Don't Worry Darling (2022)
- michemar

- 23 gen 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 3 set

Don't Worry Darling
USA 2022 thriller 2h3’
Regia: Olivia Wilde
Sceneggiatura: Katie Silberman
Fotografia: Matthew Libatique
Montaggio: Affonso Gonçalves
Musiche: John Powell
Scenografia: Katie Byron
Costumi: Arianne Phillips
Florence Pugh: Alice Chambers
Harry Styles: Jack Chambers
Olivia Wilde: Bunny
Gemma Chan: Shelley
KiKi Layne: Margaret
Nick Kroll: Dean
Douglas Smith: Bill
Chris Pine: Frank
Sydney Chandler: Violet
Kate Berlant: Peg
Asif Ali: Peter
Timothy Simons: dottor Collins
Ari'el Stachel: Ted Watkins
Dita von Teese: Gigi
TRAMA: Una casalinga americana negli anni '50 vive con il marito in una comunità ispirata da ideali utopistici, ma finisce con lo scoprire segreti disturbanti sui suoi compagni di avventura.
Voto 6

Sembra un mondo parallelo la località posta nel deserto lontano da Dio e dagli uomini che, nonostante i dintorni aridi e polverosi, è ricca di alte palme disseminate tra le tante ville colorate dotate di prati, vialetti, garage, dove non piove mai e il sole splende come una lampada fissa, dove non è mai buio. E non fa caldo, né freddo, è asettico e neutro di emozioni, un panorama di una serigrafia asciutta ma ipercolorata di pastello, dagli abiti femminili alle automobili decappottabili. Pieni anni Cinquanta. Che sorta di villaggio ideale/finto è questo Victory! Il risveglio profumato di ricca colazione all’americana, uova, bacon, pancarré troppo abbrustolito e via: le cabriolet colorate di tutti i maschi, giovani e ben vestiti di giacca e cravatta, partono all’unisono e in fila indiana dalla rotonda su cui si affacciano le case. Le donne restano lì, tutte, a pulir casa, che appare già linda di suo e sfavillante, e a ritrovarsi in sala o in giardino per bere continuamente solo Manhattan con tanto di ciliegina al maraschino: sorridenti, anche troppo, vestite come se dovessero andare a fare shopping, truccate e pettinate come in una sfilata di moda. Per stare lì, in attesa, fino a sera, del ritorno del marito eroe, che non vedono l’ora di abbracciare, nutrire e allietare con il sesso.

Che mondo è questo Victory! L’esempio semplificativo di questa non-vita è la vita che conduce la protagonista Alice, la moglie di Jack Chambers, che osserviamo da vicino, bella e felice come una beota, almeno apparentemente. Donne “scemate” e uomini non-alfa ma simili ad automi: tutti, le une e gli altri, si mostrano con il sorriso prestampato e paiono plasticamente soddisfatti. Tanto appagamento poiché lavorano - in quella spianata ma non vicinissimo alle abitazioni - in una struttura che non vedremo mai, tranne una cupola di cristallo in cui non riusciamo a scorgere nulla. Forse perché dietro c’è il nulla. Sono alle dipendenze di una segretissima società che ufficialmente si occupa di sviluppo di materiali innovativi (sic!) il cui capo (oggi diremmo CEO o AD, l’amministratore delegato) è Frank, un altro giovane (non esistono anziani!) dalla mascella volitiva, che nelle numerose serate di festa che si organizzano in continuazione nelle case, urla esortazioni per tenere su il morale: il suo compito pare più quello del motivatore emozionale di una setta che del responsabile aziendale. Tutto così bello da sembrare finto, perché – ecco il dubbio che si insinua lentamente nella mente di Alice – forse è proprio tutto fasullo. Case, vestiti, piante, auto, pare tutto di plastica colorata. Siamo mica sotto il cupolone di The Truman Show? E Alice sarà mica la versione femminile di Truman Burbank?

Perché la vicina Margaret è così intontita? E Violet? La vita di Alice è talmente ripetitiva che si accanisce su una vasca da bagno che già splende prima della pulizia quotidiana (con un gioco di specchi che ricorda quelli di Orson Welles in La signora di Shanghai), che passa e ripassa l’aspirapolvere sui tappeti, che si dedica a ricette che non le riescono mai, che insomma cerca di riempire continuamente una vita che si rivela inevitabilmente vacua, come le uova che scopre senza contenuto. A nessuno è concesso parlare del lavoro, divieto assoluto, e se se ne fa cenno in compagnia si sorvola vagamente senza precisare alcunché. Il primo episodio allarmante che accade capita infatti proprio a Margaret e lei ne è testimone oculare così che Alice comincia a porsi domande e a cercare di rischiarare i dubbi dalla nebbia informativa che appanna le loro vite, soprattutto dopo che l’accaduto viene minimizzato e ufficialmente vien detto che non è successo nulla, senza neanche specificare chi sono quegli uomini in tuta rossa che intervengono con discrezione e determinazione. Se Jack la ama veramente come dice, perché non le rivela perché e cosa succede in quel luogo? Cosa sono i materiali innovativi: li producono o li progettano? O è solo un pretesto di qualcosa di più inquietante? Ed invece, Don't Worry Darling. Sembrerebbe una società futuristica per quei ’50 ed invece è un universo distopico, isolatamente monotono, ripetitivo, proibito dall’interno e dall’esterno, dove l’oltre non vi è dato di andare e il dentro è inospitale alle emozioni. Dove si copre la vita con alcol, balli, musiche e sesso per non sentirsi zombie. E polli bruciati nel forno. Quando lei comincia a far domande scatta il piano di emergenza sanitaria già prevista dal rigido protocollo, in cui per le donne non è previsto facciano le curiose o pongano domande inopportune.

Florence Pugh (lo scrivo in tante maniere dalla prima volta che l’ho notata in Lady Macbeth) è potente e carnalmente in parte alla stessa stregua di ogni altra sua partecipazione: ha un impeto recitativo che si mangia ogni scena, oscura il resto del cast e anche questa volta dimostra tutto il suo potenziale. Pur non essendo la sua migliore interpretazione, perché Olivia Wilde, alla sua seconda regia dopo una commedia al femminile (La rivincita delle sfigate, 2019) si è buttata in un’avventura non facile - un thriller distopico orientato all’horror psicologico che non è alla portata di tutti, men che meno sua - che solo l’attrice protagonista ha potuto rendere accettabile con una prestazione super. Il cast è degno di un film di prim’ordine e vede nomi buonissimi (nessuno eccezionale) in cui però non tutti sono stati all’altezza per migliorare il risultato finale. Set che ha avuto non pochi problemi gestionali e di casting, ma non sappiamo fino a che punto per davvero: i pettegolezzi dentro e fuori sono stati una pioggia intermittente, trascinata fino alla conferenza stampa del Festival di Venezia ove l’attrice principale non si è presentata. Rivalità tra lei e la regista e idillio tra quest’ultima e il protagonista maschile, il mediocre Harry Styles, che aveva sostituito il più sicuramente adatto Shia LaBeouf, licenziato sul set o autoesclusosi dopo una furiosa lite con l’attrice-regista non si saprà mai. Purché se ne parli, arricchisce la pubblicità? Di sicuro! La rivalità tra le due primedonne spicca vieppiù nelle scene in cui sono una accanto all’altra, l’una perfettamente truccata e con un sorriso che illumina lo schermo, l’altra acqua e sapone e rabbuiata in viso. Funzionale, oppure anche studiato a tavolino?

No, la puzza di bruciato non è solo nella cucina della ormai disperata Alice – adesso decisa, fingendo, di adeguarsi al sistema per provare a sfondare il muro dell’omertà -, è anche nel film, che zoppica, che parte bene coinvolgendoci in una visione interessata e scivola male verso una lunga parte finale troppo fievole e prevedibile. Non è un tentativo paragonabile a quello hitchcockiano di Intrigo internazionale (impareggiabile ovviamente), non è quello di tanti thriller mozzafiato. E il film non è neanche un manifesto antisessista a favore delle donne, perché non è neanche maschilista dato che anche questi uomini sono deboli e ricattati dal misterioso potere che li governa, come distopia insegna. E non è neanche ammantato dal clima di terrore di 1984, bensì da un’aria di gioco, nonostante la magnifica Florence che non ha avuto la possibilità di ripetersi come in Midsommar - Il villaggio dei dannati, film che l’ha suggellata in alto. Anzi, si ha l’impressione che sia andata anche oltre, con una punta di istrionismo che la regista non ha bloccato, segno, a mio parere, che la ragazza abbia voluto alzare l’asticella. La si sente persino ansimare dalla rabbia. Ciò che è mancata principalmente è stata la mano della regia per migliorare il soggetto e dirigere il buonissimo cast a disposizione: il film inizia bene e bene fa la Wilde ha catapultarci senza preamboli in quel villaggio di bambole, come altrettanto fa per descrivere la vita delle casalinghe disperate inconsapevoli (qualcuno tradisce troppa sicurezza per non essere d’accordo con i mariti) ma poi si perde nel prosieguo, concentrando solo su Alice l’angoscia che si aggira tra i vialetti.

Il concetto di costruzione del mondo (o costruzione dell'universo) è centrale in quasi tutte le storie di fantascienza / fantasy / distopia e richiede che l'autore consideri attentamente ogni aspetto dell'ambiente in cui si svolge l'azione, prestando particolare attenzione alle conseguenze. Questo elemento fondamentale è apparentemente estraneo a Olivia Wilde e alla sceneggiatrice Katie Silberman, assieme agli scrittori del soggetto Carey Van Dyke e Shane Van Dyke, perché ci sono poche prove di ciò nel film. In apparenza, potrebbe sembrare che abbia preso temi in prestito a casaccio da veri successi, ma il risultato cade da qualche parte tra un brutto episodio nella zona di The Twilight e una parodia involontaria. Il finale, in particolare, è vittima di questo pensiero incompleto in quanto introduce un atto assurdo e, dimenticando di risolvere un elemento chiave, cade involontariamente in un buco nero. Noi spettatori, inebetiti come Alice in lacrime disperate (nel paese delle smeraviglie) con le mani sulla vetrata, oltre la quali il vuoto, come un Ben Braddock che non vede sull’altare la sposa da rapire.

Il giudizio finale è dettato da un voto che non vuole giustificare il film nel complesso, che sarebbe vicino alla insufficienza, piuttosto premia il progetto, l’impegno, le buone intenzioni di Olivia Wilde e la bravura degli attori e delle attrici, ma la regista deve ancora maturare. E soprattutto, e chiedo venia, per omaggiare una delle migliori attrici di questi anni, capace di vestire i panni ottocenteschi, quelli dei pastellati Cinquanta e quelli d’azione. Da sentire assolutamente in originale, perché nessuna doppiatrice può avvicinarsi al suo tono di voce.
Florence Pugh è una big!






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