Pasolini (2014)
- michemar

- 2 nov
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Pasolini
Francia, Belgio, Italia 2014 dramma biografico 1h24’
Regia: Abel Ferrara
Sceneggiatura: Maurizio Braucci
Fotografia: Stefano Falivene
Montaggio: Fabio Nunziata
Scenografia: Igor Gabriel
Costumi: Rossano Marchi
Willem Dafoe: Pier Paolo Pasolini
Giada Colagrande: Graziella Chiarcossi
Riccardo Scamarcio: Ninetto Davoli
Maria de Medeiros: Laura Betti
Ninetto Davoli: Epifanio
Adriana Asti: Susanna Colussi
Valerio Mastandrea: Domenico Naldini
Francesco Siciliano: Furio Colombo
Luka Tartaglia: poliziotto
Salvatore Ruocco: deputato socialista
Andrea Bosca: Andrea Fago
Damiano Tamilia: Giuseppe Pelosi
Roberto Zibetti: Carlo
Daniele Archibugi: Presidente della Repubblica
TRAMA: Nel novembre 1975 a Roma, in una Italia persa, corrotta e divorata dalla paura della verità, Pier Paolo Pasolini, che sta terminando il capolavoro “Salò”, trascorre le sue ultime ore nella casa di famiglia, scrivendo lettere e concedendo un’intervista a Furio Colombo. Avvertito dai suoi più cari amici, che lo mettono in guardia e lo invitano a smettere di scrivere i suoi incendiari articoli contro le ingiustizie di potere, Pasolini si appresta a uscir la sera a bordo della sua Alfa Romeo in cerca di avventura.
VOTO 6

Forse solo un regista come Abel Ferrara poteva affrontare, almeno in questa maniera, un viaggio così visionario e intimo nell’ultimo giorno di vita di un poeta tanto discusso nella società italiana, per giunta raccontato con audacia e malinconia. Non è un vero biopic, è una amara e triste riflessione devota alla pari di una “veglia” cinematografica.


Infatti, Ferrara non gira un film su Pier Paolo Pasolini, lo evoca cerca di mostrarcelo secondo il suo punto di vista. E lo fa con uno sguardo singolare che non cerca di spiegare né di giustificare, ma di “sentirlo” e farcelo sentire. Per questo motivo si sviluppa come un’opera che si muove tra il reale e l’immaginato, tra il quotidiano e il mitico, come se il regista stesse cercando di afferrare l’anima di un uomo che sfugge a ogni definizione. O che, a distanza di mezzo secolo - finalmente amato come purissimo intellettuale, coraggioso e lucido - viene meglio definito, pur sempre unico e quindi non classificabile.


Il film si concentra su quell’ultimo maledetto giorno di vita del poeta (ma si può davvero limitarsi a definirlo solo poeta?): un 1° novembre del 1975 che si apre con il caffè e il Corriere della Sera, e si chiude con l’oscurità dell’Idroscalo di Ostia. Ma nel mezzo, Ferrara inserisce squarci onirici, visioni tratte da “Petrolio” e dal progetto mai realizzato “Porno-Teo-Kolossal”. Sono scene che sembrano sogni, incubi, frammenti di un cinema che Pasolini avrebbe voluto girare e che Ferrara prova a immaginare.


Non aspettiamoci una narrazione lineare: è un film che si rifiuta di essere spiegato. È un mosaico di impressioni, un requiem per un intellettuale scomodo, un artista che ha vissuto in perenne conflitto con il suo tempo. Ferrara non cerca di risolvere il mistero della sua morte, ma di restituire la complessità della sua vita.


La fotografia è cupa, quasi sporca, come se il film fosse stato girato con la polvere dell’epoca. O di quel maledetto campo di Ostia. La colonna sonora è discreta (composta da brani già editi, utilizzati nelle opere pasoliniane), lasciando spazio alle voci e ai rumori della Roma anni ‘70. E il montaggio, frammentato e poetico, accompagna lo spettatore in un viaggio che è più emotivo che narrativo. Nell’insieme, alla fine ci si accorge che è anche e forse soprattutto un omaggio affettuoso, la denuncia di un’assenza grave nella vita della nostra società di quei tempi. Chissà cosa avrebbe detto e scritto, osservando invece questi Anni Venti. Resta comunque il film che divide, alla pari del Nostro, che era, ed è, amato o odiato. Alcuni possono trovare il film ermetico, altri lo considereranno un capolavoro, divisivo, come lui. Ma è proprio questa ambiguità che lo rende potente, perché Ferrara non vuole piacere (non lo ha fatto mai), vuole provocare le nostre reazioni e anche questo è un gesto da intellettuale. E in questo, è forse il regista più pasoliniano che potesse provarci.


Se il film non è un gran film e non convince molto, comunque il grandissimo Willem Dafoe è magnetico. Non imita Pasolini, lo incarna: il suo volto scavato, la voce pacata, lo sguardo che sembra sempre altrove. Dafoe non recita ma fa rivivere in noi il grande personaggio, assecondato dal regista che lo inquadra con rispetto, lasciando che siano i silenzi, le pause, i gesti minimi a raccontare più delle parole. Ripeto, non è un gran film, ma se si accetta un’opera che sa osare, che non ha paura di essere scomoda, che preferisce la poesia alla cronaca, rappresenta un’esperienza da vivere. Non per capire Pasolini, ma per sentirlo.


La verità sull’ultima notte è ancora da scrivere, manipolata, nascosta, oscurata da chi non vuole che si conosca. 50 anni fa, come oggi, è un’assenza che pesa per il pensiero politico, artistico, intellettuale di questa malata società italiana.
“Io penso che scandalizzare sia un diritto. Essere scandalizzati è un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzati è un moralista. Il cosiddetto moralista.”




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