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The Brutalist (2024)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 5 giorni fa
  • Tempo di lettura: 8 min

Aggiornamento: 2 giorni fa

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The Brutalist

USA, UK, Canada 2024 dramma 3h36’ 3h22’ (versione streaming e home video)

 

Regia: Brady Corbet

Sceneggiatura: Brady Corbet, Mona Fastvold

Fotografia: Lol Crawley

Montaggio: Dávid Jancsó

Musiche: Daniel Blumberg

Scenografia: Judy Becker

Costumi: Kate Forbes

 

Adrien Brody: László Tóth

Felicity Jones: Erzsébet Tóth

Guy Pearce: Harrison Lee Van Buren

Joe Alwyn: Harry Lee Van Buren

Raffey Cassidy: Zsófia

Stacy Martin: Maggie Lee Van Buren

Alessandro Nivola: Attila

Emma Laird: Audrey

Isaach de Bankolé: Gordon

Michael Epp: Jim Simpson

Jonathan Hyde: Leslie Woodrow

Peter Polycarpou: Michael Hoffman

Maria Sand: Michelle Hoffman

Salvatore Sansone: Orazio

Benett Vilmányi: Binyamin

 

TRAMA: Quando l’architetto visionario László Toth e sua moglie Erzsébet fuggono dall’Europa del dopoguerra nel 1947, le loro vite vengono cambiate per sempre da un misterioso e ricco cliente.

 

VOTO 7,5


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Prima di iniziare a provare ad analizzare questo complesso lavoro di Brady Corbet, è necessario considerare tre concetti: il significato del titolo, la personalità d’artista del regista e gli argomenti che lo attirano su cui elabora la sua attività. Come è facilmente spiegabile il senso del titolo, anche per chi è meno ferrato nel campo dell’architettura, il brutalismo è un termine che indica una corrente architettonica nata negli anni ‘50, caratterizzata da edifici massicci, forme geometriche essenziali e l’uso del cemento a vista (detto béton brut). Di conseguenza la parola deriva proprio da questo: brutalist, infatti, indica chi pratica o incarna questo stile. Ma attenzione, come si ha modo di dedurre dalla visione, il termine, nell’ambito del film, non è solo estetico, ma anche metafora: ne rappresenta la durezza, la resistenza e la sincerità del protagonista, che ha vissuto l’Olocausto, l’esilio e la ricostruzione della propria identità. Quel protagonista è László Tóth (Adrien Brody), un architetto ungherese ebreo sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, che emigra negli Stati Uniti dove diventa celebre con le sue idee. Il suo stile brutalista, di conseguenza, riflette il trauma e la forza interiore maturati nel corso della sua vita. Il titolo, quindi, è un doppio ritratto: dell’uomo e della sua arte.



Ma per capire a fondo, per inquadrare meglio il lavoro artistico degli autori del film - che in effetti sono due, dato che Corbet lavora sempre in strettissima collaborazione con la compagna Mona Fastvold, fino al punto che la scrittura è a quattro mani nel pieno senso della frase, nel senso che spesso si alternano nella stesura come se fossero una sola persona. Che affiatamento! La loro collaborazione è una delle più affascinanti e intense del cinema indipendente contemporaneo. Lei (che è anche regista) ha cosceneggiato tutti i tre film diretti da Corbet (anche se non risulta ufficialmente), da The Childhood of a Leader (2015) a Vox Lux (2018), fino a questo ambizioso progetto. La loro scrittura è complementare: lui porta una visione registica audace e strutturata, lei contribuisce con una sensibilità narrativa profonda e un occhio attento ai dettagli emotivi. Questo processo è totalmente immersivo e lavorano spesso in isolamento, scrivendo per mesi in luoghi appartati. Secondo interviste lette, il loro metodo è quasi rituale: si confrontano costantemente, leggono ad alta voce, riscrivono insieme. È un processo lento, ma estremamente coeso.



Per chiarire meglio il terzo punto di questa introduzione, mi ripeterò da quello che ho scritto sul secondo film, l’interessantissimo Vox Lux. Al Nostro interessano sempre e soltanto personaggi dalla forte personalità inseriti nei tempi in cui vivono, in qualità di osservatori, portatori, ma anche vittime e artefici dei fenomeni sociali che attraversano il periodo che vivono. Lo spirito del tempo, giornalisticamente spesso chiamato zeitgeist, cioè l’insieme delle idee e degli atteggiamenti culturali, politici e sociali che caratterizzano un’epoca specifica, viene catturato da Corbet attraverso rappresentazioni e riflessioni sul XXI secolo che porta sullo schermo con l’atteggiamento di un fotografo inesorabile e spietato. Lì costruì il film sul personaggio di una cantante, qui su quella del famoso architetto. In entrambi i casi, la narrazione del film oscilla tra il dramma personale del/la protagonista e gli eventi storici che hanno segnato l’America contemporanea, offrendo una riflessione critica sulla società moderna. In questo modo, il film diventa una cartina di tornasole per decifrare il nostro tempo, un’epoca in cui il passato, il presente e il futuro si confondono in un gioco di specchi o di scatole cinesi. Sembrano, questa opera e le altre, racconti come tanti ed invece sono stravolgenti, offrendo una profonda comprensione delle dinamiche culturali e sociali del tempo, rendendoli opere rilevanti e significative.



Essendo un’opera colossale (ma non colossal, non è il caso di Corbet), magnetica, imponente, tetragona in senso sia geometrica che morale, brutale nel significato brutalista, senza fronzoli ma densa di emozioni, reazioni, litigi, con ripensamenti da parte dei tanti personaggi ma mai DEL personaggio che è inamovibile e coerente con sé e con gli altri, essendo tutto ciò, il regista l’ha costruita come un tomo con tanto di Ouverture, pochi lunghi capitoli, un Intermezzo musicale di  un minuto e un Epilogo, iniziando come  un film sull’Olocausto, con la fuga precipitosa degli ebrei - ma solo di chi poteva e chi ci riusciva - dalla Polonia verso l’agognata America, con colori cupi, lingua polacca e arrivo con i ben noti battelli su cui i passeggeri, spaesati ma pieni di speranza, gioivano alla vista della mitica Statua della Libertà, che Corbet inquadra - come piace a lui - di traverso e da sotto, modalità che si ripete nel film. Per meglio mostrare, infatti, le opere maestose di Tóth, posiziona spesso l’obiettivo, puntandolo verso l’alto, sotto le monumentali costruzioni dell’architetto, una prospettiva che incute timore e rispetto e soprattutto indica la grandezza (in ogni senso) di quel “monumento” che deve restare a futura memoria. Solido e per sempre.



Una storia lunga, molto lunga, 30 anni di tribolazioni di un uomo che non sopporta che gli si cambi alcun particolare dei progetti, che non accetta interferenze, sempre soggetto a crisi fisiche per i dolori insopportabili al naso infortunato durante una fuga, per cui inizia a prendere eroina e non se ne libererà mai. Soffre sempre, fisicamente e psicologicamente da quando ha dovuto abbandonare l’amata Erzsébet (Felicity Jones) e la nipotina Zsófia (Raffey Cassidy), costantemente con la speranza di farle arrivare a Filadelfia, in Pennsylvania, dove si è trasferito dopo la deludente permanenza in casa del cugino Attila (Alessandro Nivola) nella caotica ed inabitabile New York, la cui moglie non lo voleva. Ed invece l’arrivo della bella moglie, ridotta dalla osteoporosi su una sedia a rotelle, non fa che aumentare la sua instabilità ed il ricorso alle siringhe che lo hanno reso in pratica un eroinomane.



La sua vita, e poi la loro, è stata stravolta nel bene e nel male dalla conoscenza dell’irascibile miliardario classista e razzista Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), che condizionerà non solo la vita ma anche le sue opere per una costruzione faraonica in onore dell’amatissima madre del magnate. László è l’assoluto protagonista del film e non c’è scena in cui manchi, ma l’alter ego è proprio Harrison, in un verso o nell’altro, spingendo verso la mega realizzazione o contestandola, lasciandogli carta bianca e a volte consultando altri architetti, i quali, in confronto al nostro protagonista, sono troppo tradizionalisti, razionali e lontani dalla mentalità rivoluzionaria e sofferta di László. La cui visione è condizionata dalle peripezie vissute e dalle esperienze negative della vita. Ecco il motivo della sua inclinazione a disegnare edifici schematicamente geometrici, talvolta lisci e marmorei (il viaggio a Carrara è determinante ai fini della scelta estetica del mausoleo e, purtroppo, per un episodio che determinerà il cambiamento radicale della coppia), altre volte ruvidi con il cemento lasciato a vista.



Un romanzo lungo e complesso, un viaggio ispido di un migrante forzoso, che sarebbe restato volentieri nella sua terra, spinto negli Stati Uniti dove la Libertà della statua è un simbolo che tradisce, una terra dove puoi diventare qualcuno ma non è per nulla facile e se sei nero o povero (spesso entrambi) solo un colpo di fortuna può aiutare perfino un genio di talento, deluso e disilluso come László Tóth. Il quale viene a conoscenza di ogni tipo di fortuna o disgrazia: era arrivato festeggiato dal cugino Attila, accolto in casa come un fratello, aveva vissuto nei dormitori e mangiato nelle mense dei poveri, aveva avuto la fortuna di essere ricevuto da un miliardario, era scappato nella nuova Israele come un cittadino qualsiasi. Ora è solo un anziano incanutito celebrato alla Biennale di Venezia come un grande visionario geniale che aveva combattuto con le sue idee e che oggi diventano quelle dello stesso regista (come scrive Giulio Sangiorgio) contro “la crisi di un mondo, di un’arte, di un cinema razionale e materialista, che non conosce l’implicito, l’opaco, il dubbio, l’ombra, lo spirito.”



Un film monumentale che spiega l’America post-bellica in contrapposizione a quella ante-novecentesca illustrata spietatamente da un altro colosso del cinema, Il petroliere (tra i due film trovo attinenze di alcune inquadrature interne e alcuni brani ritmati). In una terra che quasi sempre, nonostante la retorica di come viene raccontata, è la figura dello straniero in generale a essere sgradita, come appunto succede al protagonista. È un film-edificio nel cui finale la nipote spiega, in occasione della mostra veneziana, l’ossessione del nonno, soprattutto con una frase lapidaria: “Qualunque cosa gli altri cerchino di inculcarti, non conta il viaggio, ma la destinazione.”



Se mastodontico è il film, monumentale è lo straordinario Adrien Brody, che dà tutto se stesso per un ruolo difficile, appassionato fino all’ossessione come il personaggio. Grandissima interpretazione giustamente celebrata dai premi. Ma son tutti bravi, in particolare un Guy Pearce mai visto, ormai maturo interprete, pure lui eccellente, come l’ottima Felicity Jones. La regia di Corbet è esemplare, alla disperata ricerca della perfezione, persino commovente, avendo lui stesso definito “il film della vita”, con tutti i meriti condivisi con la Fastvold, presente durante le riprese e la promozione, una presenza costante e fondamentale, non solo dietro le quinte ma anche nella costruzione del tono e della struttura narrativa. E si tenga presente che, nonostante la parvenza, siamo ancora nel campo del cinema indipendente (!).


 

Un’ultima considerazione va fatta a proposito di come il film rifletta la biografia e la visione artistica di Brady Corbet e Mona Fastvold, una coppia, come abbiamo visto, che ha fatto della propria vita un laboratorio creativo. Lui ha dichiarato che il film è “su un personaggio che fugge dal fascismo solo per incontrare il capitalismo”. Questa frase racchiude il cuore della sua visione, è una riflessione sull’arte come resistenza, sull’emigrazione come trauma, e sulla costruzione (fisica e interiore) di un’identità in un mondo ostile. L’architetto protagonista, è un suo alter ego simbolico, in quanto come Corbet, è un outsider che cerca di creare qualcosa di duraturo in un sistema che lo vuole piegare. Tanto che la coppia da anni, sceglie produzioni indipendenti e rifiuta il mainstream hollywoodiano. Il film ha richiesto sette anni di lavoro tra scrittura, finanziamento, riprese, montaggio. Durante questo periodo, Corbet e Fastvold hanno vissuto tra Europa e Stati Uniti, crescendo una figlia e affrontando la pandemia e viene da osservare che questa perseveranza necessaria per completare il lavoro riflette quella del protagonista, che impiega decenni per costruire il suo “monumento”. Film che è stato girato in 35mm e poi convertito in 70mm, una scelta che richiama il cinema d’autore europeo e testimonia il loro rifiuto delle scorciatoie digitali. Tra l’altro poi proiettato in fasi diverse con due rapporti di schermo, in 1,66:1 e 1,33:1. La Fastvold non è solo co-sceneggiatrice, ma anche co-ideatrice del tono e della struttura del film, volendo portare sensibilità femminile e profondità emotiva che bilanciano la monumentalità visiva del regista.



Nel giudizio finale non va dimenticato il notevole lavoro del commento musicale, della fotografia, del montaggio e della scenografia, tutto in armonia come in un’orchestra diretta dal gran maestro chiamato Brady Corbet. Che è ancora giovane!



Riconoscimenti

Oscar 2025

Miglior attore ad Adrien Brody

Miglior fotografia

Miglior colonna sonora originale

Candidatura per il miglior film

Candidatura per il miglior regista

Candidatura per il miglior attore non protagonista a Guy Pearce

Candidatura per la miglior attrice non protagonista a Felicity Jones

Candidatura per la miglior sceneggiatura originale

Candidatura per il miglior montaggio

Candidatura per la miglior scenografia

Golden Globe 2025

Miglior film drammatico

Miglior regista

Miglior attore in un film drammatico ad Adrien Brody

Candidatura per la migliore attrice non protagonista a Felicity Jones

Candidatura per il miglior attore non protagonista a Guy Pearce

Candidatura per la migliore sceneggiatura

Candidatura per la migliore colonna sonora

BAFTA 2025

Miglior attore protagonista ad Adrien Brody

Miglior regista

Miglior colonna sonora originale

Miglior fotografia

 


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