Taxi Monamour (2024)
- michemar

- 20 set
- Tempo di lettura: 5 min

Taxi Monamour
Italia 2024 dramma 1h50’
Regia: Ciro De Caro
Sceneggiatura: Ciro De Caro, Rosa Palasciano
Fotografia: Manuele Mandolesi
Montaggio: Jacopo Reale
Scenografia: Valentina Di Geronimo
Costumi: Valentina Di Geronimo
Rosa Palasciano: Anna
Yeva Sai: Cristi
Valerio Di Benedetto: Angelo
Ivan Castiglione
Matteo Quinzi
Taras Synyshyn
Halina Havryliv
Laurentina Guidotti
Carlotta Galmarini
Elisa Menchicchi
TRAMA: Una ragazza italiana conosce alla fermata dell’autobus una ragazza ucraina fuggita dalla guerra e le due stringono amicizia fino a quando la straniera decide di tornare a casa nonostante il conflitto.
VOTO 6

Dopo l’affermazione del bel Giulia, Ciro De Caro arriva al quarto lungometraggio sempre accompagnato nella collaborazione e sulla scena dalla compagna Rosa Palasciano, con un’altra storia che lambisce le pareti del surreale e della ricerca psicologica della libertà e dell’indipendenza, quasi della ribellione socio-familiare.
La storia si concentra infatti su Anna (la Palasciano) e Cristi (Yeva Sai), due giovani donne all’apparenza diverse, ma che in fondo si assomigliano molto. La prima è in conflitto con se stessa e la propria famiglia e affronta in solitudine la sua malattia; l’altra fugge da una guerra che la tiene lontana da casa, a cui però pensa sempre con forte nostalgia, anche perché non si trova a suo agio qui. Tutti consigliano ad Anna di seguire il suo compagno in un viaggio di lavoro e a Cristi di restare al sicuro in Italia. Nessuna di loro ascolta i consigli, che considerano quasi oppressioni e restano sulle proprie posizioni. L’incontro tra loro, seppur breve, sarà quindi un tuffo nella libertà.

Bastano pochi minuti per rendersi conto che la loro storia è riconducibile ad un racconto in cui ci sono due solitudini che si incrociano, quelle di due persone provenienti da luoghi diversi che si incontrano grazie a una serie di coincidenze. Ma la nostra visione fa anche capire che si vuole raccontare qualcosa che accade ma che, nello stesso tempo, forse non accade perché come si è potuto rilevare nel film precedente, il regista ama un cinema fatto di sottrazioni, di cose che non si dicono, di cose che non si vedono. Tutto ciò per dare più forza a quello che esiste nel sottotesto. Un ulteriore passo, quindi, verso un’idea di cinema fatto di leggerezza e di cose non chiaramente mostrate. Come succede per le fantomatiche malattie dei personaggi, dall’appendicite agli svenimenti, mai ben spiegati: più che malattie fisiche, disturbi di smarrimento, di insicurezza, di instabilità psicologica.

Allo stesso tempo, Ciro De Caro però si distacca dalla leggerezza malinconica dell’altro film. Al contrario, abbraccia una grammatica visiva più asciutta, quasi radicale, che si nutre di sottrazioni e silenzi, e che trova nella solitudine il suo vero protagonista. Il film si muove su un terreno fragile e intimo, dove la narrazione non cerca di spiegare ma di evocare. Anna e Cristi - interpretate con una delicatezza sorprendente dalle due attrici - non sono personaggi da manuale, ma presenze che si sfiorano, si osservano, si riconoscono. Il loro incontro, fugace e apparentemente casuale, è il cuore pulsante del film: non tanto per ciò che accade, ma per ciò che rimane sospeso, non detto, immaginato.

De Caro, come abbiamo già imparato, lavora con primi piani stretti e ambienti rarefatti, in una Roma estiva e deserta che diventa quasi un paesaggio mentale. La città non è mai protagonista, ma cornice emotiva: un luogo dove il tempo sembra essersi fermato e dove le emozioni si muovono come ombre. I dialoghi sono minimi, quasi timidi: la mia impressione - già provata con Giulia - è che abbondano i momenti di dialoghi improvvisati e movimenti liberi, un copione scritto di massima. Il regista sembra volerci dire, con questo, che le parole non bastano, che la vera comunicazione avviene altrove: nei gesti, negli sguardi, nei silenzi. È un cinema che chiede pazienza e attenzione, che non offre risposte ma domande. Prosa o semplicemente (ma non per questo più facile) poesia cinefila.

La fuga al mare, leitmotiv ricorrente nel cinema del regista, qui assume una valenza quasi metafisica. Non è solo evasione, ma possibilità di rinascita. È come se il film ci dicesse che l’unico modo per sopravvivere alla malattia - fisica, sociale, esistenziale - sia quello di cercare un altrove, anche solo per un attimo.

Chi non conosce il film e mi legge dedurrà subito che non è un film per tutti. Alcuni spettatori potrebbero trovarlo lento, persino ermetico. Ma chi è disposto a lasciarsi andare, a rinunciare alla trama per abbracciare l’atmosfera, troverà un’esperienza emotiva intensa e sincera. È un cinema che non cerca di piacere, ma di essere. E in questo, riesce a essere profondamente umano. Più o meno come era accaduto nell’altro film.

Resta un’opera che si muove tra il sogno e la realtà, tra la malattia e la speranza, tra l’isolamento e il desiderio di connessione. Un film che non urla, ma sussurra. E che, proprio per questo, lascia il segno. Come quell’ultima sequenza: Anna che segue in auto l’autobus su cui, finalmente, Cristi si è decisa a partire per la sua Ucraina, in guerra o meno non importa a lei: si salutano, sorridendo, come per dire che è stato un piacere conoscersi ma che la scelta è incontrovertibile. Grazi. Grazie lo stesso. Siamo state bene assieme e ci siamo capite, a differenza degli altri che non erano in grado.

Due donne, una città, un incontro che cambia tutto. Un viaggio silenzioso tra solitudini che si riconoscono, tra una malattia che isola e una guerra che allontana. Un tuffo nella libertà, anche solo per un attimo. Questo è stato. Per questo si sorridono per l’ultima volta.

La dolcezza di Yeva Sai traspare ad ogni inquadratura, la fragilità che caratterizza il suo personaggio timido ma testardo intenerisce e la fisionomia esteuropea accentua le sue qualità. Rosa Palasciano è quel tipo di attrice che lentamente conquista lo schermo e lo riempie (non minuta e primi piani aiutano) fino a dominare ogni scena senza mai dandolo a vedere. E poi, vista la sintonia con cui lavora assieme al compagno regista, tutto pare naturale e spontaneo, come un cinema verità, come una sorta di mockumentary. Difatti, pur non essendolo nel senso stretto, il film ne condivide lo spirito: è un film che osserva più che raccontare, che documenta più che drammatizzare. Tutto merito del duo De Caro – Palasciano, di cui vedremo sicuramente ancora cose interessanti. I quali si sono portato ancora sul set ancora una volta Valerio Di Benedetto, Matteo Quinzi e Carlotta Galmarini, che in pratica fanno parte del gruppo di lavoro.

“Taxi Monamour!” urlano i due ragazzi in auto che di notte, alla fermata del bus, provano a farle salire per accompagnarle. Non ci sono più mezzi!

Riconoscimenti
Venezia 2024
Premio del pubblico Giornate degli autori









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