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Il cardellino (2019)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 26 dic 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

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Il cardellino

(The Goldfinch) USA 2019 dramma 2h29’


Regia: John Crowley

Soggetto: Donna Tartt (romanzo)

Sceneggiatura: Peter Straughan

Fotografia: Roger Deakins

Montaggio: Kelley Dixon

Musiche: Trevor Gureckis

Scenografia: K.K. Barrett

Costumi: Kasia Walicka-Maimone


Ansel Elgort: Theodore "Theo" Decker

Oakes Fegley: Theo adolescente

Aneurin Barnard: Boris

Finn Wolfhard: Boris adolescente

Sarah Paulson: Xandra

Luke Wilson: Larry Decker

Jeffrey Wright: Hobie

Nicole Kidman: signora Barbour

Ashleigh Cummings: Pippa

Denis O'Hare: Lucius Reeve

Willa Fitzgerald: Kitsey Barbour

Boyd Gaines: signor Barbour

Luke Kleintank: Platt Barbour


TRAMA: Theodore "Theo" Decker aveva 13 anni quando sua madre è rimasta uccisa in un attentato al Metropolitan Museum of Art. La tragedia ha cambiato il corso della sua vita: dolore e senso di colpa segnano la sua odissea personale di reinvenzione, redenzione e amore. Tuttavia, c'è sempre qualcosa che da quel terribile giorno gli infonde speranza: il dipinto di un uccellino legato al suo trespolo, Il Cardellino.


Voto 6


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Estrarre un film da un buon romanzo corposo (a seconda delle edizioni si spazia da circa 800 a 900 pagine!) che è anche complesso sotto l’aspetto psicologico e pieno altresì di avventure e di cambiamenti di vita e di luoghi non è certo un’impresa facile. E quindi o la produzione dispone di un regista capace, che sa sintetizzare senza far perdere l’essenza del libro e che sa trasportarne l’atmosfera, e poi di un adeguato adattamento della sceneggiatura, oppure l’impresa diventa immediatamente ardua oltre che occasione sprecata. E soprattutto è il pubblico a restare deluso, specialmente quello più esigente, quello si aspetta ben altro e non è di bocca buona. Il romanzo di ispirazione in questo caso ha il titolo omonimo ed è di Donna Tartt, una scrittrice del Mississippi di grande successo che proprio con questo libro ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa nel 2014. In questo suo terzo lavoro racconta le vicissitudini che il personaggio principale, Theo Decker, un ragazzino di tredici anni, è costretto ad attraversare, in seguito ad un evento assai traumatico (la morte della madre) che lo condizionerà per tutta la vita. È più di un racconto di formazione, perché non solo lo vediamo crescere ma anche affrontare difficoltà e decisioni che lo porteranno in situazioni non semplici da gestire e davanti a scelte importanti quando sarà anche più grande.


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Warner Bros., Color Force e Amazon Studios si sono impegnate bene nella scelta del cast tecnico e quello artistico, ingaggiando per esempio Kelley Dixon al montaggio, una donnona con esperienza valide in alcuni episodi di The Walking Dead e Breaking Bad - Reazioni collaterali, ha collaborato alla squadra di montaggio per Le iene e Will Hunting - Genio ribelle; il direttore della fotografia è addirittura Roger Deakins, lo splendido autore dei colori di Blade Runner 2049, Skyfall, Sicario, Fargo, Prisoners, Il Grinta, Il dubbio e svariati altri tantissimi film di successo e… si vede sin dalle prime immagini. Le scenografie sono di K.K. Barrett, tanto apprezzato in Lei (di Spike Jonze), Marie Antoinette, Molto forte, incredibilmente vicino, Lost in Translation, Essere John Malkovich, eccetera. Il cast artistico annovera una superba anche se trattenuta Nicole Kidman, poi Sarah Paulson, Jeffrey Wright, Luke Wilson, mentre il personaggio principale è interpretato da Ansel Elgort e dal piccolo (bravissimo) Oakes Fegley. Ho voluto elencarvi alcuni nomi tra i più appariscenti per dare l’idea di quale sforzo è stato fatto per rendere in immagini un libro importante e imponente, ma i guai vengono al pettine quando, vedendo il film, ci si rende conto che qualcosa non gira a dovere, e quel qualcosa si chiama regia. John Crowley, che si era fatto notare per il riuscito Brooklyn (leggi recensione), si è rivelato il lato esile di questa impegnativa operazione, l’anello debole della catena produttiva, facendoci attendere nelle due ore e mezza della durata che qualcosa di eclatante succedesse e che invece non accade quasi mai. La narrazione lenta e compassata che andava bene nel suo film precedente qui si è rivelata alquanto soporifera e data la ovvia e consequenziale lunghezza della pellicola diventa un’impresa arrivare non stanchi al termine.


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L’essenza del film è imperniata sul travaglio psicologico del piccolo protagonista, Theo Decker, che nell’età adolescenziale ha visto perdere la mamma durante un attentato terroristico al Metropolitan Museum of Art di New York, tragico frangente che si porta pesantemente nella memoria assieme al viso della coetanea Pippa che gli era accanto e ad un prezioso dono ricevuto proprio lì da un astante: uno dei pochi dipinti preziosi di Carel Fabritius, un pittore olandese allievo di Rembrandt. Il dipinto è appunto quello che raffigura un cardellino, una tela che ogni collezionista pagherebbe qualsiasi cifra pur di averlo in casa. La mancanza della mamma, cosi bella e affettuosa, che teneva così tanto alla sua educazione artistica, è una ferita che non si rimarginerà mai, ma proprio mai, e verrà appena attutita dall’ospitalità e dall’affetto che troverà nella casa di un suo amico di scuola, dove la famiglia Barbour lo considererà uno di loro, a cominciare dalla algida mamma che saprà trasmettergli tutto il sentimento materno che è in suo possesso. Un rapporto succedaneo che si rivela necessario per la sopravvivenza mentale del povero ragazzo, che può così trovare un appoggio morale in quella donna che lo guarda con grande comprensione, sempre disposta ad aiutarlo, fino ad aspettarlo pazientemente anche dopo il necessario distacco. Importante per la sua crescita e formazione, Theo troverà anche l’aiuto umano e professionale in Hobie, un restauratore di mobili antichi o pseudo tali che lo instraderà verso un lavoro che lo farà crescere anche come uomo. Ma chi sarà la sponda per le avventure e le varie vicissitudini che affronterà nella vita sarà uno scavezzacollo chiamato Boris, un ragazzo immigrato russo che sarà il bene (l’amicizia) e il male (il malaffare) e che non poco lo condizionerà sia subito che in seguito.


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Un film che si dipana nel tempo e nello spazio enorme che mette a disposizione l’America, un vero racconto d’avventura con vicissitudini tra il drammatico e il thriller che dura ben 149 minuti, e che quindi necessitava di una regia che tenesse lo spettatore agganciato fino al termine, ed invece riscontro più momenti di cali di tensione, forse dovuti all’abbondanza di materia prima e dei tanti episodi che si vogliono raccontare. Il compenso arriva dalla eccellente fotografia e dal misterioso (ma intuibile) plico che Theo conserva gelosamente dall’inizio, oggetto che scopriremo solo al termine. Ottima come scritto più su anche la scenografia, con bellissime ambientazioni, mentre Ansel Elgort dà una discreta prova d’attore protagonista ma come al solito sorprende la bravura di un adolescente, il bravo Oakes Fegley. Su tutti svetta come sempre Nicole Kidman, verso cui si può sprecare ancora una volta il termine di “algida”, questa volta più che mai, ma la sua bravura nell’esprimere il suo smisurato affetto sempre trattenuto e nello stesso tempo manifesto verso Theo è l’ennesima dimostrazione del grande talento di cui dispone: eretta, distaccata, glaciale come una regina intoccabile, guarda il nuovo arrivato in famiglia con lo sguardo pieno di amore e comprensione. Usando poche parole e trattandolo come un vero figlio, esprime tutti i suoi sentimenti sfiorandolo con quella mano materna che tanto gli manca.


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È quindi ancora una pellicola sulla perdita genitoriale, di cui quella materna ha spesso interessato il cinema essendo – ma questo dipende dalle situazioni e dalle reazioni dei figli – quella che procura più dolore e stimola, dal punto di vista artistico, maggiori riflessioni nella scrittura di un film. Anche se mascherato dalla contaminazione di altri generi, è un vero melò di formazione e proprio per questo forse John Crowley non era il regista più adatto, che comunque non boccerei senza appello dal momento che in ogni caso il film si lascia vedere ed è in qualche momento apprezzabile. Lunghissimo senz’altro, ma da un’opera letteraria così sostanziosa capisco che era anche difficile essere più brevi.



 
 
 

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michemar

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