Anatomia di un rapimento (1963)
- michemar

- 26 giu
- Tempo di lettura: 7 min

Anatomia di un rapimento
(Tengoku to jigoku) Giappone 1963 thriller/noir 1h48’ (vers. italiana) 2h23’ (vers. originale)
Regia: Akira Kurosawa
Soggetto: Ed McBain (Due colpi in uno)
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Hideo Oguni, Ryûzô Kikushima, Eijirô Hisaita
Fotografia: Asakazu Nakai, Takao Saitô
Montaggio: Akira Kurosawa
Scenografia: Yoshirô Muraki
Costumi: Miyuki Suzuki
Toshirō Mifune: Kingo Gondo
Tatsuya Nakadai: ispettore Tokura
Kyōko Kagawa: Reiko Gondo
Tatsuya Mihashi: Kawanishi, segretario di Gondo
Isao Kimura: detective Arai
Kenjiro Ishiyama: detective Taguchi
Takeshi Katô: detective Nakao
Yutaka Sada: l’autista Aoki
Masahiko Shimazu: Shinichi Aoki
Takashi Shimura: capo della sezione investigativa
Tsutomu Yamazaki: Ginjiro Takeuchi
TRAMA: Il dirigente di un’azienda di scarpe diventa vittima di un’estorsione quando il figlio del suo autista viene rapito con la richiesta di riscatto.
VOTO 9

Due lunghe metà di un film che non dura poco ma che tiene ancorato il pubblico sin dal primo istante fino alla parola fine. Due metà ambientate in luoghi diversi e quindi filmati non maniera totalmente differente. La prima è come un dramma da camera che si svolge nella casa dell’imprenditore protagonista, la seconda, tranne qualche sequenza nel soggiorno di quella casa, si sviluppa in esterni tra le strade della città e della campagna circostante, con le indagini della polizia a largo raggio, con tanti detective sguinzagliati per portare a termine un’indagine che non dovevano sbagliare e che doveva forzatamente portare all’arresto del criminale. Il titolo originale rispecchia abbastanza anche la locazione dei due ambienti: Tengoku to jigoku, Paradiso e inferno, mentre quello internazionale è High and Low, alto e basso, ed entrambi ci dicono chiaramente la distanza fisica e sostanziale tra due luoghi topografici e mentali. Lassù, nella villa che domina dalla collina la città di Yokohama, vive il ricco privilegiato; laggiù, nel caldo afoso infernale della campagna a valle piena di abitazioni povere, vive il delinquente che compie il crimine al centro della trama.

Il ricco dirigente Kingo Gondo (Toshirō Mifune) è impegnato in una lotta senza esclusioni di colpi bassi per ottenere il controllo della società National Shoes. Il consiglio di amministrazione della società è diviso tra i quattro dirigenti che cercano di produrre scarpe economiche e di bassa qualità, e il maggiore azionista (da far fuori in sede manageriale) che produce scarpe robuste ma fuori moda. In mezzo c’è Gondo, che vi ha lavorato una vita anche come calzolaio, che rifiuta questi piani, immaginando invece una strategia che richiede alti costi di produzione per una redditività a lungo termine ma per calzature belle, resistenti e alla moda. Ha segretamente organizzato un leveraged buyout, in buona sostanza una strategia finanziaria in cui un’azienda viene acquistata principalmente utilizzando denaro preso in prestito. Cosa che ha fatto infatti Gondo in modo da estromettere quei quattro a lui ostili in fatto di strategie industriali e per ottenere il controllo della società. Ma facendo così ha ipotecando tutte le sue proprietà. Proprio mentre sta per mettere in atto il piano, dopo l’ennesima discussione in casa con i soci nemici, mentre suo figlio Jun sta giocando con il figlio del suo autista Aoki, Shinichi, riceve una telefonata da qualcuno che afferma di aver rapito pochi minuti prima suo figlio. L’uomo, anche spinto della moglie disperata, è pronto a pagare il riscatto di 30.000.000 pur sapendo che così fallirebbe non solo il suo piano finanziario, ma anche tutte le sue finanze andrebbero gambe all’aria. Lì per lì la chiamata viene liquidata come uno scherzo quando infatti Jun si ripresenta in casa: è difatti del compagno di giochi Shinichi che non si hanno più notizie, per un evidente errore di persona.
L’autista, come sempre, è presente perché sempre a disposizione ed è sconvolto, intuendo che mai il suo datore di lavoro pagherebbe una cifra enorme come quella per suo figlio. La polizia, prontamente chiamata, è prudente e cerca di guadagnare tempo, mentre il dibattito morale che si scatena è se è giusto che il ricco padrone di casa debba mettere a repentaglio le sue finanze per il bimbo di un suo dipendente oppure è impensabile. In ogni caso le conseguenze sarebbero, pur se di natura differente, disastrose. Infatti, in un’altra telefonata, il rapitore rivela di aver scoperto il suo errore ma chiede ancora lo stesso riscatto.
Dopo averci pensato, Gondo decide di annunciare che non pagherà il riscatto, temendo che così facendo metterebbe a repentaglio il suo lavoro, le sue finanze e il futuro della sua famiglia, ma i suoi piani vengono sventati quando il suo segretario Kawanishi, un uomo opportunista, fa sapere alla fazione dei soci contrari del rapimento, i quali sono disposti comunque ad aiutarlo ma semplicemente, seguendo il loro piano, in cambio di una promozione nel caso in cui loro dovessero prendere il sopravvento alla guida dell’azienda. Alla fine, dopo continue suppliche da parte dell’autista e sotto la pressione della moglie, Gondo decide di pagare il riscatto. La sera prima dello scambio pattuito, sempre sotto il controllo della polizia, Gondo sistema due valigette piene di yen ma anche con le cialde che rilasciano un cattivo odore quando vengono immerse nell’acqua o fumo rosa quando vengono bruciate. Seguendo le istruzioni del rapitore, il denaro viene messo nelle valigette e gettato fuori da un treno in corsa.
Ora il film è al di là delle quattro mura della bellissima villa. Fino ad ora era un dramma da camera con comportamenti da pièce teatrale, ora sta diventando un thriller d’azione, un noir in piena regola, dove emergono prepotenti due figure diverse e contrastanti: l’ispettore Tokura, persona calma e riflessiva, dai modi garbati ma decisi, sempre pronto a soluzioni intelligenti e soprattutto molto efficaci: vedi come ha fatto prontamente chiudere le tende nel grande soggiorno quando loro sono giunte nella casa, in modo da non essere visti dall’eventuale rapitore tramite un binocolo. Ha un seguito di detective svelti ed efficienti, bravissimi, esperti, che non lasciano nulla di intentato, a cominciare dal suo braccio destro Taguchi, per tutti il “capo” data la sua esperienza. Per loro, ogni particolare, ogni indizio ha la sua rilevanza. L’altra figura che dominerà la seconda parte è il criminale Ginjiro Takeuchi, uno pseudo studente di medicina che sta gestendo l’operazione senza alcuno scrupolo di coscienza, fino ad arrivare ad uccidere la coppia di drogati, a cui per compenso procurava eroina, che lo hanno aiutato nel rapimento e nell’azione del lancio delle due valigette dal treno in corsa, liberando il bambino.
Da quel momento, come nei più classici gialli, scatta a maggior ragione la controffensiva organizzata dall’ispettore ed il cerchio si andrà stringendo come un cappio attorno al collo del criminale, tra l’opinione pubblica interessata fino allo spasimo, la forte personalità di Takeuchi e l’incosciente operatività del papà del fanciullo rapito in quanto debitore – ora anche moralmente - della forte somma che il suo capo ha dovuto sganciare per il suo bimbo. Il ritmo è compassato ma serrato, ogni sequenza pare decisiva anche quando non lo è, la stampa preme, i poliziotti si riuniscono e nel briefing stabiliscono i punti raggiunti, mentre si riesce a stabilire con una buona certezza dove vive il criminale, da dove ha chiamato al telefono, chi lo ha aiutato, nella speranza che le compresse chimiche nelle borse facciano il loro lavoro. E quando il film, girato in un preciso e netto bianco e nero, si colora di rosa, la svolta è decisiva.
Akira Kurosawa colora di rosa un film nero di storia e di visione, sorprendendo lo spettatore sempre più coinvolto. Una regia magnifica che avvolge e inghiotte il pubblico, una sceneggiatura ansiogena e intraprendente, un montaggio (tutto nelle sue mani) che non lascia pause, che fa trattenere il fiato a lungo, per tutta la lunga durata, in un crescendo che pare il finale di una sfida all’ultimo sangue, pur se non si vede una goccia per tutto il film. Parlano giapponese, hanno il viso di giapponesi (Toshirō Mifune è più che un gigante) ma sembra un film americano, anche per l’amore che il grandissimo regista ha avuto per la cultura e l’arte occidentale. Come gli era già successo per i film acclamati in precedenza che prendevano riferimenti dalle tragedie di Shakespeare o di Dostoevskij o dal cinema di John Ford, Kurosawa dimostra tutto il suo grande talento e firma un film indimenticabile. Una regia che è più che perfetta, con la macchina da presa (in alcune sequenze di movimento, come quelle in treno, ha fatto funzionare diverse cineprese contemporaneamente!) sempre nel punto giusto e lo spettatore se ne accorge quando in ogni inquadratura vede sempre tutto quello che serve e che il regista vuole mostrarci. In auto si possono ammirare tutte e quattro i volti dei passeggeri, in casa il comportamento degli azionisti, e poi le espressioni del pericoloso e deciso a tutto Takeuchi, del perfetto ispettore Tokura, dell’ineffabile Taguchi, e soprattutto il forte carattere e la notevole personalità di Gondo, un Toshirō Mifune superbo (16 film assieme al regista!), traduzione fisica del cinema in costume o in abiti moderni del maestro giapponese.
In Giappone, Kurosawa lo chiamavano Tenno, l’Imperatore “ma io sono lo schiavo del cinema”, ribatteva. Molti critici lo hanno avvicinato ad altri grandi nomi ma mi verrebbe da dire che se un cineasta ha girato titoli come Cane randagio, Rashomon, I sette samurai, Dersu Uzala, Ran, e via dicendo non ha copiato ma si è solo ispirato. E poi lo hanno imitato. E che sguardo sul set? Due diversi ne sono stati utilizzati per filmare la casa di Gondo che si affaccia su Yokohama. Uno è stato girato sul posto, con vista sulla città. Le scene notturne, che mostrano la stessa posizione e vista, sono state girate con un display in miniatura fuori dalla finestra, poiché l’esterno del set non poteva essere fotografato bene di notte. Le scene con le tende tirate sono state girate invece ai Toho Studios. Il set stesso era una stanza con una parete aperta, in cui la telecamera entrava raramente. La location della scena finale, drammatica e con un eccellente Tsutomu Yamazaki, si è ispirata alle prigioni di altri paesi, installando porte di vetro e reti metalliche dietro le finestre. Un ulteriore grande set è stato realizzato per la scena di conversazione finale originale. A tal riguardo, è da rifiutare ogni versione ridotta: è quella lunga che rende l’idea della magnificenza del film. Che è meraviglioso, capace di conquistare ogni mente, appassionare ogni spettatore e questo fenomeno ha solo un nome e un cognome: Akira Kurosawa, un dei maggiori maestri dell’intera storia del cinema mondiale.
Bella la colonna sonora, con momenti anche di classicismo, ma fa specie, in una scena culminante, ascoltare la versione orchestrale moderna – simil Elvis – di ‘O sole mio, mentre il rapitore-assassino entra nella catapecchia dei due collaboratori che crede ancora in vita.
Che cinema!
(Il titolo italiano richiama alla mente Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, non lo so, ma è plausibile che abbia voluto evocare quel precedente celebre, anch’esso un’indagine approfondita su un crimine, per attirare l’attenzione del pubblico con un’assonanza tematica e stilistica, con la differenza che quello si svolge interamente in tribunale.)

Riconoscimenti (troppo pochi, maledizione!)
Golden Globe 1964
Candidatura miglior film straniero


































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