Detenuto in attesa di giudizio (1971)
- michemar

- 2 giu
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 3 set

Detenuto in attesa di giudizio
Italia 1971 dramma 1h42’
Regia: Nanni Loy
Sceneggiatura: Sergio Amidei, Emilio Sanna
Fotografia: Sergio D’Offizi
Montaggio: Franco Fraticelli
Musiche: Carlo Rustichelli
Scenografia: Gianni Polidori
Costumi: Marisa Crimi, Bruna Parmesan
Alberto Sordi: Giuseppe Di Noi
Elga Andersen: Ingrid
Andrea Aureli: guardia
Nazzareno Natale: Saverio Guardascione
Michele Gammino: don Paolo
Lino Banfi: direttore del carcere
Luca Sportelli: agente del carcere
Tano Cimarosa: agente del carcere
Silvio Spaccesi: maresciallo del carcere
Giovanni Pallavicino: brigadiere Saporito
Antonio Casagrande: giudice
Gianni Bonagura: avvocato Sallustio Giordana
Giuseppe Anatrelli: detenuto Rosario Scalia
Mario Brega: detenuto
Giovanni Attanasio: guardia
Mario Pisu: psichiatra
Gianfranco Barra: impiegato dell’ufficio detenuti
TRAMA: Giuseppe Di Noi è un geometra da sette anni emigrato in Svezia, dove ha fatto fortuna con la sua piccola impresa edile. Tornando in Italia per far conoscere il suo Paese alla moglie Ingrid, alla frontiera viene inspiegabilmente fermato e quindi arrestato. Tradotto in carcere, scopre di essere accusato di omicidio colposo. Giuseppe resta coinvolto in una rivolta e per questo spedito in un carcere ancora più duro.
VOTO 7,5

Nanni Loy ha indubbiamente costruito la sua bella carriera come autore di commedie, con piglio personale e occhio vigile verso i vizi italici, ma non ha disdegnato mai le storie serie (Il padre di famiglia, Le quattro giornate di Napoli, Un giorno da leoni), puntando comunque l’attenzione verso le storture della vita sociale del Paese. Questo film ne è un paradigma ed è quello che ha fatto più rumore quando è stato rilasciato. Tuttavia, non abbandona completamente la sua propensione per la commedia, tanto da ingaggiare come attore protagonista il comico per eccellenza ed eroe delle nostre vicende, Alberto Sordi. Gli affida infatti il ruolo di Giuseppe Di Noi, un affermato geometra italiano emigrato in Svezia, dove ha costruito la sua vita con la moglie Ingrid (Elga Andersen). Approfittando di un periodo di tranquillità nel suo lavoro, porta la sua famiglia a visitare il suo paese natale, ma alla dogana, il funzionario gli chiede di accompagnarlo per sistemare una formalità. Giuseppe non rivedrà presto la sua famiglia: verrà arrestato e mandato in isolamento in varie prigioni. Tagliato fuori da ogni legame con il mondo esterno, privato di informazioni sul suo arresto, nell’interminabile attesa di un processo, trattato come il peggiore dei criminali, scoprirà con grande difficoltà il suo presunto crimine: l’omicidio involontario di un certo Frank Kaltenbrunner, un tedesco che non conosceva nemmeno.

Una storia decisamente kafkiana nel mondo giudiziario, che evoca fortemente il formidabile Processo scritto dallo scrittore ceco. Ma a differenza di questi, Loy non usa la sua storia come metafora della burocrazia e della disumanizzazione che comporta. Si basa invece su realtà concrete, quella del sistema giudiziario italiano e quella del sistema carcerario. Due istituzioni molto reali. Al limite si può osservare che solo il sistema giudiziario assume le sembianze di un esempio pratico di ciò che Kafka descrive nella sua opera. Troviamo quindi questa totale opacità della giustizia dal punto di vista dell’imputato, a cui nessuno può rispondere (e sua moglie, non ottiene più risultati tramite l’ambasciata svedese). I giudici appaiono molto distanti, inavvicinabili, e riuscire a vedere uno di loro sarà una vera impresa che si concretizzerà in maniera del tutto inaspettata. Ma questa non sarà la fine del tunnel, dal momento che il giudice stesso è silenzioso come le guardie carcerarie e non sembra avere alcun interesse nel caso di cui è incaricato. Sembra essere nient’altro che un ingranaggio di una procedura interminabile, appesantito da una burocrazia onnipresente che impone all’imputato di comunicare il nome del suo avvocato al capo della sezione carceraria, lui che non ha contatti con il mondo esterno e che può sceglierne uno solo in base alle informazioni contraddittorie inviategli dalle guardie o dai suoi compagni di prigionia. Nessuna richiesta può essere elaborata senza essere filtrata dai servizi amministrativi che Giuseppe non può nemmeno contattare senza altri intermediari, principalmente guardie carcerarie che sono molto antipatiche eppure sembrano essere le uniche speranze.

Il che ci porta direttamente all’altro aspetto del film, quello che ha davvero dato il via alle polemiche intorno al film. Si tratta dell’ambiente carcerario, del trattamento fisico e morale dei prigionieri già indeboliti da quella giustizia kafkiana descritta prima. È importante sottolineare un punto importante: l’Italia descritta da Nanni Loy non è l’Italia fascista di Mussolini, né è un’Italia simile alla Londra di George Orwell in 1984. Quando le sequenze mostrano il fuori dalle prigioni e dalla giustizia, si scopre un classico paese occidentale degli anni ‘70, in cui le persone camminano liberamente, senza alcuna apparente costrizione particolare. E tutto ciò dà maggiore risalto al messaggio del regista contro l’ambiente carcerario. Perché il carcere è l’opposto di quello che ci si può aspettare da quello che sembra essere un paese democratico. Ci immergiamo in un mondo a parte, una vera e propria dittatura fascista nascosta all’opinione pubblica dietro queste grandi mura di prigione. Non c’è da stupirsi che la folla, quando viene a contatto con un convoglio di galeotti (quando si recano in una stazione per un trasferimento), cominci a fischiare i cosiddetti criminali, molti dei quali sono nella stessa attesa di Giuseppe. Senza idea di cosa stia succedendo dietro le sbarre, e forse costretta a considerare che tutti coloro che hanno una catena ai polsi sono un branco di assassini, la folla dispensa la propria giustizia verbale, molto violenta. Loy suggerisce quindi ai suoi spettatori di non giudicare i prigionieri stessi, la cui condizione è a loro sconosciuta.
Tutte le prigioni che Giuseppe deve attraversare sono quindi omogenee in ciò che hanno da offrire: per il prigioniero in isolamento che è, ha diritto solo a una cella minuscola, sporca, nera, senza servizi igienici, in cui è costantemente disturbato dalle guardie che lo disprezzano. Uscire dalla sua cella non è comunque un conforto per lui: i cancelli sono ovunque, così come il disprezzo, il cibo è disgustoso e le regole vietano ogni forma di libertà, compresa quella di culto, poiché ai prigionieri non è permesso pregare durante le messe che vengono loro offerte. Le condizioni sono quindi deplorevoli, la claustrofobia è all’ordine del giorno, la dignità umana è calpestata e il contatto normale con altri esseri umani è reso impossibile. Giuseppe riuscirà a simpatizzare con un altro detenuto, ma si incroceranno solo in corridoi bui, e la loro amicizia andrà presto in frantumi per il disastroso destino che attende l’amico. Essendo costantemente trasferito da un carcere all’altro, anche il personaggio di Alberto Sordi non avrà modo di abituarsi. Anche il suo comportamento generalmente docile non gli farà guadagnare alcun rispetto, e peggio ancora: in seguito a una rivolta fallita dei prigionieri, sarà punito come se fosse stato uno dei capibanda da guardie che si sono preoccupate solo di individuare i colpevoli a caso. Verrà trasferito un’altra volta in un’ultima prigione, dove il trauma in cui si è immerso sempre più a fondo durante il film raggiungerà il suo culmine.


Visto così, il film non è una cosa da ridere e non riesco mai a dimenticare l’effetto disturbante che mi colse alla visione. Eppure, da regista abituato alla commedia qual è, Loy non esita a infondere un tocco di umorismo nero e assurdo, utilizzando una superba colonna sonora e attraverso il suo personaggio principale, il cui fisico da buon borghese soggetto al sovrappeso e il cui carattere di inguaribile ingenuo sono tutti ingredienti che contrastano radicalmente con l’ambiente in cui si trova immerso. Come è prevedibile, l’epilogo spingerà questo trattamento cinico fino alla fine. L’umorismo molto crudele mette a disagio e termina con la solita dicitura all’inizio dei titoli di coda ma che stavolta risulta una citazione molto ironica “Gli avvenimenti e i personaggi di questo film sono immaginari e qualsiasi riferimento alla realtà è puramente casuale”. Un’arguzia provocatoria da parte di Nanni Loy che sembrava perfettamente consapevole del clamore che il suo eccellente film stava per suscitare e che non mancherebbe di provocare di nuovo in alcune occasioni, dal momento che il suo argomento è ancora attuale in un Occidente democratico sempre pronto a distribuire lezioni morali.

Formidabile Alberto Sordi, in una delle sue rare interpretazioni drammatiche. Formidabile. Ad ulteriore dimostrazione di come siano superlativi i comici al di fuori dello schema a cui siamo abituati a vederli. Tutto avviene per merito di Nanni Loy che è stato capace di entrare nelle piaghe e nelle pieghe della società italiana, e che, abbandonando il suo sguardo ironico, ci porta dentro un caso ai limiti del comprensibile che diventa una tragedia piccola ma umanamente enorme per l’individuo e la sua famiglia.

Riconoscimenti
Festival di Berlino 1972
Orso d’argento per il miglior attore ad Alberto Sordi
Candidatura Orso d’oro a Nanni Loy
David di Donatello 1972
Miglior attore protagonista ad Alberto Sordi
Nastri d’Argento 1972
Candidatura migliore soggetto
Candidatura migliore attore esordiente a Nazzareno Natale
Il film completo su YouTube ⬇️









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