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Cerrar los ojos (2023)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 17 set
  • Tempo di lettura: 8 min
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Cerrar los ojos

Spagna, Argentina 2023 dramma 2h49’

 

Regia: Víctor Erice

Sceneggiatura: Víctor Erice, Michel Gaztambide

Fotografia: Valentín Álvarez

Montaggio: Ascen Marchena

Musiche: Federico Jusid

Scenografia: Curru Garabal

Costumi: Helena Sanchís

 

Manolo Solo: Miguel Garay

José Coronado: Julio Arenas / Gardel

Ana Torrent: Ana Arenas

Petra Martínez: suor Consuelo

María León: Belén

Mario Pardo: Max Roca

Helena Miquel: Marta Soriano

Antonio Dechent: Tico Mayoral

José María Pou: Ferrán Soler (Mr. Levy)

Soledad Villamil: Lola San Román

Juan Margallo: dott. Benavides

Venecia Franco: Qiao Shu

 

TRAMA: Un famoso attore spagnolo, Julio Arenas, scompare durante le riprese di un film. Sebbene il suo corpo non venga mai ritrovato, la polizia conclude che l’uomo ha subito un incidente in riva al mare. Molti anni dopo, il mistero di Arenas torna d’attualità a causa di un programma televisivo che cerca di evocare la figura dell’attore, mostrando in anteprima le immagini delle ultime scene a cui ha partecipato, girate da quello che era il suo più caro amico, il regista Miguel Garay.

 

VOTO 9


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Víctor Erice, cinque film in 54 anni. Torna dopo più di trent’anni dal documentario Il sole della mela cotogna con un meraviglioso film che non è mai stato distribuito in Italia (incredibile!) ma trasmesso solo su RAI3 nell’ambito della benemerita rubrica “Fuori orario. Cose (mai) viste” e finalmente lo si è potuto godere e ammirare.



L’inizio è, per chi non conosce la trama, può sembrare fuorviante ed invece è parte integrante e determinante: le prime sequenze mostrano una villa sperduta nella campagna parigina chiamata Triste le Roy, nel 1947, in cui un ricco anziano ebreo suona al pianoforte, mentre la macchina da presa inquadra la statua di un busto bifronte. Il signore è Ferrán Soler, alias Mr. Levy (José María Pou) ed è in attesa, appena giunto, del signor Franch, annunciato dal fedelissimo servo cinese. Il padrone di casa lo ha invitato per affidargli un incarico speciale e difficile: rintracciare la giovane figlia che ha avuto da una relazione con una donna cinese, un vecchio amore. Sono molti anni che non ha notizie della ragazza ed ora, che è vecchio e malato, prima di morire vorrebbe vederla. Occorre andare lontano, in Cina, ma l’impresa non spaventa l’uomo, che sicuramente ha bisogno di danaro. Ed accetta. Purtroppo, passa del tempo, tanto tempo, e di Franch si perdono le tracce. Che fine avrà fatto?



Questo inizio, come detto, sembra spiazzante ai fini della trama perché è solo una piccola parte del girato giornaliero di un film in corso di realizzazione a cura del regista Miguel Garay (Manolo Solo), film mai terminato per la sparizione dell’attore protagonista. Si doveva chiamare La mirada del adiós.



La storia, che si sovrappone a quella del film del set visto all’inizio, è un viaggio nel tempo e nella memoria, una riflessione sul potere evocativo delle immagini e sul loro progressivo svanire. È anche, inevitabilmente, una dichiarazione d’amore al cinema e alla sua capacità di custodire ciò che la vita tende a cancellare, facendo diventare questa pellicola una soglia tra la memoria e l’oblio. Quelle riprese sul set riguardano in realtà il film incompiuto che lo stesso Erice finge di aver girato negli anni ‘90. Durante le riprese, infatti, l’attore protagonista Julio Arenas (José Coronado) - che interpreta l’inviato - scompare anche lui misteriosamente. Il caso, irrisolto, resta un cold case e viene archiviato, non essendo la polizia riuscita a ritrovarlo né a stabilire con certezza che fine avesse fatto. Passano circa 20 anni e un programma televisivo riapre il caso (una trasmissione simile alla nostra Chi l’ha visto), coinvolgendo il regista Miguel Garay, amico di sempre e commilitone in Marina di Julio, in una ricerca che è al tempo stesso investigativa e interiore.



Il film diventa ora un’operazione malinconica e di memoria, un film sul vedere, sul ricordare, sul perdersi. Il titolo (Chiudi gli occhi) suggerisce già la tensione centrale dell’opera: chiudere gli occhi per vedere meglio, per evocare ciò che è stato, per accedere a una verità che non è mai visibile in superficie. Erice costruisce un racconto che si muove tra il visibile e l’invisibile, tra il presente e il passato, tra ciò che è stato filmato e ciò che è rimasto fuori campo.



La struttura è volutamente frammentaria: il film nel film, le interviste televisive, le conversazioni intime, le immagini d’archivio, scatole di ricordi, foto in bianco e nero, gli amici che si ritrovano a distanza di tempo, la vita isolata in riva al mare ed una roulette come abitazione, solo pochi e fidati compagni di vita ed un cane fedelissimo. Assoluta assenza di donne. Ogni segmento è un tassello di un mosaico emotivo che non cerca di ricomporre una verità oggettiva, ma di restituire la vibrazione di un’assenza. Come scrive il giornalista e critico brasiliano Carlo Alberto Mattos, in arte Carmattos, “il cinema può ancora operare miracoli” e questa misteriosa, affascinate opera è, in questo senso, un miracolo silenzioso. Fatto di frasi distaccate, riflettute, pronunciate lentamente, e pause pensanti e pesanti. Una storia lunga, narrata lentamente, con i tempi necessari, che però non stanca. A nessuno spettatore verrà mai in mente di guardare l’orologio, anzi ci si dimentica del tempo, rapiti da tutto ciò che succede e non succede, dalla magistrale interpretazione di tutti gli attori, molto espressivi, dalla magnifica fotografia, dalle scenografie naturali.



Manolo Solo interpreta magnificamente Miguel con una malinconia trattenuta, fatta di pause, esitazioni, fronte aggrottata, occhioni sgranati per sguardi che sembrano cercare qualcosa che non si può più trovare. Che attore! Ana Torrent, che interpreta la figlia di Julio (gli esperti del mitologico regista la ricordano ancora bambina in Lo spirito dell’alveare in cui diceva “Io sono Ana” e qui lo ripete, e lo ripete al padre ritrovato) torna come figura di continuità e memoria. José Coronado, nel ruolo di Julio, è presente soprattutto come fantasma, come eco, come immagine che resiste al tempo. Non sono da meno, come bravura, gli altri componenti del cast, in personaggi che non sono mai semplici funzioni narrative: sono testimoni, sopravvissuti, custodi di una memoria che il film cerca di riattivare. La loro presenza è discreta, ma profondamente significativa.



La durata del film, quasi tre ore, non è un ostacolo, ma una necessità. Erice rifiuta la velocità, la sintesi, la semplificazione. Il suo è un cinema che chiede tempo, attenzione, disponibilità. Ogni scena è un invito alla contemplazione, alla sospensione, alla riflessione. Qualche giorno fa ho letto su un giornale che questo è “un film che non si guarda, si attraversa”. Questa lentezza non è solo stilistica: è politica. In un’epoca dominata dalla frenesia e dalla superficialità, Erice rivendica il diritto alla profondità, alla durata, alla complessità. Il suo cinema è un atto di resistenza contro l’oblio.



Questo suo lavoro è anche una riflessione sul cinema stesso: sul suo potere, sulla sua fragilità, sulla sua capacità di conservare ciò che la vita tende a dissipare. E lo si avverte chiaramente durante la visione, che diventa mistica, religiosamente attenta. Quel frammento iniziale del film mai finito è un esempio di cinema puro, teatrale, contemplativo, che richiama i grandi autori che non esistono più. Ammetto che è proprio durante quei primi minuti che il film mi ha completamente rapito, agganciato, incatenato. Il riferimento e la citazione di una celebre frase di Dreyer ne è la prova, perché come dice Max (Mario Pardo), il proiezionista del regista (quello della trama), “Al cinema non ci sono più miracoli dopo la morte di Dreyer”. Questa frase, semplice ma potentissima, racchiude uno dei temi centrali del film: la fine di un’epoca del cinema spirituale, silenzioso, profondamente umano. Dreyer, regista di capolavori come La passione di Giovanna d’Arco e Ordet, è evocato come simbolo di un cinema capace di trascendere la realtà e toccare il sacro. La citazione non è solo un omaggio, ma una dichiarazione poetica sullo stato del cinema contemporaneo. Ma è anche un cinema che non può più esistere, se non come ricordo, come sogno, come possibilità.



Erice non cerca di ricostruire il passato, ma di evocarlo. Il suo sguardo è insieme nostalgico e lucido, poetico e critico mediante un film che interroga il cinema, che lo mette in discussione, che lo celebra e lo problematizza. Erice sembra voler riflettere sull’assenza, sull’incompiutezza e sul potere evocativo delle immagini. Il timore è che il film rappresenti anche una parola definitiva sulla concezione di cinema che l’autore abbia ed è anche un possibile addio. È un testamento, un ultimo sguardo, di una chiusura che non è definitiva ma consapevole. È un’opera che non cerca di piacere, ma di restare. Di sedimentarsi. Di essere ricordata.



Non conoscevo questo regista e dal clamore della messa in onda notturna mi ha spinto ad interessarmi ed ho scoperto un genio. Sono rimasto a guardare ammutolito e rapito e i 169 minuti sono volati, affascinato dal colore, dalle espressioni degli occhi, dai minimi movimenti del viso di chiunque fosse davanti all’obiettivo, oltre che seguire con passione l’indagine paziente e intelligente, come un investigatore, del protagonista Garay. Ma poi, chi è davvero il protagonista? Difficile ora capirlo bene, forse si riesce ad avere una vaga conoscenza mediante il lavoro certosino dell’amico, ma anche con le insistenze della conduttrice del programma che fa riaprire il caso della sparizione: che è anche un ballerino di tango, uno sciupafemmine, il papà di una donna ormai matura (“Io sono Ana”), un uomo che ha dimenticato se stesso, che ha un altro nome. Ritrovato in un ricovero in un’istituzione di suore, lo hanno ribattezzato Gardel e non riconosce nessuno, neanche l’amico per la pelle di sempre, che cerca in tutti i modi (la foto della ragazzina cinese da rintracciare nel film nel film, la foto di loro due in Marina, le canzoni che cantavano assieme, l’amica Lola San Román di cui si erano innamorati entrambi, - toh!, chi si rivede, Soledad Villamil, la protagonista di Il segreto dei suoi occhi) di farlo ritornare tra loro e nella memoria.



Il prefinale è emozionante: Julio Arenas / Gardel, toccato dai ricordi fornitigli, guardando il “giornaliero” del set del film dimenticato, alza la testa incuriosito e fulminato e… chiude gli occhi. Infine, si torna nella villa parigina dell’anziano, che ha pazientato ed ha fatto bene: gli viene portata finalmente la figlia cinese, che conserva ancora il ventaglio con cui la madre chiudeva il suo spettacolo ogni sera a Shangai. Le ultime inquadrature sono dedicate al busto bifronte della villa, che assurge così, comparendo all’inizio e al termine, ad essere uno dei simboli più potenti e stratificati del film. I due volti richiamano il tema del doppio, centrale nel film. Non solo ci sono due film (quello incompiuto e quello che lo contiene), ma anche due identità, due memorie, due temporalità. Il personaggio di Julio Arenas, scomparso e poi ritrovato, incarna questa scissione.



Ad entrambi Víctor Erice regala meravigliosi primi piani su visi che esprimono tutta una serie di sentimenti e sensazioni intime, un ventaglio di emozioni manifestate solo con gli occhi o con le rughe della fronte, da un movimento impercettibile delle labbra o dallo spostamento delle pupille: che bravo Jose Coronado! Ma io sono sbalordito dall’interpretazione di Manolo Solo: sul suo viso tutta la malinconia di una persona disillusa nell’autunno della vita, come quello che infuria sul mare di fronte alla sua roulotte.



Un film che non si dimentica, perché parla proprio di ciò che rischiamo di dimenticare.

Che capolavoro!




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Riconoscimenti (su un totale di 21 premi e 61 candidature)

Goya 2024

Miglior attore protagonista Jose Coronado

Candidatura miglior attrice non protagonista Ana Torrent

Candidatura miglior protagonista Manolo Solo

Candidatura miglior regista

Candidatura miglior sceneggiatura

Candidatura miglior scenografia

Candidatura miglior suono

Candidatura miglior fotografia

Candidatura miglior montaggio

Candidatura miglior film

Candidatura miglior produttore




 



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