Sorry We Missed You (2019)
- michemar

- 7 gen 2020
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 25 ott 2023

Sorry We Missed You
UK/Francia/Belgio 2019 dramma 1h41’
Regia: Ken Loach
Sceneggiatura: Paul Laverty
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Jonathan Morris
Musiche: George Fenton
Scenografia: Fergus Clegg
Costumi: Jo Slater
Kris Hitchen: Ricky Turner
Debbie Honeywood: Abbie Turner
Rhys Stone: Sebastian "Seb" Turner
Katie Proctor: Liza Jane Turner
Ross Brewster: Gavin Maloney
TRAMA: Ricky e la sua famiglia combattono contro i debiti dopo il tracollo finanziario del 2008. Una nuova opportunità appare all'orizzonte grazie a un furgone nuovo che offre a Ricky la possibilità di lavorare come corriere per una ditta in franchise. Si tratta di un lavoro duro ma quello della moglie come badante non è da meno. L'unità familiare è forte ma quando entrambi prendono strade diverse tutto sembra andare verso un inevitabile punto di rottura.
Voto 8

Non so se la domanda è stata mai posta tra gli appassionati di cinema e soprattutto tra i critici, ma mi chiedo: esiste ancora il neorealismo? È stato solo un fenomeno eccezionale di un periodo eccezionale soltanto italiano? È stato imitato e ha fatto scuola per tanti cineasti di tutto il mondo, ma è ormai un genere morto e sepolto? Guardando il 55esimo lavoro di Ken Loach (comprendendo in questa cifra l’intero impegno tra film, corti, documentari ed episodi di serie TV) mi sono ulteriormente convinto che questo tipo di cinema e questa modalità di concepire e girare un film esiste ancora ed ha un nome ben preciso, che è quello del regista britannico nativo della contea di Warwickshire, figlio di operai ed esponente di spicco dell’allora “free cinema”. Se neorealismo vuol dire raccontare storie di povera gente, in difficoltà nella lotta di classe e di sopravvivenza, dimenticata dagli uomini che siedono sulle poltrone che governano i Paesi, se vuol dire che il regista utilizza attori della strada o per lo meno completamente sconosciuti o con un minimo trascurabile di esperienze recitative… beh, significa che il neorealismo esiste e c’è ancora un uomo che ama raccontare queste storie e in questa maniera. Gli attori del film in questione sono persone non solo comuni ma dalla faccia e dalle espressioni ordinarie, di tutti i giorni, come quelli che si incontrano normalmente per le strade di periferia e nei supermercati, soprattutto all’alba quando la gente va a lavorare. Loach li ha scelti con le lentiggini e con i capelli rossi, di quel colore che ormai siamo abituati ad abbinare al suo nome di battesimo. Kenneth Charles Loach, detto red Ken, Ken il rosso, ci sbatte sul muso questa ordinary people in tutti suoi film per farci capire che non parla di gente speciale, con belle professioni ancorché precarie ma ben compensate, di uomini affascinanti con auto costose, di donne attraenti e ben truccate. No, Ricky e Abbie sono una coppia che in strada non noteremmo mai, neanche se fossero i commessi del negozio che frequentiamo, sono due individui comuni come quelli che abbiamo amato in Io, Daniel Blake (recensione) e in tutte le pellicole precedenti, sin dai tempi di Riff-Raff dei primi anni ’90, passando tra tutti il film in cui la gente faceva fatica a mantenere una famiglia con una vita decente, con pochi diritti ed un salario meno che dignitoso.

Se nel meraviglioso lavoro precedente Loach ci raccontava le difficoltà di un uomo avanti negli anni che dopo una breve malattia non riusciva più a trovare lavoro e nel contempo aiutava una povera madre single a sopravvivere, in questo caso ci mostra cosa succede al giorno d’oggi, in cui i notevoli cambiamenti nel mondo del lavoro stravolgono drammaticamente le vite familiari e i rapporti tra le persone. La vita quotidiana perde progressivamente e in maniera inesorabile gli aspetti umani importanti per una dignitosa convivenza, dove i tempi forzati delle mansioni rendono disumano il modo di affrontare i compiti affidati. È l’umanità delle persone (che umane sono) che viene scalfitta. Fino a far male, a se stessi e agli altri. Sono per giunta situazioni inattese che non si sanno affrontare perché non si è preparati, perché si viene travolti dall’ansia di doverle superare.
Il protagonista Ricky, uomo pieno di tanta buona volontà e disposto a qualsiasi impiego pur di tirare fuori la sua famiglia dai problemi finanziari e ridar loro una casa di proprietà, persa a causa delle ultime difficoltà, dopo tanti lavori svolti e tutti persi, si indebita ancor di più comprando un grosso furgone bianco: spera così che il lavoro di corriere in proprio ma per conto di una grossa ditta di spedizioni risolva la sua situazione e possa finalmente veder sorridere la moglie Abbie e i suoi figli Sebastian e Liza. Ma la frase che il suo “capo” gli dice al momento del contratto “Tu non lavorerai per noi, ma con noi!” all’inizio sembra un incoraggiamento ed invece si rivela una trappola, nascosta dai tempi strettissimi di consegna dei pacchi affidatigli, dalla quantità di questi pieghi, dalla intera giornata di lavoro che lo tengono impegnato dalle prime ore del giorno fino alla tarda sera, fino ad arrivare distrutto in casa dove trova esausta anche la brava Abbie che di mestiere fa l’infermiera a domicilio presso gli anziani e i portatori di handicap. Lavori di ore ed ore per essere pagati con il minimo sindacale, lavori precari schiacciati dalle pressioni fortissime e non più difesi da quei diritti sociali così tanto faticosamente ottenuti nei decenni precedenti. In queste condizioni è normale che le prime discussioni per gli sbandamenti adolescenziali del figlio, di qualsiasi dissidio tra marito e moglie, che le prime occasioni di litigi diventino, dato l’alto tasso di nervosismo che aleggia nella casa, difficoltà enormi da superare e che la situazione precipiti vorticosamente, rovinando l’armonia familiare. I sogni di un uomo e della sua famiglia dominati e distrutti da un telefono palmare che controlla ogni minimo movimento durante il lavoro di consegne. Come per assurdo, nel pieno della tempesta familiare solo un grave episodio capitato a Ricky potrà ricompattare genitori e figli e ridare speranze e forza di volontà. Per continuare a lottare per la dignità.

Dice il regista: “Dopo Io, Daniel Blake, mi ero ripromesso di fermarmi. Ma, durante le ricerche per quel film, mi ero imbattuto in tutta una serie di lavori moderni, autonomi o temporanei, che mi hanno portato a intavolare diverse discussioni con Paul Laverty, il mio sceneggiatore di fiducia. L'economia moderna inglese si basa si contratti spesso part-time o a zero ore, che rappresentano una nuova forma di sfruttamento. Partendo da ciò, a poco a poco è venuta fuori l'idea di un film strettamente connesso a Io, Daniel Blake, una sorta di sua costola. Con Paul ci siamo concentrati sullo sfruttamento ma anche sulle conseguenze che il lavoro ha nella vita familiare e sulle relazioni personali. La classe media spesso parla di equilibrio tra lavoro e vita privata mentre la classe operaia è messa all'angolo dalla necessità, dal bisogno. Nonostante i grandi progressi della tecnologia, quelli che un operaio deve affrontare sono problemi di vecchia data. La tecnologia più avanzata entra nelle cabine di un autista di furgoni per le consegne, gli detta gli itinerari, permette al cliente di sapere dove si trova un pacco che sta attendendo o di sapere quando gli verrà consegnato. Il cliente può persino seguire il percorso del corriere per tutto il quartiere grazie ai segnali che vengono diffusi via satellite. Nessuno però si preoccupa della persona che sta alla guida del furgone, che passa da una strada all'altra per soddisfare le esigenze della tecnologia. Come si capisce da subito, la tecnologia è sì nuova ma i problemi di sfruttamento del lavoratore sono vecchi come il mondo. Con Laverty abbiamo fatto molte ricerche sul campo - ha concluso il regista - e abbiamo incontrato diversi corrieri, non sempre disposti a parlare per paura di perdere il loro posto di lavoro. Dalle ricerche sono emersi diversi dati preoccupanti, a partire dal numero di ore che i corrieri devono fare per guadagnarsi uno stipendio decente e dai problemi di sicurezza (la responsabilità su tutto ciò che accade pesa sulle loro spalle). Quello delle ore è un problema che riguarda anche chi come Abby fornisce assistenza a domicilio: nonostante lavorino anche 12 ore al giorno, vengono pagati come se lavorassero sei o sette ore al minimo salariale.”

Il dramma viene raccontato con una continuità impressionante, con pochissimi rari momenti di felicità familiare: ciò che impressiona non è solo osservare quello che succede, che è molto coinvolgente, ma anche e soprattutto la capacità di Ken Loach di farci vedere con gli occhi della mente i disagi e le frustrazioni di questa gente, straordinariamente delineata e ottimamente descritta con situazioni realistiche e credibili, con dialoghi che paiono non scritti ma recitati sulla base di un canovaccio attendibile, che uniti alla naturalezza della interpretazione degli attori molto ben scelti rendono l’ennesimo film imperdibile del regista britannico, oltre ad essere una drammatica denuncia sociale e politica di un uomo che anche da anziano non ha perso un solo grammo della sua potente vena narratoria, costantemente pronto a girare un film sugli argomenti che lo interessano da sempre, senza paura di essere etichettato come uomo di sinistra, anzi mostrando orgogliosamente il pugno alzato. Ma non è una questione di destra e sinistra: è sulle e delle condizioni umani e sociali dell’uomo che dobbiamo parlare, affinché non perdiamo di vista come va vissuta la vita per essere vissuta in armonia con tutti, in famiglia e fuori, in casa e nella società.

Nell’era dell’impero dei social, delle cose dette e urlate, scritte e ripetute, dei talkshow litigiosi dove pare che chi urla e mostra disprezzo per l’interlocutore abbia ragione, delle clamorose rivelazioni che poi risultano false e fuorvianti, la fortuna è incontrare una persona che orgogliosamente racconta la verità e ciò che osserva, che registra la vita degli individui comuni, senza trucchi di maquillage televisivo, senza nickname, senza profili falsi, che devono risolvere i quotidiani problemi per pagare il mutuo, dar da mangiare ai figli e fornire loro l’istruzione necessaria. Ken Loach non racconta romanzi letterari ma ci mostra i danni prodotti dall’economia moderna dominata dalla finanza e dal potere in mano a pochi privilegiati, a cui pare che la politica assista impotente. Daniel Blake e Ricky Turner sono solo dei numeri per la burocrazia, ma è giusto? Questo film è ancora una volta un’opera che scuote e fa riflettere, è un’opera umanistica, che richiama all’attenzione l’uomo come soggetto centrale della vita, che vuole ricordare a noi tutti che non si può trascorrere l’intera giornata lavorando per tornare a casa distrutti e addormentarsi sul divano davanti alla tv accesa mentre gli anni passano.
C’è qualcuno oltre questo grande cronista dell’uomo comune che ci parla ancora dei problemi essenziali della vita? capace di farci commuovere senza raccontare storie strappalacrime?
No, c’è solo lui, il maestro rosso che prossimamente compirà 84 anni. Che Dio ce lo conservi in salute.






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