Call Jane (2022)
- michemar 
- 28 mar 2023
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 13 mag 2023

Call Jane
USA 2022 dramma 2h1’
Regia: Phyllis Nagy
Sceneggiatura: Phyllis Nagy, Roshan Sethi
Fotografia: Greta Zozula
Montaggio: Peter McNulty
Musiche: Isabella Summers
Scenografia: Jona Tochet
Costumi: Melissa Desrosiers, Julie Weiss
Elizabeth Banks: Joy
Sigourney Weaver: Virginia
Chris Messina: Will
Kate Mara: Lana
Wunmi Mosaku: Gwen
Cory Michael Smith: Dean
Grace Edwards: Charlotte
John Magaro: detective Chilmark
Aida Turturro: sorella Mike
Bianca D'Ambrosio: Erin
Bruce MacVittie: direttore Richardson
Rebecca Henderson: Edie
TRAMA: Chicago, 1968. Dopo aver subito un aborto clandestino, una casalinga di periferia lotta per dare alle altre donne la possibilità di sottoporsi all'aborto in maniera sana e sicura attraverso la creazione di un collettivo chiamato Jane.
Voto 6,5

Le cronache del tempo, si era nel 1968, raccontano che la telefonata di una studentessa dell'Università di Chicago mise in moto una serie di eventi che portarono alla costituzione di un gruppo clandestino impegnato ad assicurare alle donne un accesso sicuro all'aborto quando era ancora illegale: è la storia del Jane Collective, ufficialmente noto come Abortion Counseling Service of Women's Liberation. L’associazione nacque quando Heather Booth, studentessa dell’Università di Chicago, venne a sapere che la sorella di un’amica era rimasta incinta e che quella gravidanza indesiderata era per lei talmente traumatizzante da indurla a pensare al suicidio.

Altre donne con gravidanze indesiderate iniziarono a contattare Booth dopo aver appreso tramite passaparola che poteva aiutarle. Quando il carico di lavoro diventò più di quello che poteva gestire, chiese aiuto ad altre attiviste nel Movimento di Liberazione delle Donne. Il collettivo cercò di affrontare il numero crescente di aborti non sicuri eseguiti da fornitori non addestrati. Poiché gli aborti illegali non erano solo pericolosi ma anche molto costosi, le fondatrici pensarono di poter fornire alle donne un accesso più sicuro e conveniente. Inizialmente, l'organizzazione indirizzava le donne a medici uomini, ma dopo alcuni anni, tuttavia, appresero che uno dei loro medici più utilizzati aveva mentito sul possesso di credenziali necessarie e ciò creò un conflitto nel gruppo, causando l'abbandono di alcuni membri. Altre si resero conto che se un uomo senza titoli medici poteva intervenire per un aborto sicuro, allora anche loro potevano imparare e fu così che alcune si addestrarono allo scopo. Operarono circa in 11.000 casi, principalmente riguardanti donne a basso reddito che non potevano permettersi di viaggiare nei luoghi in cui l'aborto era legale, così come donne di colore. Nel 1972, uno degli appartamenti del Jane Collective fu perquisito dalla polizia e sette delle donne furono arrestate. Ciascuna era accusata di undici capi di imputazione per aborto e cospirazione per commettere aborto, con una pena detentiva massima di 110 anni. Il loro avvocato fu in grado di ritardare i procedimenti giudiziari in previsione della decisione della Corte Suprema. Come sperato, la decisione della Corte annullò molte restrizioni e le accuse furono ritirate. Poiché allora le donne ebbero accesso all'aborto legale, il Collettivo si sciolse. Sebbene il loro operato a volte causò qualche complicazione di salute, va dato atto che nessuna delle loro clienti corse mai il rischio della vita. Queste le cronache.

Il film, scritto e diretto da Phyllis Nagy, già candidata agli Oscar per la sceneggiatura di Carol, racconta appunto di quando negli Stati Uniti del 1968 l’aborto era illegale, in qualsiasi caso, perfino se la gravidanza aveva il 50% di possibilità di uccidere la madre. Che è proprio quel che si sente dire Joy (Elizabeth Banks), una tranquilla casalinga di Chicago. Lei, sposata felicemente con un Will (Chris Messina) avvocato penalista, e madre di un’adolescente, è incinta di pochi mesi e non sta bene: ultimamente ha molti disturbi e il suo ginecologo ritiene pericoloso il suo stato, per cui converrebbe, per i rischi che corre, rivolgersi alla commissione che esamina i casi gravi per poter ottenere il permesso di abortire. Durante la riunione in cui la donna si presenta con il marito per essere ascoltata e per esporre la sua pericolosa situazione, i severi medici – che fino ad allora hanno dato l’autorizzazione solo in un unico caso in dieci anni - le pongono delle domande e poi decidono con una votazione senza appello. “I dati in nostro possesso in casi simili a questo” dice uno di loro “mi rassicurano ampiamente. Non ho alcun dubbio riguardo alla mia decisione, Quindi voto no all’interruzione!” L’esterrefatta Joy replica: “Un bambino sano… tutto qui? Non dice nulla riguardo alla madre?” Ne segue una serie di NO, all’unanimità. Di una commissione composta di soli uomini. Che decidono del destino e della vita di una donna. Richiesta respinta.

Cosa può fare una donna in queste condizioni e in questa situazione? Solo per puro caso le capita di leggere un volantino incollato abusivamente ad una fermata dell’autobus su cui è scritto: “Incinta? Preoccupata? Fatti aiutare! Chiama Jane!” Call Jane! con tanto di numero di telefono. C’è da fidarsi? Chi sono queste persone? Lo scetticismo ed il timore per una organizzazione ai limiti della legalità e sconosciuta la trattengono ma la disperazione la spinge. Ci prova e scopre una donna, Virginia (Sigourney Weaver), una persona impegnata, agguerrita in ogni tipo di lotta a favore dei diritti delle donne, che ha messo su un metodo clandestino per aiutare chi avverte la necessità di abortire per i più svariati motivi (stupro, pericolo di vita, indigenza, troppi figli). L’attivista ha un accordo con un giovane ginecologo che con un minimo di attrezzatura aiuta le donne gravide e, facendosi pagare profumatamente, porta a termine in pochi minuti l’intervento, per fortuna sempre senza alcun rischio: fino ad allora non c’è stato mai un caso finito male. Le collaboratrici dell’associazione sono poche e sono volontarie, tutte dedite alla loro missione sociale, c’è persino una suora.


Jane non è una donna, come diceva il volantino, è un insieme, è un gruppo di persone che si trova a combattere in un mondo maschilista che giudica secondo convinzioni ideologiche, retrograde, retoriche, uomini conservatori che non sanno e non possono capire la mentalità femminile e non sono in grado di esaminare i casi specifici che vengono sottoposti. Il film non è, chiaramente, un inno all’aborto abusivo, ma di necessità, alla pari di quelle donne che si presentano disperate perché nessuno le ascolta e le aiuta, che vivono una condizione che le strema anche dal punto di vista psicologico. È un film completamente visto dal punto di vista femminista? Sì, certo, e come altro si poteva fare, se il potere delle decisioni sul loro corpo è determinato dagli uomini? Bene fa la combattente Virginia a stare al gioco e a far finta di flirtare con il dottorucolo - che si arricchisce alle spalle delle bisognose - pur di raggiungere lo scopo di assistere le più deboli, le più sfortunate, le più bisognose d’aiuto. Machiavellicamente ingegnosa, lei piazza un piccolo sprazzo (non l’unico) di commedia in un film che sotto la forma di dramma tiene il ritmo incalzante del thriller.

Infatti, la scelta della regista è un registro a cavallo tra il dramma, come è in realtà la situazione, e la commedia, sfruttando la bravura e la adattabilità di due attrici in perfetta sintonia: Elizabeth Banks e Sigourney Weaver. E non è neppure l’unica scelta importante che Phyllis Nagy impone alla sua opera, che dà anche un taglio brillante e militante evitando però la retorica e puntando decisamente su un progetto di battaglia civile molto importante, perché abitualmente il cinema ci aveva abituati negli anni a trattare questo argomento con una rappresentazione punitiva e traumatica dell’aborto e saggiamente la regista sceglie, oltre a quella leonessa chiamata Sigourney Weaver, una co-protagonista che se la cava molto bene anche con ruoli brillanti, la bella Elizabeth Banks.

In ogni caso il film tratta un tema quanto mai attuale, date le cronache di questi tempi che vedono un ritorno di fiamma del conservatorismo in molti Paesi, Italia compresa (da noi anche politicamente “simbolizzato”). Opera che ha, per portare avanti il discorso, mescolato fatti reali e di finzione e che ha destato scalpore al Sundance prima e al Festival di Berlino dopo, dove ha raccolto anche una candidatura. Peccato solo per una certa parvenza di TV movie, particolare che non apprezzo mai.

Riconoscimenti
Festival di Berlino 2022:
Candidatura miglior film






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