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Una donna chiamata Maixabel (2021)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 14 lug
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 24 ago

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Una donna chiamata Maixabel

(Maixabel) Spagna 2021 dramma biografico 1h55’

 

Regia: Icíar Bollaín

Sceneggiatura: Icíar Bollaín, Isa Campo

Fotografia: Javier Agirre Erauso

Montaggio: Nacho Ruiz Capillas

Musiche: Alberto Iglesias

Scenografia: Mikel Serrano

Costumi: Clara Bilbao

 

Blanca Portillo: Maixabel Lasa

Luis Tosar: Ibon Etxezarreta

Urko Olazabal: Luis Carrasco

María Cerezuela: María Jáuregui

Arantxa Aranguren: Carmen Hernández

Mikel Bustamante: Patxi Makazaga

Tamara Canosa: Esther, la mediadatrice

María Jesús Hoyos: madre di Ibon

Bruno Sevilla: Luichi, marito di María

Josu Ormaetxe: Juan María Jáuregui

 

TRAMA: Undici anni dopo che suo marito è stato ucciso dal gruppo basco ETA, Maixabel Lasa, accetta la richiesta di incontrare uno degli assassini che è in prigione, nel tentativo di trovare una sorta di rappacificazione.

 

VOTO 7,5


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I ‘70 e gli ‘80 sono stati due decenni terribili e drammatici per il terrorismo politico sia per l’Italia che per la Spagna: qui le frange estreme della sinistra, come le Brigate Rosse, e quelle della destra stragista e della tensione, con il probabile appoggio dei servizi segreti che avrebbero favorito il caos per giustificare misure repressive; lì l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna), nata sotto la dittatura franchista ma operante maggiormente dopo la transizione democratica, che mirava all’indipendenza del Paese Basco dalla Spagna. Il tremendo bilancio spagnolo parla di circa 820 vittime tra militari e civili, di cui 99 solo nel 1980. Cifre spaventose che non produssero nulla se non uccisioni barbare.



In questo contesto, la regista Icíar Bollaín, assieme a Isabel Campo nella scrittura, gira questo film che si basa su eventi reali e racconta la storia di Maixabel Lasa, vedova del politico basco assassinato dall’ETA Juan María Jáuregui, una delle prime familiari delle vittime che ha accettato di avere un colloquio con i colpevoli che erano detenuti in prigione per i loro crimini. Maixabel Lasa (Blanca Portillo) perde infatti suo marito, Juan María Jáuregui, nel 2000. Undici anni dopo riceve una richiesta insolita: uno degli assassini ha chiesto di incontrarla nel carcere dove sta scontando la pena dopo aver rotto i legami con la banda. Nonostante i dubbi e l’immenso dolore, Maixabel, intanto costretta ad avere la scorta di protezione, accetta di incontrarsi faccia a faccia con le persone che hanno posto fine alla vita di colui che era stato il suo compagno dall’età di sedici anni. Sempre insieme, poi anche con la figlia María adolescente al momento dell’assassinio.


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Succede che il 29 luglio 2000, il socialista Juan María Jáuregui, appena tornato a Tolosa dal Cile per celebrare le sue nozze d’argento, viene ucciso a colpi di arma da fuoco dai membri dell’ETA Patxi Makazaga (Mikel Bustamante) e Luis Carrasco (Urko Olazabal), fuggiti poi a bordo di un’auto guidata da Ibon Etxezarreta (Luis Tosar), il loro capo. Sua moglie e la figlia partecipano sconsolate alla veglia funebre, dove sono aiutate da tutti i colleghi del PSE-EE locale e da Carmen Hernández (Arantxa Aranguren), rimasta vedova da poco anche lei, per l’assassinio del marito Jesús María Pedrosa, vittima degli stessi terroristi. Quattro anni dopo, i tre uomini furono processati e condannati e destinati al carcere di Badajoz.


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Gli anni passano, qualche terrorista riflette sui suoi errori ma fa fatica ad ammetterlo, anche per carattere riottoso o per non ammettere di aver compiuto nefandezze inutili spargendo sangue. Piuttosto non riflettono su quanta tragedia hanno seminato nelle famiglie delle vittime, quante mogli e figli lasciati soli. Il primo ad entrare in crisi è Luis Carrasco, che Ibon inizialmente ritiene addirittura un traditore invece che un pentito. La mediatrice Esther (Tamara Canosa), competenza giusta e spirito da psicologa, dopo aver ricevuto una lettera anonima da Carrasco, in accordo con le istituzioni, avvia un progetto riabilitativo che tende a preparare i terroristi pentiti ad una serie di incontri con i familiari delle loro vittime. È merito di questa operatrice se il percorso di Luis arriva a toccare la volontà di incontrare la vedova di Jáuregui, donna di grandi valori morali e civici, che negli anni è rimasta sempre sulla breccia per mantenere vivo il ricordo del marito come uomo di buona volontà, incline, come lei, al dialogo e alla ragione, non alle inutili battaglie ideologiche.



Icíar Bollaín, regista spagnola di grande talento, ha scelto la strada che le è più consona, raccontando la storia di una donna forte, come già fatto più volte nel corso della sua carriera (ricordiamo in particolare il notevolissimo Ti do i miei occhi, vincitore di sette premi Goya). Lo fa scrivendo la sceneggiatura di questo biopic con Isa Campo, che ha poi co-firmato anche Un anno, una notte, storia di due sopravvissuti al Bataclan. La regista per una volta lascia da parte il suo abituale partner, di scrittura e nella vita, Paul Laverty, l’altra metà dell’universo di Ken Loach, per raccontare una storia tutta spagnola, in cui le ferite del paese e dei singoli vanno a convergere in un pentimento che è catarsi e rinascita. Sceglie uno stile asciuttissimo, dando spazio alle parole e ai silenzi, ai campi e controcampi intesi come confronto dialettico e ideologico, mettendo da parte gli strumenti convenzionali del cinema che quando chiamati in causa fanno quello che gli è richiesto. Il montaggio detta i tempi e racconta senza strabordare (la sequenza iniziale in particolare è un gioiello tra action e melodramma), la colonna sonora di un come sempre notevole Alberto Iglesias entra solo per accompagnare, mai per invadere.



Se la prima parte può sembrare un film solito e conosciuto, come tanti, insomma, la seconda ha un risvolto umano e drammatico che sconvolge l’attento spettatore. Prima di tutto con l’accostare la vedova e uno dei componenti della spedizione killer, Luis, appunto, tra l’attendibile ritrosia e scarsa fiducia tra i due. O meglio, da parte della volenterosa donna, mentre l’uomo è talmente in soggezione che non riesce inizialmente a guardarla in faccia: contrito, pentito, titubante, ammette alla vedova di aver capito gli errori. Un tavolo, due sedie, Esther a sovraintendere. Non si respira dalla tensione e dall’emozione. Una donna convinta che il dialogo può far guarire il malato di terrorismo di fronte al malato che sta guarendo e che ora si rende conto che a quella persona deve rendere conto, oltre che a Dio. Emozionante. Poi, quando nessuno se lo poteva aspettare, anche il colloquio con il durissimo Ibon, l’ultimo a cadere nella rete della ragione, che finalmente molla la rigidità e non riesce a trattenere le lacrime.



Non potevo non andare con la mente ad uno dei casi più clamorosi della Storia d’Italia, il caso Moro: si sono mai pentiti gli assassini di casa nostra? Hanno ottenuto qualcosa – ammesso che questo fosse il metodo da adottare – uccidendo giudici, giornalisti, magistrati, politici? Intanto, i due incontri, non ben visti dai compagni di partito di Maixabel, occupano quasi l’intera seconda metà del film ma il tempo sembra fermarsi tra gli occhi lucidi ma aperti alla generosa pacificazione della vedova e quelli dello sguardo pentito e colpevole dei due ex ETA. Fino all’ultima sequenza che vede una manifestazione di pentimento definitivo quando, nella celebrazione dell’anniversario sulla tomba in collina del martire, il terribile Iban posa un mazzo di rose: 10 rosse per il passato da dimenticare, 1 bianca per il futuro. Chi lo avrebbe mai presagito? Non si è fatto a tempo ad inghiottire la commozione dei colloqui in carcere (il secondo in privato nella casa della mamma di Iban) che il pubblico deve affrontare questa scena finale. Tutto vero, niente di inventato o regalato per conquistare consensi.



Grandi meriti ha la regista ma non si può evitare di spargere elogi a piene mani alle due donne della sceneggiatura, i cui dialoghi sono il pezzo forte, l’aspetto più bello del film, unitamente alle interpretazioni di Blanca Portillo (era Agustina in Volver di Almodóvar, basta questo a rendere l’idea), il suo attore preferito, Luis Tosar, uno dei più grandi del cinema spagnolo e un fantastico Urko Olazabal: tutti e tre dalle espressioni magiche e dai tempi di recitazione esaltanti. Ma che brava lei!



Riconciliazione, pentimento, sofferenza da assenza del proprio caro, forza del perdono e riapertura del dialogo al fine di portare serenità ad un Paese in sofferenza. Argomenti difficili, spinosi, non retorici ma di vita quotidiana che la regista e la cosceneggiatrice costruiscono con la delicatezza che solo le donne sanno e hanno.


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Avevo affrontato il film senza conoscere nulla e ne sono uscito meravigliato dalla bellezza.

Film anche utile per conoscere la Storia recente di una nazione tanto simile alla nostra.


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Riconoscimenti (tra 18 premi e 45 candidature)

Premio Goya 2022

Migliore attrice protagonista a Blanca Portillo

Migliore attore non protagonista a Urko Olazabal

Candidatura miglior film

Candidatura miglior regista

Candidatura migliore attore protagonista a Luis Tosar



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