Dheepan - Una nuova vita (2015)
- michemar

- 15 ott 2021
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 15 mag 2023

Dheepan - Una nuova vita
(Dheepan) Francia 2015 dramma 1h55’
Regia: Jacques Audiard
Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain, Thomas Bidegain
Fotografia: Éponine Momenceau
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Nicolas Jaar
Scenografia: Michel Barthélémy
Costumi: C. Bourrec Chattoune
Jesuthasan Antonythasan: Dheepan
Kalieaswari Srinivasan: Yalini
Claudine Vinasithamby: Illayaal
Vincent Rottiers: Brahim
Marc Zinga: Youssouf
Faouzi Bensaïdi: Monsieur Habib
Bass Dhem: Azziz
Trama: Dheepan è un combattente Tamil che fugge dalla guerra che dilania lo Sri Lanka e cerca asilo in Francia come rifugiato politico, presentandosi con una giovane donna e una bambina facendo finta di essere una famiglia. Alla periferia di Parigi inizia a lavorare come custode di un complesso residenziale in rovina ma il suo tentativo di vita normale viene infranto da una violenta gang di trafficanti di droga, che dettano legge in zona. A malincuore, l'ex guerriero sarà costretto a fare una scelta sul prendere un percorso ancora violento come quello di un tempo.
Voto 7

Dheepan sogna incubi, la notte è tormentata dalla cicatrice che porta dentro e dietro di sé. La guerra nello Sri Lanka, dove era un soldato delle Tigri Tamil, gli ha lasciato un elefante nella psiche e lo rivede quasi ogni notte, immobile, in primo piano, con gli occhi puntati che lo e ci guardano. Un enorme pachiderma che rappresenta forse il fardello che si porta incancellabile, che non lo lascia in pace, assieme ad una delle scene a cui ha assistito poco prima di decidere di scappare via dalla feroce guerra, in cui vede bruciare i corpi dei morti, così come è sparita l’intera sua famiglia. Ormai è solo e il gesto che compie non può essere più eloquente: si spoglia della divisa, indossando abiti civili, e la brucia sulle stesse fiamme, recandosi quindi nel campo profughi dove tenta di ottenere il permesso per espatriare, a condizione che abbia un motivo valido come quello di avere una famiglia da salvare. La necessità si materializza quando una giovane donna si mette alla ricerca di una bambina orfana tra le fragili tende: Yalini trova Illayaal, di 9 anni, ed insieme si spacciano per moglie e figlia dell’uomo e diventano una famiglia con documenti falsi che, con il permesso, viene sbarcata in Francia. Inizia così una nuova vita in cui i tre sperano in una società più vivibile, soprattutto Dheepan che vuole girare pagina e liberarsi dall’incubo. Tre disperati, estranei l'uno all'altro, in fuga da un inferno domestico.

Jacques Audiard offre ancora una volta, come nelle sue forti opere precedenti, un quadro di personaggi estranei all’ambiente, uomini che denunciano il disadattamento, persone in difficoltà che lottano per la sopravvivenza. Che se in patria era solo una questione di scampare alla morte, altrove diventa la minima affermazione della propria vita e della dignità umana. Ma come succede spesso nel cinema del regista francese, alla base dei rapporti personali c’è l’incomunicabilità e questi tre personaggi lo dimostrano immediatamente. Per Dheepan, la donna e la bambina sono solo uno strumento che vuole sfruttare e non è interessato a loro, gli servono solo per raggiungere la salvezza e ottenere una casa ed un lavoro da parte dell’assistenza parigina. Con loro due non comunica molto, mentre Yalini non ha alcuna intenzione di prendersi cura di Illayaal, che, poverina, si ritrova quasi rifiutata anche dai suoi connazionali, fuggiti con lei ma non interessati a lei. Yalini sogna di trasferirsi a Londra dove vive sua sorella e non vede l’ora di poterlo fare. Dheepan parla poco, non comunica facilmente con gli altri non conoscendo la lingua. È un uomo molto sveglio, dallo sguardo intelligente, a cui non sfugge nulla di ciò che succede intorno, pronto ad agire o a mettersi in difesa: la sua esperienza di combattente si nota subito, è una tigre pronta a colpire. Come un miracolo, invece questa incomunicabilità svanisce quando la donna trova lavoro come badante nell’appartamento di un anziano, dove bastano gesti o espressioni del viso per capirsi. Qui, in una delle scene più belle e quiete, il narcotrafficante francese Brahim e la “moglie” di Dheepan parlano senza capirsi, lei in tamil lui in francese, lei scuotendo la testa lui cercando di cogliere il significato di quel movimento. Arrivando a sorridersi, uno dei pochissimi momenti di tranquillità del film.

I tre immigrati sono stati sistemati in uno dei palazzoni della periferia, la fatidica banlieue parigina tanto filmata in questi ultimi anni, ambiente che offre molti spunti ai cineasti tra polizieschi, noir e genere gangster, luogo di traffico di stupefacenti, di bande senza regole se non le proprie, dove la vita vale meno di una bustina. La zona in cui sono stati sistemati è una doppia fila di palazzoni dominati dalle gangs, giovanotti di origine perlopiù magrebina che muovono la notte della strada fino a far affacciare il singalese alla finestra come se fosse uno spettacolo che lui osserva con curiosità ma che sicuramente richiama alla sua mente la vita pericolosa della sua terra. È stato assunto come guardiano tuttofare e lui si adatta riparando di tutto, dall’ascensore ai lavori di muratura, dalla manutenzione minuta alla pulizia degli spazi comuni, perfino della sala in cui la mala si riunisce. Ma quando intravede un minimo di pericolo per sé e per le due donne – verso cui sta incredibilmente nascendo un rapporto di complicità e affetto – non esita a tracciare, tra gli sfottò delle vedette che fanno la guardia, una lunga linea bianca di separazione tra le due file di edifici: d’ora in poi, vuole imporre, nessuno deve travalicarla e non disturbare più la sicurezza della sua nuova famiglia. Scatenando quindi le reazioni inevitabili degli agguerriti spacciatori. Sarà guerra, guerra finale e terminale senza scampo, in cui nessuno degli abitanti può immaginare l’abilità di Dheepan nell’agire in queste condizioni estreme. E non avranno neanche il tempo per capirlo. Non potevano sapere che lui è un ex soldato, uno che la guerra se l’è portata dietro/dentro, che fa un macello con un cacciavite e un machete, che porta alle ultime conseguenze il senso stesso dell’operazione di Sam Peckinpah con Cane di paglia, regista che dimostrava quanto le relazioni sociali possano essere in alcuni casi allo stesso livello di quelle tribali. In una nebbia bianca che ricorda quella del fiume di Coppola, intravediamo solo i piedi di Dheepan che sale le scale e chiunque incontri resta a terra, fino a raggiungere l’appartamento dove Yalini è immobile e atterrita, come se si trovasse in un villaggio dello Sri Lanka sotto attacco. Sangue dappertutto, morte imperante, fumo acre, la tigre è attiva e dominatrice in quella giungla metropolitana. Il finale sarà forse fiabesco, ma finalmente conciliatore e quella mano della moglie, ora vera, sui capelli neri corvini dell’ex soldato, con un neonato tra loro, è la rappacificazione miracolosa di gente che cercava solo di (soprav)vivere.

Contrariamente dal solito, Jacques Audiard concentra tutto nel breve finale, dopo che la tensione continua, leggera e sibillina si era sparsa lungo il film, senza mai esacerbarsi a violenza, che si verifica solo nei pochi minuti di azione: prima col regolamento di conti tra i banditi, poi con l’inevitabile intervento del protagonista che deve salvare la donna che ha ormai capito di amare. Il bel lavoro che ha svolto il regista è concentrato sullo scavo del carattere dei personaggi, di ognuno dei tre si riesce a capire molto, persino della piccola e intelligente Illayaal, che a scuola è già tra le più brave. Se Yalini si rivela man mano che la trama avanza, di Dheepan si intuisce presto il suo modo di pensare ed agire, dapprima con l’egoismo che gli serve a salvare se stesso con la presenza delle due donne, poi la fase centrale necessaria a studiare l’ambiente e la preparazione della difesa del piccolo nucleo, poi rincorsa della belva che aggredisce le prede pur di difendere il suo territorio e salvare quelle due persone che aveva sempre ritenuto estranee. Audiard mette da parte la sua macchina vicina ai protagonisti e la staziona inquadrandoli di sbieco, mentre spiano, come il suo obiettivo, tra gli spigoli delle porte: un occhio di Dheepan o di Yalini o di Illayaal che attraversa camera e corridoio per vedere cosa succede. Proprio come ci porta ad osservare l’autore. E non solo: molte novità rispetto al passato. Per esempio, la scelta di realizzare un film non-francese: “Volevo che i protagonisti venissero da un paese non legato alla Francia dal passato coloniale, che arrivassero da una realtà lontana. Lo confesso: prima di lavorare al film, non sarei stato in grado di dire esattamente dove si trovasse lo Sri Lanka.” Ed infatti lo trasporta nella trama: in un dialogo vediamo il pregiudicato Brahim che chiede alla donna dove sia mai quella nazione. “Non volevo fare né un documentario sulla guerra civile in Sri Lanka, né un film su un vigilante nelle banlieue. Io volevo parlare della storia di una famiglia che nasce falsa e diventa vera. Di personaggi che, sì, possono essersi battuti per ragioni politiche, ma ora si battono gli uni per gli altri; sempre di battaglia si tratta, la violenza e l’amore sono entrambi forti.” Ed è anche il film in cui Audiard ha lasciato più spazio all’improvvisazione: “Ho permesso che alcune sequenze prendessero possesso della sceneggiatura. Non funziona con tutti i film, ma con Dheepan sì: il 90% delle scene improvvisate è entrato nel montaggio.”



Incredibile. Eppure efficacissimo. Gran merito va attribuito prima di tutto a Jesuthasan Antonythasan, il quale è stato davvero un soldato tamil, sino all’età di 19 anni (!), un soldato-bambino, prima di fuggire in Thailandia e dopo quattro anni raggiungere la Francia. Appena venticinquenne quando ha fatto domanda di asilo politico, ha cominciato a svolgere i lavori più disparati pur di sopravvivere: lavoratore in un supermercato, cuoco, governante, facchino di un hotel a Disneyland Paris, ha ripreso anche a scrivere sotto lo pseudonimo di Shobasakthi, cosa che faceva già in patria. Al suo fianco recita Kalieaswari Srinivasan, una trentenne originaria di Chennai, una città nel sud dell'India, che all'età di 24 anni, si era già interessata al mondo del teatro per puro caso, senza che avesse intenzione di diventare un'attrice. Ha però poi lavorato per diverse compagnie e recitato in diverse rappresentazioni, di cui è stata anche regista o tecnico. Grazie al film, ha ottenuto il primo ruolo in un film, senza che conoscesse niente né del cinema di Audiard né della lingua francese (“È stato così durante tutte le riprese” diceva in conferenza stampa il regista). Che non ha firmato il suo miglior film (dopo Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore, Il profeta e Un sapore di ruggine e ossa era proprio difficile) ma ha realizzato un’opera interessantissima, anche diversa dalle tante che girano nelle sale e che, per volontà dei fratelli Coen, presidenti della giuria di Cannes 2015, ha vinto la Palma d’Oro tra le molte polemiche scoppiate (c’erano film straordinari quell’anno), ma è un film assolutamente da guardare.

Riconoscimenti
Festival di Cannes 2015:
Palma d'oro a Jacques Audiard
Premio César 2016:
Candidatura miglior film
Candidatura miglior regia
Candidatura miglior attore protagonista a Antonythasan Jesuthasan
Candidatura miglior attore non protagonista a Vincent Rottiers
Candidatura miglior sceneggiatura originale
Candidatura miglior fotografia
Candidatura miglior montaggio
Candidatura miglior scenografia
Candidatura miglior sonoro






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