Quo vadis, Aida? (2020)
- michemar

- 7 dic 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 12 ott

Quo vadis, Aida?
Bosnia-Erzegovina, Austria, Romania, Olanda, Germania, Polonia, Francia, Turchia, Norvegia 2020 dramma storico 1h41’
Regia: Jasmila Zbanic
Soggetto: Hasan Nuhanovic (Under the UN Flag)
Sceneggiatura: Jasmila Zbanic
Fotografia: Christine A. Maier
Montaggio: Jaroslaw Kaminski
Musiche: Antoni Lazarkiewicz
Scenografia: Hannes Salat
Costumi: Malgorzata Karpiuk, Ellen Lens
Jasna Duricic: Aida
Izudin Bajrovic: Nihad
Boris Isakovic: Ratko Mladic
Johan Heldenbergh: Thom Karremans
Raymond Thiry: maggiore Franken
Boris Ler: Hamidja
Dino Bajrovic: Sejo
Emir Hadzihafizbegovic: Joka
Edita Malovcic: moglie di Joka
TRAMA: Nel 1995, durante le guerre di dissoluzione della Jugoslavia, l'esercito serbo prende la città bosniaca di Srebrenica, dove Aida, una traduttrice dell'ONU, si trova col marito e i suoi due figli. Aida ritiene di essere al sicuro nella base dell'ONU in cui lavora, ma quando la pressione dei serbi sul suo perimetro, entro il quale hanno trovato rifugio centinaia di cittadini d'etnia bosgnacca, comincia a intensificarsi, deve trovare il modo di salvare sé stessa e la propria famiglia dal massacro imminente.
Voto 7,5

Cosa può fare una madre e moglie per salvare il marito e i figli? Quanta volontà può avere dentro di sé per trovare disperatamente la forza per evitar loro morte violenta certa? Quanto può dannarsi l’anima e quanto può soffrire quando non riesce a portare in salvo i suoi congiunti? Quanta è la sofferenza, anche anni dopo, ritrovando i loro resti, recuperati nelle fosse comuni presso cui sono stati trucidati? Cosa si può provare incontrando molto tempo dopo uno dei carnefici della famiglia che sale sorridente le scale della casa in cui abita, per giunta in quell’appartamento appartenuto alla sua famiglia prima di scappare precipitosamente? Ebbene, tutto ciò è segnato, è scritto nelle rughe del viso invecchiato più del dovuto di una donna chiamata Aida, di professione insegnante di inglese in una scuola di Srebrenica, dove il marito era preside e professore di storia. Srebrenica, fino all’indicibile eccidio (il più grave in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale), era una cittadina a maggioranza musulmana racchiusa in una enclave bosniaca circondata da territori abitati da serbi bosniaci e costituiva un'area detta “di sicurezza” controllata dalla UNPROFOR (Forza di protezione delle Nazioni Unite). Ma l'11 luglio 1995 avvenne ciò che non doveva accadere: la cittadina venne prima occupata, poi le truppe nemiche deportarono la popolazione, compreso quella che era raccolta nel campo delle forze dei caschi blu, ed infine compirono un genocidio di una crudeltà terribile, in cui furono trucidati più di ottomila tra uomini e ragazzi bosniaci musulmani. Ciò che colpisce della strage, oltre alla crudeltà ed alla sistematicità con cui fu commessa con un metodo assimilabile a quello che adottavano i nazisti, è come i caschi blu olandesi presenti, appartenenti appunto al contingente che doveva proteggerli, nulla fecero per prevenire lo sterminio, principalmente a causa del fatto che le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU fino a quel momento votate, non davano alla Forza mezzi ed autorizzazione per agire.

Un film di atroce crudeltà, di realismo disarmante, e non per la pregevolezza della sceneggiatura e per la bravura della regista bosniaca Jasmila Zbanic, no, semplicemente per il verismo che ha guidato la realizzazione dell’opera. Perché l’autrice, anche sceneggiatrice, ha posto al centro della trama Aida, la protagonista che faceva da interprete presso la base ONU con la popolazione locale, donna che riusciva a godere di un minimo di considerazione per quelle mansioni che svolgeva, per cui si sentiva protetta e quindi credeva di poter aiutare il marito e i suoi due figli a sopravvivere nel caso, prevedibile e imminente, data l’evolversi della guerra fratricida della ex-Jugoslavia, dell’invasione da parte delle truppe del temuto sanguinario generale Mladic, che, come ben sappiamo, è passato alla Storia come “il boia di Srebrenica”. Quando la massa degli abitanti della città chiese aiuto e protezione alla base militare dei Caschi Blu, la quasi totalità restò aldilà del recinto e quindi le prepotenti truppe serbe potettero sequestrare tutte le persone, comprese persino quelle che erano – come i congiunti di Aida – rifugiate nel campo. Gli uomini furono separati dalle donne e trucidati a poche centinaia di metri.

Commovente è vedere come la povera donna si sia impiegata per portare in salvo i suoi tre uomini, quanta disperazione si legge sul suo volto facendo la spola più volte tra il comandante olandese Karremans e il suo vice Franken pur di ottenere un badge dell’ONU per loro e quindi salvarli dalla furia serba. Straziante è vederla anni dopo invecchiata dentro e fuori, ingrigita nei capelli, che si reca nel capannone, dove è stato raccolto ciò che rimane dei corpi portati alla luce, per riconoscere i resti dei tre parenti dopo la scoperta delle fosse comuni. E scoprire, con orrore, che Joka, uno dei bracci destri del boia Mladic, abbia preso possesso del suo appartamento in città. Un particolare allegorico che dimostra quanto gli invasori assassini si fossero impadroniti dei luoghi appartenuti storicamente agli oppressi. Ai soppressi.

Jasmila Zbanic ci racconta i giorni, le ore confuse e angoscianti che precedono l’evacuazione, le trattative tra i due schieramenti, l’arroganza presupponente degli uomini di Mladic, l’inettitudine degli ufficiali del contingente olandese che tutelava la zona e, seccamente, la “soluzione finale” (termine già sentito durante la Shoah). Tutto attraverso gli occhi di Aida, che si trova a combattere freneticamente conto il tempo e contro la stolida adesione alle regole degli olandesi. Vedere la massa di migliaia di persone, con molti anziani e donne e bimbi, accalcate fuori dai cancelli del presidio internazionale è impressionante e ci ricorda quante volte questa scena di disperazione si ripeta nella Storia (non ultima, ahimè) quella dei rifugiati ai confini tra Polonia e Bielorussia del 2021. Più trascorrono i minuti del film, più si restringe il cerchio attorno alla famiglia di Aida, più l’ambiente diventa claustrofobico. Una zona di salvezza che si assottiglia vieppiù fino a scomparire, come i soldati dell’ONU, inutili per tutto il tempo. La regista, già Orso d’oro per Il segreto di Esma del 2006, va dritta al cuore di un conflitto che ancora sanguina e trae lo spunto del film dalla reale vicenda del bosniaco Hasan Nuhanovic, interprete per l’ONU a Srebrenica - dove perse un fratello e i genitori - nei giorni che precedettero la strage. E come prevedibilmente accadde sul serio, ella ci mostra la situazione tremenda in cui, mentre traduce un messaggio per conto dei suoi superiori, deve dire ai suoi cari, con la sua bocca, nella lingua madre che condivide con loro: “Ora dovete lasciare la base ONU”, sapendo, o quantomeno sospettando, che cosa ciò significhi davvero. “Sei te stesso – dice la regista Jasmila Zbanic presentando il film - con la tua lingua e la tua identità, ma al contempo sei anche le parole altrui che stai pronunciando in quel momento. È stata quest’ambivalenza di fondo a colpirmi in modo particolare e ad attirarmi verso un personaggio che poi ho voluto fosse funzionale perché so quanto può essere difficile, per chi come Nuhanovic è ancora in vita, confrontarsi con una sceneggiatura e con i cambiamenti, seppur minimi, che essa impone.” Tremendo! E dobbiamo ringraziare la delicatezza della regista di lasciare fuori campo il massacro materiale, mentre è da osservare come, riversando il vissuto del vero Nuhanovic nel personaggio di Aida, scelga di guardare al conflitto da un punto di vista femminile: “La guerra, se ci pensi, è forse la struttura più patriarcale che esista, e io sentivo l’esigenza di raccontarla attraverso uno sguardo altro, che fosse innanzitutto quello di una donna.” Invece di raccontare le fasi storiche che precedettero gli avvenimenti, ha adottato la scelta di portare il pubblico accanto a questa donna, inducendolo a interrogarsi con lei, a porsi le sue stesse domande sul da farsi. Senza trascurare di mettere in risalto la debolezza e l’incapacità delle truppe olandesi, tanto che alla fine ebbero ragione quelli che nell’ONU non credevano, preferendo la fuga nei boschi al rifugio approntato dai caschi blu. Infine, è chiaro come la regista abbia voluto contrapporre la storia privata di Aida, quale però simbolo di tutte le altre, a quella autoreferenziale del massacratore Mladic, che si presenta a quel popolo bosniaco come un salvatore generoso.


La propaganda politica non è mai cessata e perfino durante la presentazione del film a Venezia 2020 continuavano ad arrivare recensioni pessime sul film da gran parte della stampa serba, nelle quali si descrivevano gli attori - la protagonista e Boris Isakovic (che sono serbi) - come dei traditori. Sono stati intervistati dei criminali di guerra che hanno detto che questo è un film contro i serbi. La guerra non è finita! Impressionante è l’interpretazione che ne fa la bravissima e intensa Jasna Duricic, che presta anima e cuore al personaggio di Aida, dando tutta se stessa, e guardando fissa nell’obiettivo della camera da presa con la chiara intenzione di domandare a tutta l’umanità se tutto quello a cui sta assistendo è normale oppure dannatamente disumano. Lei guarda dritto in macchina attraverso il recinto metallico: lei di là, noi di qua, come fossimo spettatori di uno spettacolo che spettacolo non fu, ma sanguinaria realtà storica. Mentre noi proviamo disagio e speriamo che il film non finisca, che ci conduca verso un cancello che si apra alla salvezza. E non solo della famiglia di Aida, forse dell’intera umanità che soffre tutt’oggi in tanti angoli del mondo. E per raccontarlo c’è bisogno di questo cinema. Antico? Moderno? Spietatamente vero, accaduto e che accade. Anche in questo preciso istante.
Riconoscimenti
Premio Oscar 2021:
Candidatura per il miglior film internazionale





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