personalmente, accrescendo così fama e successo. La sua vita artistica, partita come tanti, con difficoltà, in parte dovute all’occupazione nazista e alla povertà della sua famiglia, ebbe bisogni di tempo per affermarsi e quando pareva (un classico) che stesse mollando, ritenendosi sopravvalutato, ebbe il necessario e indispensabile colpo di fortuna: essere notato da quell’astro luminoso chiamato Édith Piaf, che prima lo portò nella sua tournée in America, poi lo consigliò e lo indirizzò per lanciarsi meglio nell’universo musicale.

Facile, anzi facilissimo confezionare un biopic sgangherato e non coinvolgente ed invece il duo registico ci riesce molto bene. Il perno su cui si aggera il film si chiama Tahar Rahim, attore che ha graffiato la storia del cinema con l’indimenticabile profeta di Audiard, e qui, opportunamente truccato e pettinato e con un naso prostetico di cui non si poteva fare a meno, tira fuori dal cappello a cilindro una performance notevolissima, eclettica, illuminata, impegnativa e riuscita. Encomiabile. Tutto il film è sulle sue spalle e mai fuori scena, essenzialmente perché il carattere fortemente volitivo dell’artista lo spingeva a decidere sempre seguendo l’istinto, spinto da una immaginazione e una fantasia artistica che gli forniva continuamente idee per affermarsi anche nei momenti più difficoltosi. Eccolo allora iniziare in coppia con un collega, Pierre Roche (Bastien Bouillon), cantare canzoni di altri, cimentarsi a scriversi da solo i brani per essere indipendente e seguire la propria ispirazione, osservare cantanti già affermati, provare nuove iniziative: un fermento inarrestabile. Fino al clamore mondiale, fino a riempire i teatri più importanti di tutti i continenti per una serie infinita di serate replicate.

Forse il carattere ottimista del buon padre Misha, oste che fallisce per eccessiva generosità e perseguito dai nazisti, forse l’amore in una famiglia unita anche dalle difficoltà di sopravvivenza, fatto sta che la voglia di questo giovane esuberante è tanta e quando si è spinti dalle proprie convinzioni succede, non sempre, di vincere la sfida della vita. Solo doti? Niente affatto: molti difetti. Si sposa ma la carriera lo allontana, si risposa (con fatica) ma trascura anche i figli seminati lungo il percorso. Soffre per tutto ciò, ma lo scopo della sua vita è solo uno: non fermarsi sugli allori, sui traguardi raggiunti che sono già enormi. Se non viaggia, come afferma, se non fa concerti, se non scrive altre canzoni, non si sentirà mai appagato e siccome non gli basta mai, tirerà dritto fino alla fine di una lunga vita, tralasciando troppo spesso gli affetti importanti che completano un’esistenza.
Mehdi Idir e Grand Corps Malade strutturano il film in 5 capitoli iniziando dalla scena significativa del taccuino rosso di Charles: è senza soldi, stanco, convinto di essersi sopravvalutato e parla con la sorella maggiore Aïda, presenza costante e silenziosa nella sua vita. È un dialogo intimo, domestico, lontano dal mito. Poi Charles prende una penna, apre il taccuino e scrive il titolo del primo capitolo: Le due chitarre. Subito dopo, il film guarda indietro: una fotografia dei genitori e l’infanzia prende corpo. Seguono La sua giovinezza, La Bohème, Potevo già vedermi, Portami via. Sono i periodi della sua vita, i momenti che segnano le svolte, come la celeberrima canzone che dà il titolo al terzo capitolo. Tappe che mostrano costantemente la sua insoddisfazione, la paura di non essere all’altezza, di sentirsi troppo spesso fuori posto, sempre di certo condizionato positivamente dall’infanzia felice (per l’amore e la compattezza familiare) e negativamente dalla discriminazione (per le ristrettezze economiche e l’origine di figlio di immigrati). Ma mai soddisfatto: lo abitava un’inquietudine continua ed ogni concerto nei più granfi teatri non erano per lui mai un traguardo, ma una tappa dopo cui riprendere a salire.

I due registi non ne fanno un’opera agiografica ma un ritratto intimo e struggente e mantengono la narrazione più che altro come un romanzo avventuroso, in cui l’attore riesce a farci immergere nell’animo del protagonista per mostrare i disagi interiori, la psicologia, lo sforzo continuo che si imprimeva per affermarsi e dimostrare il suo talento. Per questo era sempre insoddisfatto, atteggiamento che però si scontrava con l’irruenza che a volte mostrava nelle mura domestiche, dove era difficile che si accorgesse dei bisogni degli altri. Egoista, sicuramente; prodigo con il danaro, anche; generoso di affetti, solo quando aveva tempo. E questo fu un gran difetto. I registi, approvati personalmente dal personaggio celebrato, come hanno affermato, volevano fin dall’inizio concentrarsi sulle sue stagioni difficili, prima del successo, la sua vicinanza con Édith Piaf e lo stesso Aznavour, quando era ancora in vita, aveva dato il suo benestare al progetto, desiderando che il film si fermasse lì, prima della svolta. “Ma non potevamo escludere gli anni Sessanta, la sua decade magica, volevamo che il pubblico potesse anche ascoltare le sue canzoni più celebri”. Come dar loro torto?

L’ottimo Tahar Rahim si veste del mito senza mai scivolare nell’imitazione. “L’obiettivo era incontrarci a metà strada, io e Charles”, racconta. Per mesi ha lavorato su canto, piano e danza, ha adottato la voce e il ritmo di Aznavour anche lontano dal set, studiandone ogni gesto, ogni inflessione. La somiglianza fisica è costruita con pudore, senza maschere né artifici: ciò che emerge è un ritratto vibrante, stratificato, profondamente umano. L’essenziale è, per gli autori, dimostrare che il personaggio aveva una volontà fuori dal comune e un’energia rara, ma, purtroppo, la sua dedizione lo allontanò dai suoi affetti, sacrificandoli sull’altare dell’arte che aveva dentro.

Buon lavoro di regia, buona la scelta dei vari brani, da quelli più famosi e quelli meno noti. Attori molto efficaci, espressivi, ottimi ambasciatori di quei tempi, su cui ovviamente emerge l’impegnativa prova di Tahar Rahim, senz’altro una bella sorpresa per un ruolo del genere. Fotografia degna di attenzione, carica dei colori dell’epoca, come la scenografia tutta e gli abiti in perfetto stile. Un cast tecnico, insomma, degno di attenzione e approvazione. Non sono pregi da sottovalutare, perché indicano che il film è stato ben congegnato e realizzato, anche nella scelta del buon cast artistico. Di contro, va necessariamente rilevato che il confezionamento è di certo di stampo classico, non innovativo, e resta nel solco dei biopic di facile fruizione. Inoltre, appare una seconda parte più frettolosa e meno “innamorata” della prima, perché fuor di dubbio che la parte dell’infanzia appare forte dal punto di vista drammaturgico. Ed infine, è chiaro che sia un’opera che vuole celebrare, com’è giusto che sia e, tranne le impennate caratteriali, il film non pone conflitti o contraddizioni, preferendo scelte funzionali e tranquillizzanti. I filmati d’epoca prima e durante i titoli di coda fanno capire, però, che Charles Aznavour era inimitabile. Che personaggio, che personalità!

Una domanda si porranno gli spettatori, come è successo a me: Tahar Rahim canta davvero?
Nonostante l’intenso lavoro vocale svolto dall’attore per avvicinarsi al timbro e al ritmo di Charles Aznavour, la produzione non ha mai chiarito ufficialmente se le performance musicali del film siano cantate dall’attore o basate sulle registrazioni originali del cantante. Le recensioni e le interviste disponibili si concentrano sulla sua trasformazione fisica e interpretativa, senza entrare nel dettaglio tecnico delle parti cantate. Una scelta che lascia volutamente in sospeso la questione, mantenendo l’attenzione sul ritratto umano più che sulla fedeltà sonora. L’impressione che ho avuto io durante la visione è che si alternano voce originale e quella impostata, e difatti quando è quella del cantante si intuisce chiaramente. E se la cava benissimo!
Riconoscimenti
César 2025:
Candidatura miglior attore Tahar Rahim
Candidatura miglior costumi
Candidatura miglior scenografia
Candidatura miglior sonoro













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