Le otto montagne (2022)
- michemar

- 15 mag 2023
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 18 lug

Le otto montagne
Italia, Belgio, Francia, UK 2022 dramma 2h27’
Regia: Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch
Soggetto: Paolo Cognetti (romanzo)
Sceneggiatura: Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch
Fotografia: Ruben Impens
Montaggio: Nico Leunen
Musiche: Daniel Norgren
Scenografia: Massimiliano Nocente
Costumi: Francesca Brunori
Luca Marinelli: Pietro Guasti
Alessandro Borghi: Bruno Guglielmina
Filippo Timi: Giovanni Guasti
Elena Lietti: Francesca Guasti
Elisabetta Mazzullo: Lara
Lupo Barbiero: Pietro Guasti bambino
Cristiano Sassella: Bruno Guglielmina bambino
Elisa Zanotto: Barbara
Andrea Palma: Pietro Guasti ragazzo
Surakshya Panta: Asmi
TRAMA: Un'amicizia di bambini diventati uomini che cercano di cancellare le impronte dei loro padri, ma che, attraverso i colpi di scena che accadono, finiscono sempre per tornare a casa.
Voto 8

Brunooooo!!!!
Pietrooooo!!!
Brunooooo!!!!
Pietrooooo!!!
Epico viaggio di amicizia e scoperta di sé ambientato nelle Alpi aostane, il film è un'esperienza cinematografica fondamentale tanto intima quanto monumentale, tanto profonda quanto espansiva. Adattando il pluripremiato romanzo di Paolo Cognetti, i registi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (lui autore del bellissimo e straziante Alabama Monroe - Una storia d'amore e del recente Beautiful Boy) ritraggono, attraverso attenti dettagli e stupefacenti fotografie di paesaggio, il rapporto profondo e complesso tra Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi) che si incontrano per la prima volta da bambini quando la famiglia torinese di Pietro va in vacanza in un villaggio isolato ai piedi delle pendici alpine. Man mano che maturano, Pietro si allontana dal padre Giovanni (Filippo Timi) e Bruno, abbandonato dal proprio padre, assume il ruolo di figlio surrogato. La morte di quest’uomo riunisce i due nella realizzazione del sogno di costruire una baita su quelle montagne amate e il progetto e le successive esplorazioni della maestosa catena montuosa legano Pietro e Bruno in uno scopo comune. Eppure, nonostante la loro connessione, la purezza della natura e le esigenze della società spingono quei ragazzi, ormai diventati grandi, a seguire percorsi diversi, forse irrevocabilmente divergenti, sul terreno vertiginoso della vita.

Prima del titolo, sulle meravigliose immagini nella stagione estiva delle montagne verdi e lussureggianti della Val d’Aosta, tra pascoli e cime rocciose e i più lontani ghiacciai, la voce narrante di Pietro ci introduce nella sua adolescenza allorquando viene in contatto con il ragazzino che sarà amico per sempre. “Non pensavo di trovare un amico come Bruno nella vita, né che l'amicizia fosse un luogo dove metti le tue radici e che resta ad aspettarti. Ero cresciuto da figlio unico in un appartamento di città. Non ero abituato a fare le cose in due. Ma nell'estate del 1984 i miei genitori affittarono una casa in un paese di montagna dove per ironia della sorte viveva un solo ragazzino all’epoca, Bruno.” Pietro (Berio, come lo chiama l’altro nel suo dialetto di montagna) fa conoscenza con colui che sarà il suo amico per la pelle durante quella vacanza quando la madre Francesca (Elena Lietti) lo chiama per la colazione e Bruno è già lì e ha già iniziato a mangiare i biscotti nel latte. Come se fosse stato invaso il suo spazio privato, lo guarda con diffidenza mentre prende la sua tazza e la signora fa qualche domanda per conoscere meglio la famiglia dell’ospite. Pietro riflette ascoltando e solo alla fine rivolge lo sguardo verso Bruno, come ad approvare e sancire una nuova e inattesa amicizia, che durerà tutta la vita, anche se in quel momento nessuno dei due poteva immaginare quale profondità e quale solidità sarebbe diventata molto presto.
Come succede spesso tra ragazzini, basterà qualche gioco nei prati, una corsa nei boschi, un tuffo nel lago, una confidenza, e senza dirselo diventano inseparabili, dividendosi solo quando il montanaro deve correre ad aiutare lo zio nel governare le mucche. Forte poi sarà la delusione del ragazzo di città quando il padre di Bruno, emigrato come edile in Svizzera, chiama suo figlio a lavorare con lui: Pietro resta solo e si accorge quanto sia grande il vuoto che gli ha lasciato e la vacanza annuale tra quelle montagne non è più la stessa. Si perdono di vista, né si scambiano notizie ma si incontreranno di nuovo quando ormai sono dei giovanotti e tutto ricomincerà, con un’amicizia rinforzata, ancora più intima. Il loro diventa un legame virile, sincero, più che fraterno, ognuno con il suo carattere ma in perfetta sintonia, in totale comprensione dell’altro. Se si verifica qualche attrito è solo perché Bruno, scontando la delusione di un padre che lo ha abbandonato che era piccolo, ama la solitudine e preferisce ogni tanto isolarsi sulle alture, fino a dedicarsi completamente all’allevamento della sua piccola mandria nell’alpeggio in quota. È quello che ha saputo fare nella sua vita, solo quello, ed è quello che ama fare, perché “Uno deve fare quello che la vita gli ha insegnato a fare.” Pietro invece ama spaziare e viaggiare: resosi indipendente e rifiutando i consigli e i desideri del padre amato-odiato non ha proseguito gli studi e si ritrova a fare diversi lavori pur di vivere da solo in città, ma sempre alla ricerca della prossima occasione per stare assieme al suo eterno e intraprendente amico.
Più in là, lo spirito d’avventura lo porterà fino all’Himalaya, dove tornerà più volte e dove ha imparato e apprezzato la semplicità della gente e il valore umano dei rapporti con le persone e la natura, riandando spesso con la mente al ricordo del padre morto prematuramente e di cui solo oggi apprezza gli insegnamenti e l’amore per l’alpinismo. Bruno, che aveva sempre invidiato all’amico la presenza del padre, è diventato ancora più scontroso e in una occasione conviviale con gli amici di Pietro non perde l’occasione di rimproverar loro la mentalità errata che quelli della città hanno della natura, per lui termine sbagliato. “Siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con un dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente”. Ecco, non serve a niente e tutto ciò che non serve a niente è inutile dargli un nome. Filosofia spicciola e pratica, materialista ma sostanziale, proprio come è diventato Bruno, il quale non voleva mettersi negli affari (commercio dei prodotti da allevamento, agriturismo) oramai andati a male ed ora si è maggiormente richiuso in se stesso, isolandosi nella baita che ha costruito assieme a Pietro. Accetta solo le visite dell’amico di sempre, che gli racconta le esperienze tibetane, come la “sepoltura celeste” (che sciaguratamente vedremo avverata nel finale del film) e la leggenda nepalese delle “otto montagne”, secondo cui il mondo è una ruota a otto raggi, con al centro una montagna altissima, il monte Sumeru, e intorno, appunto, otto montagne.
È commovente notare, come emerge dalla narrazione, scritta e diretta dai due coniugi belgi, quanta importanza abbia la cultura alpina, grazie alla quale uomo e montagna hanno stabilito una sintonia, un’armonia che si può ritrovare nelle case, molte ormai ridotte a ruderi, ma costruite con le stesse pietre e gli stessi legni del paesaggio. Proprio come fanno i due compagni che, per realizzare quel sogno di Giovanni che aveva acquistato un rudere inutilizzabile in alta quota, si adoperano con le loro stesse mani per mettere pietra su pietra, cemento tra le pietre, legno del bosco come tetto ed ottenere un rifugio che sarà la loro casa comune. Pietro come pietra. Bruno come colore del carattere. Ma l’aspetto più emozionante è il legame tra i due, anche se uno frequenta la nepalese Asmi, dedita agli altri come è ormai diventato lui stesso, e l’altro si è unito a Lara (Elisabetta Mazzullo) da cui ha avuto una figlia. Vivono spesso in due mondi diversi, lontano migliaia di chilometri ma Pietro è sempre pronto a prendere il primo aereo quando Bruno ha bisogno del suo aiuto: non è facile trovare nella vita un amico di questa portata, che ritorna puntualmente anche se è stato cacciato via malamente la volta precedente. Un cameratismo toccante, una fratellanza indistruttibile, rapporto non sempre facile ma così sensibile che spesso non servono parole o gesti, ma solo sguardi penetranti che scrutano il viso dell’altro e il sorriso che illumina le barbe. Abbracci vigorosi e nomi urlati nella valle per chiamarsi, da ragazzini e da uomini fatti. Un particolare salta agli occhi, tra i tanti: Bruno, l’unico vero montanaro, è il solo personaggio che non accende mai una sigaretta. È, comunque, difficile specificare chi sia davvero il protagonista: Pietro è il conduttore della narrazione ed è sempre al centro della scena, Bruno è quasi il suo alter ego ed è sullo stesso piano, ma solo assieme danno un significato al film. E poi c’è la montagna, con i picchi, le rocce, i ghiacciai, i sentieri sulle dorsali, il “mal di montagna” di cui, a sentire Giovanni, soffre il figlio. Sarà essa la vera protagonista? oppure il legame tra i due? oppure ancora la calma e la pazienza che Pietro deve dispiegare a piene mani per non perdere l’amico, per tenerlo vivo nella vita attiva, nel fermare il suo declino psicologico, semplicemente per non abbandonarlo, dopo una infanzia indimenticabile?
Suscita stupore trovare due fiamminghi sulle Alpi, tanto lontani dai luoghi fisici e mentali finora frequentati, eppure paiono due persone che conoscono bene i nostri paesaggi che fotografano con attenzione mettendo in risalto la bellezza che li circondava sul set, tra l’altro in location non molto agevoli. Per il resto Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch si sono affidati, scrivendo la adeguatissima sceneggiatura, all’amore con cui lo scrittore Paolo Cognetti (che si regala un brevissimo cameo) ha scritto una appassionata e drammatica storia dal finale angoscioso. A loro spettava dirigere bene gli attori e far sentire lo spettatore vicino ai due protagonisti, cogliendo l’intimità delle sensazioni trasmesse con gli appropriati dialoghi e anche senza, utilizzando inquadrature emozionanti come il panorama che li avvolge. Pochissime riprese in città, tutto il resto, tranne qualche ciak nelle case alpine, è all’aria aperta, su percorsi scoscesi, sulla neve, nei boschi. Se lo scopo era farci sentire in quei luoghi ci sono riusciti benissimo. Il resto era nelle solide mani di Luca Marinelli e Alessandro Borghi e questi hanno risposto in maniera magnifica (il mio mezzo voto in più è per loro), facendo esplodere tutto il loro potenziale, in eccellente e armonica lunghezza d'onda, come due attori nati per recitare assieme. Sono tra i migliori della loro generazione e sanno trasformarsi ogni volta, mai ripetendo il loro mood come invece succede ad altri attori celebrati: non è semplice scegliere chi si sia distinto più dell’altro ma forse il secondo si esprime meglio, avendo, indubbiamente, il compito più arduo, quello di un carattere difficile e più problematico date le scomode vicende familiari. Marinelli interpreta un Pietro ribelle sì ma ben presto riflessivo e saggio, anche per l’esperienza tibetana, mentre il Bruno di Borghi si deve abbandonare a diversi momenti di irrequietezza fisica e psicologica che esterna con molta forza. Entrambi romani, recitano con forte accento settentrionale apprezzabile. A parte la buonissima prestazione del solito Filippo Timi, l’impegno profuso da Elena Lietti e Elisabetta Mazzullo, tutto il reparto tecnico è eccellente: la scenografia di Massimiliano Nocente è abbagliante e parla da sé; le musiche di Daniel Norgren fanno venire i brividi; la fotografia, in un sorprendente 1.33:1 di Ruben Impens, esalta la splendida natura; il montaggio di Nico Leunen si rivela efficiente.

Un film in cui i due registi sanno spiegarci con le immagini (rispettando il romanzo che lo insegna) come la montagna – in senso generale, non una delle otto del titolo - sia severa e da rispettare, e che tutto, lì, ha il suo tempo e il suo ritmo naturale, in pratica che la relatività del tempo e il modo di viverci non è di chi vi abita e la scala ma il suo e gli uomini devono solo adeguarvisi, con rispetto, altrimenti si viene annullati, inghiottiti. Ridotti in nutrimento come nella sepoltura celeste.
“Poi mi venne in mente che c'era una casa su in montagna, con un buco nel tetto. Questo non le dava molto da vivere e sentivo che non serviva più a niente, perché in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, così come all'inizio della propria storia e non resta che vagare per le otto montagne per chi come me sulla prima e più alta ha perso un amico.”

Riconoscimenti
Festival di Cannes 2022
Premio della giuria
David di Donatello 2023
Miglior film
Migliore sceneggiatura adattata
Migliore autore della fotografia
Miglior suono
Candidatura miglior regia
Candidatura miglior produttore
Candidatura miglior attore protagonista a Alessandro Borghi
Candidatura miglior attore protagonista a Luca Marinelli
Candidatura miglior attore non protagonista a Filippo Timi
Candidatura miglior compositore
Candidatura miglior scenografia
Candidatura miglior montaggio
Candidatura migliori effetti speciali visivi
Candidatura Premio David Giovani


















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