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Queer (2024)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 22 ago
  • Tempo di lettura: 4 min
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Queer

Italia, USA 2024 dramma biografico 2h17’

 

Regia: Luca Guadagnino

Soggetto: William S. Burroughs (“Checca”)

Sceneggiatura: Justin Kuritzkes

Fotografia: Sayomphu Mukdiphrom

Montaggio: Marco Costa

Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross

Scenografia: Stefano Baisi

Costumi: J.W. Anderson

 

Daniel Craig: William Lee

Drew Starkey: Eugene Allerton

Jason Schwartzman: Joe

Lesley Manville: dottoressa Cotter

Henry Zaga: Winston Moor

Drew Droege: John Dumé

Ariel Schulman: Tom Weston

Colin Bates: Tom Williams

Ronia Ava: Joan

 

TRAMA: Anni ‘50. William Lee è un cittadino statunitense emigrato a Città del Messico a causa della sua forte dipendenza da droghe. Omosessuale, trascorre una vita indolente, rimorchiando giovani uomini per avere con loro rapporti occasionali.

 

VOTO 6,5


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Diviso in capitoli (Ti piace il Messico?, Il viaggio, La giungla, Epilogo), dal libro semiautobiografico di William S. Burroughs, si assiste ad un appassionato volo lisergico che Luca Guadagnino filma con ardimento e convinzione, cercando di coinvolgerci con il suo sguardo, avendo amato lo scritto sin da giovane, come lui stesso ha affermato presentando il lavoro. Le inquadrature sono immediatamente esplicative sin dalla prima, con quel letto sfatto che testimonia battaglie di droga e sesso con i giovani che il protagonista incrocia nel suo soggiorno a Città del Messico, a cui fa da cornice “quell’aria pulita e frizzante e il cielo di quella sfumatura d’azzurro che si intona tanto bene con gli avvoltoi volteggianti, il sangue e la sabbia, quel crudo, minaccioso, spietato azzurro messicano”, come scrive l’autore nel libro.



Daniel Craig e Drew Starkey sono William Lee, maturo statunitense espatriato a Città del Messico, perso, come detto, tra droghe e sesso da occasione, ed Eugene Allerton, il giovane di cui si infatua. Ambiguo e sfuggente, il riluttante giovanotto inizia a incontrare sempre più spesso l’insistente signore, fino ad accettarne la proposta di accompagnarlo nel Sud del continente, in Ecuador, dove dovrebbe crescere una pianta dalle proprietà incredibili, lo yagé, conosciuto anche come ayahuasca. La sua fissazione, quella pianta, che, come ha letto su una rivista, stimolerebbe maggiormente la sua telepatia, di cui dice di essere dotato. Anche la citazione iniziale – l’Orfeo di Jean Cocteau, in cui Jean Marais attraversa uno specchio grazie ad un paio di guanti magici – contribuisce all’atmosfera surreale che il regista cerca di imprimere subito.



Ed intanto, tra una sniffata e l’assunzione di altre sostanze che creano dipendenza, fiumi di alcol, dal Mescal alla Tequila quasi senza pausa, sigaretta dopo sigaretta, da un locale all’altro, sfilano sullo schermo tanti personaggi queer e diversi giovani belli e attraenti, che suscitano continuamente l’attenzione e l’attrazione del protagonista. Sempre nel suo completo color bianco, con il Fedora estivo sul capo e gli occhiali da vista con montatura trasparente, lui pare un avventuriero, un gringo che si aggira nella sordida Città del Messico degli anni Cinquanta (ricostruita a Cinecittà). Quando il suo sguardo cade su Eugene sa che deve essere suo, e magari anche il compagno ideale per addentrarsi nella giungla sudamericana alla ricerca di una mitica dottoressa, la botanica Cotter (una irriconoscibile Lesley Manville), famosa per essere esperta e coltivatrice di quel maledetto yagé.



È un ripetersi rituale quello di bere, drogarsi e soprattutto soddisfare l’impulso irrefrenabile di fare sesso con quel giovane attraente (“due volte a settimana, almeno”) che pare non voglia mai né accettare chiaramente l’invito dell’altro, né ammettere apertamente di essere omosessuale. Si intrattiene infatti sempre con una bella ragazza per giocare a scacchi nel bar, ma è inevitabile che alla fine ceda e accetti la corte e ricambi col sorriso gli sguardi di William. Quel tipo di vita non è, come si suol dire tante volte, una discesa agli inferi, è piuttosto una permanenza stabile, nell’attesa di chissà cosa, qualcosa che prima o poi debba avvenire. Che può essere, in effetti, quel viaggio nella giungla. Difatti la prima parte del film è piuttosto monotona con il ripetersi delle medesime sequenze, come se fatte con la cinepresa in posizioni differenti, ma è intuibile che quella spedizione si debba fare. Lì, sarà il trionfo dell’avventura eccitante e dell’abbandono dei sensi, ubriachi di olfatto esotico da yagé.



Covato da decenni, Guadagnino realizza finalmente il film sognato e lo fa alla sua ormai riconosciuta maniera, con il suo stile che abbiamo imparato a conoscere, ma – purtroppo per me – ancora una volta (mi succede spesso con lui) è un regista su cui non riesco a sintonizzarmi, che non riesce a coinvolgermi. È chiaramente un problema mio o di mie preferenze cinefile. Fuor di dubbio che il film è girato e diretto con maestria e tecnicamente ineccepibile, ma non riesco ad appassionarmici. Non ho apprezzato, inoltre, la scenografia ricostruita in studio, ricevendo sempre l’impressione che non sia naturale, troppo artefatta. Le strade, i palazzi, il piccolo panorama: tutto pare un lavoro da opera televisiva, un ambiente non sincero, finto, da effetti speciali mediocri, da IA.



La storia è forte, passionale, con un eccellente sceneggiatura che non risparmia nulla, fedele (come leggo) in gran parte all’atmosfera del libro. Inoltre le interpretazioni sono ottime, ad iniziare da quella di un Daniel Craig mai visto e che credo non vedremo mai più, dimostrando ancora una volta quanto possa essere bravo lontano dal Bond che lo ha reso celebre. È un film di personaggi di soli uomini, di cui tanti queer, come se l’universo visto da Burroughs e Guadagnino sia abitato soltanto da omosessuali: ce n’è una tale pletora che si potrebbero contare i pochi etero che si aggirano nelle scene. Perfino la dottoressa Cotter non pare completamente donna, tale è la sua mascolinità, che rende non riconoscibile l’attrice in un ruolo che sicuramente non le capiterà mai più. Cosa che succede anche con il personaggio (ovviamente queer) di Jason Schwartzman, Joe, lontano mille miglia da quelli interpretati per Wes Anderson.



Resta lampante di quanto sia stato bravo Daniel Craig, superlativo. Ma, confermando la mia mancata adesione all’entusiasmo di molti che hanno applaudito il film, ci sono stati momenti che mi sono anche annoiato, restando comunque ammirato dalle splendide inquadrature, specialmente quelle delle tante camminate del protagonista per le strade polverose e dalla passione con cui il film è stato realizzato e di come il regista lo abbia voluto rappresentare. Passione che si “legge” nella visione, che si impossessa dei personaggi, che ammanta l’intero lavoro di un vero autore. Su questo non ho dubbi. Ma non mi ha emozionato, non mi ha regalato alcunché.



Riconoscimenti

Golden Globe 2025

Candidatura al miglior attore in un film drammatico a Daniel Craig

 


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Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

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