Barry Lyndon (1975)
- michemar

- 3 mar 2019
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 4 giu

Barry Lyndon
UK, USA, Irlanda 1975 dramma 3h4’
Regia: Stanley Kubrick
Soggetto: William Makepeace Thackeray (romanzo)
Sceneggiatura: Stanley Kubrick
Fotografia: John Alcott
Montaggio: Tony Lawson
Musiche: Leonard Rosenman
Scenografia: Ken Adam
Costumi: Milena Canonero, Ulla-Britt Söderlund
Ryan O’Neal: Redmond Barry Lyndon
Marisa Berenson: Lady Honoria Lyndon
Patrick Magee: Chevalier de Balibari
Hardy Krüger: capitano Potzdorf
Steven Berkoff: Lord Ludd
Gay Hamilton: Nora Brady
Marie Kean: madre di Barry
Diana Körner: Lischen
Murray Melvin: reverendo Samuel Runt
Frank Middlemass: sir Charles Reginald Lyndon
André Morell: Lord Gustavos Adolphus Wendover
Arthur O’Sullivan: capitano Feeny
Godfrey Quigley: capitano Grogan
Leonard Rossiter: capitano John Quin
Philip Stone: Graham
Leon Vitali: Lord Bullington
Billy Boyle: Seamus Feeny
TRAMA: In Irlanda, verso la fine del regno di Giorgio II, il giovane Redmond Barry crede di aver ucciso in duello un rivale in amore e si vede costretto a scappare. Si arruola nell’armata inglese e combatte in Prussia durante la Guerra dei Sette Anni, poi diserta e, scoperto, è costretto ad arruolarsi tra i prussiani. Fuggito in Inghilterra, riesce a sposare una gran dama e diventa un uomo potente. Ma ha contro il figliastro nato dal primo matrimonio della moglie.
Voto 10 e lode

C’è un prima e dopo a questo film, nel senso che quello che precede e che segue - che comprende tantissime opere meravigliose e indimenticabili che hanno fatto la Storia del Cinema – non è all’altezza del decimo lavoro del Maestro. Quindi, il più bel film di tutti i tempi? Forse. Non ho mai amato le classifiche assolute ma ogni volta che rimetto nel lettore il BRD – ogni tanto rinnovo l’abitudine di rivederli tutti, in sequenza, ne ho bisogno - mi convinco, puntualmente, che lo sia. Sia perché lo penso sia per alcuni motivi che proverò a spiegare (i capolavori non sono sempre spiegabili).

Ormai Stanley Kubrick si era definitivamente affermato con il viaggio spaziale, precursore e irraggiungibile odissea dell’immaginario spaziale, e con quell’arancia che mostrava il volto di una società malata alla pari della mente di una gang violenta che scorrazzava nel buio delle strade inglesi, quando cominciò ad esaminare il romanzo Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray. L’idea era ambiziosa e immaginiamo che Kubrick mai avrebbe cambiato il minimo particolare per come si stava realizzando nella sua testa. E così fu.

Come sappiamo tutti, il vero sogno del Maestro, e quindi il progetto iniziale in quel periodo, era di realizzare un film su Napoleone Bonaparte, reso possibile anche a livello finanziario dal successo economico di Arancia meccanica. Lo pensava da tanto, aveva raccolto un’infinità di libri e studi, mentalmente era pronto: bisognava solo organizzarsi, scrivere, creare il cast, trovare i finanziamenti. Ma (i ma ci sono sempre) dopo l’insuccesso e il fallimento finanziario del film Waterloo di Bondarchuk, prodotto da Dino De Laurentiis con un budget di 40 milioni di dollari, i finanziatori ebbero paura di un’altra fatale débâcle e ritirarono il loro supporto e lui si trovò senza fondi. Nonostante ciò, decise di adattare Le memorie di Barry Lyndon di Thackeray, pubblicato nel 1844 ma ambientato nel XVIII secolo, il periodo dell’Illuminismo e delle guerre europee. E difatti, come un gioco di parole, furono i lumi di candela che dominano la luce del film.

Si è scritto molto su questa identificazione temporale nell’analisi cinematografica, perché, grazie al contributo del direttore della fotografia John Alcott premiato con l’Oscar, fu utilizzata la luce naturale nelle sequenze in esterni e solo candele negli interni quando necessario. L’obiettivo del Maestro era richiamare la pittura paesaggistica dell’epoca, utilizzando spesso il carrello ottico e partendo da un dettaglio o frammento di ambiente per poi aprire l’inquadratura su una visione più ampia.

Una scena mostra Lord Bullingdon che trova Barry semi incosciente in un club di gentiluomini e lo sfida a duello. Cinque persone sono disposte intorno a un tavolo, due giocano a carte e gli altri sono inattivi. La mancanza di movimento ricorda un quadro di Jan Vermeer, ma la scena è più simile a una natura morta, dove le figure umane sono prive di vitalità come gli oggetti inanimati nella stanza. Questa sequenza visivamente impressionante sottolinea il metodo narrativo descrivendo i personaggi come morenti.

È presente una voce fuori campo che non si limita a commentare ciò che viene mostrato, ma talvolta anticipa gli eventi, rompendo una determinata convenzione drammaturgica; altre volte, deride o dissacra il contenuto, mantenendo sempre un tono neutro (nel libro il narratore è lo stesso Barry, descritto come un “avventuriero millantatore”: il Maestro fu molto colpito dall’uso dell’Io narrante “inaffidabile” che inganna il lettore). Questo è il secolo dei Lumi, caratterizzato dalla ricerca di una morale o di una ragione capaci di controllare le passioni. Tuttavia, nella vicenda umana di Barry, il controllo è esercitato tramite l’inganno (numerose sono le maschere presenti in questi quadri), mentre della ragione rimane solo un evidente pessimismo. L’inevitabilità degli eventi sottolinea l’unica certezza che può regolare i comportamenti umani: la morte. In questo contesto, si ritorna alle “nature” delle singole sequenze.

La scelta dell’ambientazione è negli stessi scenari di dove si svolgeva la trama (Inghilterra, Irlanda, Germania), abiti sfarzosamente e perfettamente identici alle stampe e ai quadri dell’epoca, rifiuto totale delle luci artificiali da sempre utilizzate dal cinema sostituite, come detto, oltre dalla luce naturale, da migliaia di candele come d’altronde si illuminava in quel secolo gli ambienti: scelta coraggiosa e temeraria quest’ultima che comportò l’utilizzo di macchine da presa con lenti particolarissime della Zeiss. E i risultati furono eclatanti. Se poi si aggiungono le maestose inquadrature, specialmente quella panoramiche e a campo lungo che paiono arrivare direttamente dai quadri paesaggistici del secolo, con lenti movimenti sia della macchina da presa che delle migliaia di comparse e dei protagonisti (magistrale la sequenza lentissima di Barry che si avvicina a Lady Honoria per darle un bacio), se poi si aggiunge la voce narrante fuori campo che ci conduce attraverso la lunga e travagliata storia del protagonista Lyndon, se poi si aggiunge l’oculata (come sempre!) scelta delle musiche che accompagnano le scene immortali, ecco che il miracolo del capolavoro cinematografico per eccellenza viene realizzato.

Quel genio di newyorkese ci raccontava così il Settecento nello stesso modo in cui aveva raccontato il futuro, con la serie di (dis)avventure del giovane Redmond Barry, i suoi alti e bassi, il suo dolore per la morte dei suoi cari, o come quando Lord Bullington si smarrisce nel proprio terrore a causa della tensione del duello con cui lo sfida. Esiste un altro film di 184’ che non stanca e dove tutto è perfetto e inappuntabile?

Meglio evitare di parlare di premi Oscar perché sono stati solo quelli riguardanti il cast tecnico e niente al film (figuriamoci a Stanley Kubrick): posso capire che quell’anno la concorrenza era senza precedenti assurdamente densa di film fuori dall’ordinario (Lo squalo di Spielberg, Nashville di Altman, Quel pomeriggio di un giorno da cani di Lumet, Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman, premiato, e, appunto, Barry Lyndon). Un elenco paradisiaco!

Se tentenno sempre ad utilizzare il termine Capolavoro, in questo caso non ho dubbi, lo è per definizione.
Capolavoro!

Scriveva Jean-Pierre Oudart nel 1976 sul mitico Cahiers du cinéma:
Le avventure di Barry Lyndon sono quelle di un personaggio in cerca di lusso e gloria che non ha alcuna padronanza dei codici altrui, ma, nondimeno, si fida ciecamente di ciò che, ai suoi occhi, essi promettono. Letteralmente, scambia i codici per messaggi (la storia d’amore con la cugina, che apre il film e porta al primo inganno della sua carriera), usa i messaggi altrui come codici (l’uniforme militare e la lettera rubata), usa i codici altrui per appropriarsi del loro denaro (gioco d’azzardo, spreco aristocratico), e spende il denaro altrui (la fortuna della moglie) per entrare nel regno dei loro valori per diventare lui stesso un aristocratico, senza successo. Il lusso delle inquadrature lavora in maniera antifrastica: sottolinea la storia poco gloriosa; deride le azioni dei personaggi.

Riconoscimenti
Oscar 1976
Migliore fotografia
Migliore scenografia
Migliori costumi
Miglior colonna sonora
Candidatura miglior film
Candidatura migliore regia
Candidatura migliore sceneggiatura non originale
Golden Globe 1976
Candidatura miglior film drammatico
Candidatura migliore regia
BAFTA 1976
Migliore regia
Migliore fotografia
Candidatura miglior film
Candidatura migliore scenografia
Candidatura migliori costumi
David di Donatello 1977
David Europeo






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