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Giorni d’estate (2020)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 16 lug
  • Tempo di lettura: 6 min
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Giorni d’estate

(Summerland) UK 2020 dramma 1h39’

 

Regia: Jessica Swale

Sceneggiatura: Jessica Swale

Fotografia: Laurie Rose

Montaggio: Tania Reddin

Musiche: Volker Bertelmann

Scenografia: Christina Moore

Costumi: Claire Finlay-Thompson

 

Gemma Arterton: Alice Lamb

Lucas Bond: Frank

Penelope Wilton: Alice anziana

Gugu Mbatha-Raw: Vera

Martina Laird: Vera anziana

Toby Osmond: Frank adulto

Tom Courtenay: Mr. Sullivan

Dixie Egerickx: Edie

Siân Phillips: Margaret Corey

Amanda Root: Mrs. Lawrence

Jessica Gunning: Mrs. Bassett

 

TRAMA: Alice, scrittrice dallo spirito libero, si rifugia nel suo lavoro. Profondamente sola, è ancora ossessionata da una storia d’amore passata quando il piccolo e vivace Frank, salvatosi dal blitz dei tedeschi su Londra, viene lasciato alle sue cure. L’innocenza e la meraviglia di Frank risveglieranno in Alice emozioni fin troppo a lungo sepolte.

 

VOTO 6,5


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Siamo sulla costa meridionale dell’Inghilterra, in pieno conflitto mondiale. Alice (Gemma Arterton) vive da sola nel suo isolamento, nella negazione del mondo, immersa solo nei suoi studi e nella stesura di saggi sul folklore e la mitologia. Una donna razionale, allergica alla spiritualità, respinge ogni forma di credenza che non sia verificabile. La chiamano “strega” nella piccola cittadina ai margini della quale vive in una casa piena di reperti e miti smontati pezzo per pezzo, e a nessuno importa davvero capirla. È scontrosa e non gradisce contatti con gli altri esseri umani. Vive solo nel ricordo e nella nostalgia di un amore vissuto anni prima con la gentile Vera (Gugu Mbatha-Raw) che era felice con lei ma aveva preferito allontanarsi per l’innato desiderio di maternità. Era sparita ed ora non ha più notizie.



Poi arriva Frank: un ragazzino londinese evacuato a causa dei bombardamenti. Le autorità hanno deciso che debba essere affidato proprio a lei. Il ragazzino, vivace ed educato, ha dovuto lasciare la mamma a Londra, mentre il papà è imbarcato su una nave da guerra nella marina britannica. Lo accompagna lì il direttore della scuola del luogo, Mr. Sullivan (Tom Courtenay), un uomo cortese e garbato, molto premuroso verso i ragazzi e sempre disponibile al dialogo. L’impatto iniziale è ostile, Alice, che non sopporta la vicinanza di alcuno, non gradisce la scelta che hanno fatto senza consultarla e cerca di respingere l’iniziativa, lasciando impacciato e dispiaciuto il giovanissimo Frank, spostato di qui e di là come un pacco postale. A poco servono la gentilezza e la disponibilità del direttore ma solo un patto riesce a scardinare la resistenza della donna: il ragazzo rimarrà presso di lei solo per una settimana, il tempo di farlo ambientare nella, per lui, nuova scuola e nel frattempo si cercherà un’altra sistemazione.


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Ovvio che, dopo i primi momenti di impaccio e ostilità da parte della padrona di casa, gli attriti si limano e qualche dialogo nasce anche per l’educazione e la simpatia di Frank, che riesce ad ammorbidire le asperità della donna: inevitabilmente lo spazio condiviso e il tempo sospeso della campagna inglese iniziano ad avvicinare i due e nasce almeno un rapporto di fiducia e di scambio. Le resistenze si allentano.


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Anzi, conoscendo meglio Frank, Alice gli si avvicina e la relazione tra i due evolve da diffidenza a complicità, innescando un processo di riconciliazione con un passato che Alice aveva cercato di seppellire. Lei gli spiega i suoi studi, gli mostra i reperti e i suoi volumi, lui le parla della famiglia e della sua vita. A scuola fa anche amicizia con la compagna di banco, pur persistendo la diffidenza della scolaresca per quella strana donna con cui vive. I bambini, si sa, hanno facilità a vivere in armonia, sono sempre gli adulti che rovinano l’educazione e i rapporti con le persone di cui non si fidano, come succede con la mamma dell’amichetta Edie.


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Il rapporto tra Alice e Frank diventa un vero legame e quando arriva inaspettata la notizia che il ragazzo ora può essere trasferito altrove, lei fa la battaglia opposta, perché ormai gli si è affezionata troppo per lasciarlo andare chissà dove e con chi, che significherebbe altra famiglia e soprattutto altra scuola. Un trauma per il povero ragazzo sballottolato, tanto che Mr. Sullivan la accontenta subito con tanto di sorpresa. Il legame si rinsalda ancor più e lei, spiegandogli la sua passione, gli parla dei miraggi di Fata Morgana e del mito di Summerland, l’idea pagana dell’aldilà che esisteva intorno a loro. Tutto precipita alla sconvolgente e dolorosa notizia della morte del papà in guerra, proprio in coincidenza della festa che Alice gli ha preparato per il suo compleanno. In conseguenza di ciò, un giorno, rientrando in casa, trovano la persona che mai si sarebbero aspettati: è arrivata la mamma di Frank, che è… Vera!


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Il debutto alla regia di Jessica Swale, già drammaturga affermata, mette al centro una domanda disarmante: cosa resta della nostra fede, dei nostri amori, dei nostri sogni, quando il mondo intorno implode? Che miracoli può fare l’amicizia che si trasforma in amore filiale quando due persone riescono a dialogare e a capirsi? Ci vuole tatto e delicatezza per scrivere e dirigere, ma la Swale non si è fermata solo a questo e ha organizzato un cast tecnico quasi completamente femminile ed il risultato è un film non solo piacevole ma anche emozionante, tra l’altro ben recitato, cominciando proprio dalla brava Gemma Arterton liberata dalla obbligatoria bellezza: struccata, ordinata ma senza ricerca nel vestirsi, espressiva il giusto, disponibile ad atteggiarsi alla normalità come mai l’abbiamo vista sullo schermo.


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Nel mare magnum dei film ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale, si rivela come un caso raro che sceglie di non urlare, ma di sussurrare. Mentre il genere ci ha abituati a esplosioni, eroismi e grandi manovre militari, questo film si ritrae dal clamore per esplorare ciò che spesso resta invisibile: le crepe nei rapporti, i silenzi che pesano più delle bombe, le emozioni che si consumano lontano dal fronte. Con una regia che predilige lo sguardo al gesto, Jessica Swale sovverte le aspettative e ci invita a osservare la guerra non come evento storico, ma come condizione umana. È un racconto di fragilità, di legami messi alla prova, di estati che bruciano non per il sole, ma per ciò che non si riesce a dire. A cui si aggiunge la storia sentimentale della protagonista, rimasta ancor più sola dopo l’abbandono che lei non è riuscita né ad accettare né a capire. Ma questo è un lato che la drammaturga preferisce non approfondire più di tanto, dedicando pochi istanti anche alla loro passione. Non è questo che, evidentemente, le interessa.



Con una struttura narrativa che si muove tra le epoche, intreccia tre momenti storici con sorprendente delicatezza e coerenza emotiva. Gli anni ‘40 fanno da cornice alla vicenda principale, immersa nel clima teso e sospeso della guerra. I ruggenti anni ‘20, evocati in flashback, riportano alla luce la storia d’amore in un’epoca di libertà e desideri solo sussurrati. Infine, i primi anni ‘70 ci consegnano una Alice anziana, affidata alla sensibilità di Penelope Wilton, che osserva il mosaico della propria esistenza con lo sguardo di chi ha vissuto e, forse, rimpianto. Ogni salto temporale non è semplice artificio narrativo, ma un gesto poetico: ogni frammento del passato illumina il presente, ridefinendolo, sfumandolo, talvolta contraddicendolo. Il tempo non è lineare ma emotivo, un flusso che unisce, separa e infine riconcilia.



Il montaggio, curato con precisione, evita qualsiasi ridondanza e accompagna lo spettatore in questo viaggio temporale con naturalezza, senza mai spezzare il filo emotivo. La fotografia, invece, firma le epoche con tocchi distintivi: tonalità seppiate e polverose per gli anni ‘40, luci calde e vibranti per i ‘20, e una nuance più fredda e contemplativa per gli anni ‘70. Il risultato è un racconto visivo che non solo accompagna la narrazione, ma la amplifica, la scolpisce, la rende memorabile.



La coralità non è ovviamente la forza del film, ma è costruita con misura. Il Mr. Sullivan, interpretato con sobria eleganza da Tom Courtenay, incarna il preside della scuola locale, figura di riferimento in una comunità rurale che il film tratteggia con realismo e pudore. Attorno a lui ruotano personaggi secondari che, pur comparendo brevemente, contribuiscono a dare spessore e autenticità al microcosmo narrativo. Nessuno è sovraccaricato di retorica, nessuna battuta è superflua: il film lavora per sottrazione, affidandosi alla forza dei non detti e alla verità dei gesti quotidiani. Contemporaneamente, la regia sceglie di non enfatizzare, ma di osservare. I ruoli minori non sono mai caricature, bensì presenze discrete che arricchiscono il tessuto emotivo del racconto. La direzione degli attori è calibrata: ogni sguardo, ogni pausa, ogni esitazione sembra provenire da un vissuto reale, non da una sceneggiatura. È in questa attenzione al dettaglio che il film trova la sua forza: nel rendere visibile ciò che spesso il cinema ignora: la dignità del piccolo, la bellezza dell’ordinario. A ciò contribuisce non poco la postura e la recitazione misurata ma efficace di Gemma Arterton.



Ragione e scienza, religione e paganesimo. Anche questi argomenti vengono affrontati con la freddezza ormai maturata nella protagonista, che è certa dei suoi convincimenti ma a tratti prova momenti di dubbi, anche se chiede provocatoriamente al piccolo, se esiste davvero il Paradiso, dove siano andate a finire tutte le anime degli uomini che hanno vissuto prima dell’avvento del cristianesimo. Il finale è consolatorio e rappacificante: la quiete, finita la Guerra, ritorna sulla Terra e così rinasce la coppia e Frank diventa un vero uomo.


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È una storia edificante ma facile, magari perfino basata su uno schema ben frequentato ma il dramma si riscalda per via della performance di Gemma Arterton che aggiunge un po’ di calore.

Un premio vinto al Norwegian International Film Festival del 2020.



 
 
 

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