Adam (2019)
- michemar

- 15 ott
- Tempo di lettura: 5 min

Adam
Marocco, Francia, Belgio, Qatar 2019 dramma 1h38’
Regia: Maryam Touzani
Sceneggiatura: Maryam Touzani, Nabil Ayouch
Fotografia: Virginie Surdej
Montaggio: Julie Naas
Musiche: Kristian Eidnes Andersen
Scenografia: Pilar Paredo
Costumi: Ayda Diouri
Lubna Azabal: Abla
Nisrin Erradi: Samia
Douae Belkhaouda: Warda
Aziz Hattab: Slimani
TRAMA: Abla gestisce una modesta panetteria locale dalla sua casa di Casablanca, dove vive da sola con sua figlia di otto anni Warda. Quando Samia, una giovane donna incinta, bussa alla loro porta le sue vite cambieranno per sempre.
VOTO 7

L’esordio che illumina la carriera che ne seguirà della bravissima Maryam Touzani, sempre con la collaborazione alla produzione, scrittura e sicuramente alla regia del collega e compagno Nabil Ayouch, è un’opera che indica chiaramente quale cammino percorrerà il suo cinema anche nel futuro, perché il film seguente, Il caftano blu, ancora più bello, ne è semplicemente la conferma. L’artista, regista, sceneggiatrice e attrice marocchina, aveva iniziato la sua carriera nel giornalismo cinematografico, poi all’inizio degli anni 2000 diventa anche attrice e quindi sceneggiatrice e regista di cortometraggi e documentari fino ad approdare ai lunghi. Questo è il suo magnifico primo film, marocchino, interpretato da attrici che interpretano due bellissimi personaggi di donna. Film femminista che però evita l’insidia della militanza pretestuale.


Una giovane donna, Samia (interpretata da Nisrin Erradi), incinta di nove mesi, vaga per le stradine di Casablanca alla ricerca di un posto dove vivere e magari di un lavoro. Bussa a tante porte della città, dopo aver lasciato il suo villaggio per risparmiarsi l’onta di una gravidanza da non sposata. Gli sguardi sono sospettosi, le coscienze sono restie ad accettare una donna che si pensa abbia una brutta vita. Una vedova, Abla (interpretata da Lubna Azabal) è inizialmente, come tutte le altre famiglie, sospettosa e non è disposta a fornirgli un tetto sopra la testa e un lavoro, prima di decidere di portarla a casa sua per qualche notte, dopo averla osservata esausta seduta su un gradino del portone di fronte. Dalla morte del marito pescatore, Abla ha cresciuto da sola la figlia Warda di 8 anni e si guadagna da vivere vendendo pane e qualche altro prodotto che prepara nel piccolo forno di casa, ad una finestrella affacciata sulla strada a cui si rivolgono i clienti. Dopo l’arrivo di Samia nella sua casa, tra le due donne avviene un avvicinamento che ha non poche difficoltà a maturare, che pare difficile, ma lentamente avrà luogo, gradualmente, scuotendo l’apatia e la monotonia della vita della fornaia, dovute alla pesante assenza che avverte. Samia ha il grande merito, anche involontario per il suo stato di gravidanza, ma tanto anche per il suo carattere espansivo e gioioso, di scuotere la padrona di casa, fino a giungere ad una complicità tutta femminile che prima era impensabile.


Il vero problema è che Samia non ha intenzione di tenere il nascituro perché lo ritiene un ostacolo per lei – perché la società la condannerebbero a vivere come una paria in quanto madre senza marito - ed un impedimento al figlio che vivrebbe un futuro da bastardo, sicuramente dileggiato dagli altri. Invece coltiva la speranza di affidarlo in adozione appena nato e poi tornare nella città di provenienza, dimenticando tutto. Infatti, la regista non ci svelerà mai perché e da chi è rimasta incinta e non sapremo mai del suo passato: tutto è concentrato sulla permanenza nella casa e nell’aiuto sostanzioso che dà alla fornaia, e in quello che riceve, preparando dolci molto apprezzati dai clienti ed incitando Abla a vivere meglio la vita, magari accettando finalmente la corte di Slimani (Aziz Hattab), il fornitore che le consegna farina e zucchero.


Infatti, in Marocco, come in molti altri paesi del Maghreb e di tutto il Medioriente, le giovani ragazze che hanno la sfortuna di rimanere incinte senza avere un marito vengono rifiutate dalla società, considerate come ragazze facili e prostitute. È il caso appunto di Samia, un bellissimo personaggio che si affaccia subito nel film sin dalla prima scena senza che lo spettatore sappia nulla del suo percorso personale, ma che può notare evidente questa pancia rotonda che annuncia l’arrivo di un piccolo essere purtroppo indesiderato. Sperando di trovare un’oasi di pace o almeno di tranquillità per poter partorire, il merito è tutto della piccola Warda, che riesce a farle avvicinare e convivere. Queste tre donne di generazioni diverse - una vedova, una giovane donna incinta e una bambina di otto anni - sono in definitiva rappresentative della situazione contrastante delle donne in Marocco, tra sottomissione ed emancipazione.


L’idea artistica e la bravura della regista, tuttavia, emergono con la grande qualità di questo primo lungometraggio, che non è mai teorizzante o esplicativo. Se Touzani intende sviluppare idee femministe, non sventola una bandiera, non alza il tono, e preferisce rimanere all’altezza dei suoi personaggi femminili, senza escludere, però, il genere maschile dal suo campo visivo poiché l’unico uomo sullo schermo è Slimani, un uomo gentile e premuroso. Nel contempo, fa intendere ciò che accade oltre il nostro sguardo ed evoca fuori dallo schermo una società patriarcale che non accetta l’indipendenza delle donne. Intelligentemente, la regista non accusa ciecamente tutti gli uomini individualmente, ma piuttosto una società organizzata da e per gli uomini. Che è una grave faccenda vecchia e ben nota.


Il cuore del film è il legame graduale tra due donne con storie personali complicate, rapporto che cresce piano, ma mai annoiando, passo dopo passo, con noi che aspettiamo il gesto o la parola successiva, magari il sorriso che apre la prospettiva di una felice convivenza temporanea, il tempo cioè che basta fino al parto. Non manca neanche la speranza che la fornaia la inviti a rimanere per sempre, chissà, anche se è chiaro che la girovaga voglia tornare a casa, ma senza bambino. Anzi, è su questo argomento che discutono più di una volta, affinché Abla convinca l’altra che sarebbe bello se cambiasse idea e si tenesse il figlio. La regista riesce a dire molto sui suoi personaggi, li approfondisce ma in modo esaustivo solo per la vedova, che un giorno racconta, anche se in un primo momento non voleva ricordare quel brutto giorno, come le è venuto a mancare il marito. Invece di Samia rimarremo ignari del passato e del futuro. La regista esamina tutto ciò non molto con il percorso obbligatorio del dialogo preferendo osservare i loro gesti quotidiani e favorendo lo scambio di sguardi, con una grande economia di mezzi che finisce via via per stimolare l’emotività.


L’ultima parte è dedicata al parto e al dibattito intimo della giovane che - dopo il rifiuto fisico verso il bimbo che ha deciso di chiamare Adam, un nome biblico, non volendo allattarlo e addirittura tenerlo in braccio nonostante i pianti del piccolo affamato - ora si impietosisce, anche sotto le pressioni di Abla. È ancora decisa a darlo ad una famiglia da trovare, ma la tenerezza suscitata da quel minuscolo essere la porta finalmente ad accarezzarlo, baciarlo, coccolarlo. Quando finalmente crolla, la scoperta dei suoi primi gesti materni dà origine alle scene più belle del film. Così, la regista gira magnifiche inquadrature tra l’attrice Nisrin Erradi e il bambino, entrambe di grande dolcezza, ma anche cariche di minaccia quando dubitiamo delle intenzioni della giovane donna. Infatti, con le lacrime della sofferenza ha deciso: l’indomani va via mentre le altre due dormono per portare a compimento il progetto che ha sempre avuto in mente. Con la speranza che possa essere il primo uomo in un nuovo mondo che finalmente avrebbe rispettato le donne.



Maryam Touzani ci dà una prova del suo talento con questo esordio e la conferma ci arriverà con il seguente succitato. Ottime le due attrici: su Lubna Azabal mi sono sempre espresso da entusiasta (lo ripeto, è la magnifica Nawal Marwan de La donna che canta del mio amatissimo Villeneuve), la bella sorpresa è Nisrin Erradi, interprete che è capace di offrire quello di cui il film aveva bisogno. Una gran dote.



11 premi e 20 candidature sono la dimostrazione di un esordio lusinghiero nel lungometraggio. Un apologo semplice e lineare sulla solidarietà femminile in una nazione di patriarcato ancora dominante.






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