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Showing Up (2022)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 6 set
  • Tempo di lettura: 5 min
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Showing Up

USA 2022 commedia drammatica 1h47’

 

Regia: Kelly Reichardt

Sceneggiatura: Kelly Reichardt, Jonathan Raymond

Fotografia: Christopher Blauvelt

Montaggio: Kelly Reichardt

Musiche: Ethan Rose

Scenografia: Anthony Gasparro

Costumi: April Napier

 

Michelle Williams: Lizzy Carr

Hong Chau: Jo Tran

Maryann Plunkett: Jean Carr

John Magaro: Sean Carr

André 3000: Eric

James LeGros: Ira

Judd Hirsch: Bill Carr

Ted Rooney: Ted

Heather Lawless: Marlene

Amanda Plummer: Dorothy

Matt Malloy: Lee

 

TRAMA: Una scultrice in difficoltà cerca di finire in tempo la sua ultima mostra, in mezzo a piccoli problemi familiari e personali. Mentre si destreggia tra famiglia, amici e colleghi, il caos della vita si trasforma in ispirazione.

 

VOTO 6,5


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Kelly Reichardt torna, come sempre e come ama lavorare, a esplorare il quotidiano con la sua consueta lentezza contemplativa, ma questa volta lo fa attraverso il prisma dell’arte e della frustrazione creativa. Ambientato in una Portland contemporanea, il film segue Lizzy (Michelle Williams), una scultrice alle prese con la preparazione di una mostra che potrebbe segnare una svolta nella sua carriera. Ma la sua vita è tutt’altro che ordinata: una famiglia disfunzionale, una coinquilina/proprietaria/artista che non fa mai riparare il fottuto scaldabagno e un piccione ferito che diventa metafora vivente del suo stesso stato emotivo.



Reichardt costruisce un racconto che si muove con la stessa delicatezza delle ceramiche che Lizzy modella. Il processo artistico è mostrato come un atto fisico, imperfetto, che richiede cura e pazienza, ma che può essere facilmente compromesso. La regista evita ogni cliché del cinema sull’arte: non c’è genio tormentato né epifania creativa, solo la fatica di vivere e creare in un mondo che non sembra voler collaborare.



Michelle Williams, alla sua quarta collaborazione con Reichardt, offre una performance di sottrazione: il suo volto è una mappa di micro-espressioni, il corpo un contenitore di tensioni silenziose. Lizzy è scontrosa, introversa, spesso respingente, ma profondamente umana. È una figura che si muove ai margini, come le protagoniste del delicato e profondo (bellissimo) Certain Women o l’altrettanto problematico Wendy and Lucy, ma qui il margine è interno, emotivo, quasi invisibile. O meglio, lo è se la si osserva nel modo di vestirsi, che sarebbe già un eufemismo. Lei si copre. Indossa i vestiti senza alcuna pretesa di eleganza e presentabilità, quasi sciatta, sempre con calzini e ciabatte, muovendosi stancamente con l’espressione di chi non ha alcuno scopo nella vita se non quello, unico e preminente, di portare a termine la maledetta collezione di piccole sculture ora che la mostra programmata è proprio imminente.



È una donna che pare non abbia nulla da dire di sé ed il film ne è la fotografia fedele, opera che pare abbia poco o nulla da raccontare come ogni tanto capita in film che danno quella impressione e che invece hanno tanto dentro e spiega molto per capire di cosa è fatto il cinema. Cioè, di tempo, a volte di poco spazio, di sentimenti, di riflessioni personali dei protagonisti e degli autori. Ambientato in una Portland ridotta al minimo che vediamo: appartamenti/studio di artisti che gravitano intorno a una scuola, dove lei sbarca il lunario facendo da segretaria in cui lavora anche la madre (separata, come sempre, dove il maturo marito fa il galletto con qualsiasi donna) e gestisce la burocrazia per artisti che sono anche vicini di casa. Tutto in una geografia mentale che al montaggio costruisce lo spazio come un alveare soffocante e afoso.



La regista la segue, la pedina, avvertiamo il lento respiro e l’espressione di chi non si aspetta nulla, scocciata della gente che le fa perdere tempo che dovrebbe invece dedicare totalmente alle sue creazioni, tanto da dover ricorrere alla notte per completare gli oggetti da esporre, scambiando solo qualche chiacchiera con la collega/padrona/coinquilina Jo Tran (Hong Chau) soprattutto da quando è successo un fatto nuovo. Minimo, come questo racconto, ma che cambia il corso monotono della vita quotidiana. Il suo gatto ha aggredito un piccione e lo ha portato in casa (non fanno sempre così?) come trofeo, ma con un’ala ferita. Non sapendo cosa fare, ed avendone schifo, lo vuole soccorrere e l’amica l’aiuta fasciando il volatile, ma poi pensando non sia sufficiente lo porta da una veterinaria. Un piccione dal veterinario! Si era mai visto? Ebbene, lei lo fa. Da quel giorno le due donne non fanno che rubarsi il piccione per tenerlo nella scatola nella carta che lo tiene caldo e che accudiscono come un neonato. Per il resto vita piatta.



Fino all’agognato giorno della mostra, dove finalmente si fa vivo il fratello Sean (John Magaro, rieccolo con la regista dopo First Cow), soggetto sbilenco e strambo come pochi, che avrebbe bisogno di aiuto psicologico e che si pone, letteralmente, vicino al buffet per divorare il formaggio. Poi ecco le poche amicizie, la mamma che la rimprovera sempre, il papà spiritoso che rimorchia, Jo che si complimenta. Anche il piccione è lì e un paio di ragazzini gli tolgono la fasciatura: è guarito e si mette prima a volare nel locale e poi trova l’uscita per la libertà ritrovata. Un po’, metaforicamente, come la vita di Lizzy, che finalmente ha realizzato la sua galleria ed ora sarà un po’ più libera e, chissà, magari anche più positiva e sorridente: vedi come è felice a vedere il piccione prendere il volo? C’è il colpo di scena finale? Ci sarà quello che nel gergo anglosassone chiamano punchline? Macché, attesa inutile: la vita riprende, ognuno per la sua strada. Non sapremo mai neanche se Lizzy può tornare a fare la doccia con l’acqua calda, maledetto boiler! Ormai sarà stufa di chiedere a chiunque se può approfittare della loro doccia!



In un film che respira la lentezza, la fotografia (tra l’altro, volutamente sgranata) di Christopher Blauvelt accentua lo scarso contrasto dei colori della routine, ma non la appiattisce: la luce naturale, i colori spenti, i silenzi prolungati creano un’atmosfera sospesa, dove ogni gesto quotidiano diventa significativo. Kelly Reichardt non cerca il dramma, ma lo lascia emergere come una crepa nel muro, come un piccione che non riesce a volare, come il sorriso spento della protagonista, come la poca disponibilità della vicina di casa, come forma delle creazioni di Lizzy: donne. Donne che corrono, che ballano, colorate ma che il forno scurisce. La sua vita, in fondo. Piccole figure femminili in ceramica, modellate con una delicatezza che riflette la sua interiorità. Le loro forme sono gracili, spaventate, spesso ritratte in movimenti ambigui, tra la gioia e l’angoscia. Non sono idealizzate né eroiche: sembrano quasi sul punto di spezzarsi, come se il gesto artistico fosse anche un tentativo di contenere la fragilità. E comunque, no, il colpo di scena finale non c’è, non è del cinema di Reichardt.



Ciò vuol dire che il film richiede pazienza e attenzione, come le opere che ritrae. Non offre risposte né catarsi, ma accompagna lo spettatore in un viaggio sommesso dentro la fatica di essere e di creare. È un ritratto sincero e disarmante dell’arte come forma di resistenza e della vita come processo imperfetto e continuo. Un’opera che, come le sculture di Lizzy, si rivela lentamente, e forse proprio per questo, resta impressa. Michelle Williams è disarmante nella sua semplicità e malinconia. Non c’è nulla da fare: è l’attrice adatta per la regista di Miami.



Film considerato erroneamente minore, è minimale perché semplice, sobrio, essenziale, ma profondo nel cercare il carattere del personaggio.

Presentato a Cannes 2022, ha ricevuto 5 premi e 10 candidature.

 


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michemar

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