Il gigante (1956)
- michemar

- 31 mag 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 2 giu 2023

Il gigante
(Giant) USA 1956 dramma 3h21'
Regia: George Stevens
Soggetto: Edna Ferber (dall'omonimo romanzo)
Sceneggiatura: Fred Guiol, Ivan Moffat
Fotografia: William C. Mellor
Montaggio: William Hornbeck
Musiche: Dimitri Tiomkin
Scenografia: Boris Leven
Costumi: Marjorie Best
Elizabeth Taylor: Leslie Lynnton Benedict
Rock Hudson: Jordan 'Bick' Benedict Jr.
James Dean: Jett Rink
Carroll Baker: Luz Benedict
Jane Withers: Vashti Snythe
Chill Wills: zio Bawley
Mercedes McCambridge: Luz Benedict
Dennis Hopper: Jordan Benedict
Sal Mineo: Angel Obregón
Rod Taylor: sir David Karfrey
TRAMA: Bick Benedict, che discende da una famiglia di facoltosi allevatori texani, sposa Leslie, una bella ragazza del Maryland. Jett, un bracciante che è innamorato senza speranza di Leslie, eredita un appezzamento di terreno che si scopre essere ricco di petrolio. Jordy si iscrive alla facoltà di medicina, poi sposa Juana, una messicana. Judy frequenta la scuola di economia rurale. Con la Seconda Guerra Mondiale, Jett si arricchisce enormemente. Durante una festa a cui partecipano anche i Benedict, Bick scopre che Jett corteggia la sua terzogenita, Luz. Per uno sgarbo fatto a Juana, i Benedict lasciano la festa. Nella vecchia casa, i due coniugi ritrovano la serenità.
Voto 7,5

George Stevens fu un prolifico regista e anche produttore, direttore della fotografia, sceneggiatore, con una carriera di buoni successi, culminata con l’Oscar vinto proprio per questo film. Storicamente, la critica ufficiale non l’ha mai considerato però un vero “autore”, nel senso che gli si riconoscono sì le doti di un buon regista ma senza una cifra stilistica personale, dalle caratteristiche ben precise, ma non si può negare che almeno un paio di opere – questa e Il cavaliere della valle solitaria (con Alan Ladd e Jack Palance) – seppe dare un’immagine della Frontiera e dell’Ovest americano diversa dagli altri, senz’altro meno stereotipata.

Un film è davvero vigoroso, come un romanzo ottocentesco, di ben 201 minuti, vasto come lo stato a cui fa riferimento il titolo, un territorio “gigante” che ha sempre dato ricchezza con la dote di cui era dotato l’immenso territorio: il petrolio. Su questi terreni fecondi, calpestati da mandrie, cavalli e cowboys, prima di scoprire appunto questa enorme risorsa naturale, si sviluppa la storia di una ricca famiglia e di un loro bracciante che si innamora perdutamente e inutilmente della padrona di casa e che si arricchirà con un appezzamento di terreno ereditato, anch’esso ovviamente ricco di petrolio.

Il cast annovera nomi eccellenti, da Rock Hudson a Liz Taylor, ma la storia del cinema ricorderà sempre questo film perché fu il terzo e purtroppo ultimo di James Dean, il quale stava già diventando un attore famoso e l’incidente mortale che ebbe addirittura prima della fine delle riprese, schiantandosi con la sua Porsche 550 Spyder, sulla mitica Route 46, ne fece un mito, che tuttora splende lucentissimo.

A questi nomi ne vanno aggiunti altri sempre di gran richiamo: Carroll Baker, Dennis Hopper, Sal Mineo, Rod Taylor. Purtroppo, il piccolo schermo televisivo non potrà mai restituire la magnificenza delle inquadrature e dei campi larghi di cui si può godere in una sala: i panorami bellissimi e il colore di quei tempi (Warnercolor) ne fanno un capolavoro degli anni d’oro del cinema americano. Essendo così lungo è fisiologico che durante lo sviluppo della trama si verifichi qualche calo del ritmo narrativo, ma il film si lascia vedere senza problemi, anche per l’ottimo lavoro del regista nel disegnare con contorni precisi i vari personaggi che abitano questa lunga storia. Su dieci candidature l’Oscar andò come detto solo alla regia.

Quando James Dean perse la vita, si racconta che i suoi innumerevoli ammiratori gli spedirono 8.000 lettere al mese e la stampa romanzò a lungo sul suo mito inossidabile. Forse perché, come scrisse François Truffaut, “Con Dean l’identificazione è insieme profonda e più totale, perché porta in sé nel suo personaggio la nostra stessa ambiguità, il nostro dualismo, e tutte le debolezze umane.” Se ci facciamo caso, ogni inquadratura del film dedicata a lui è divenuta una immagine iconica che emana solitudine e malinconia, fragilità e destino.

Riconoscimenti
Premio Oscar 1957:
Migliore regia a George Stevens
Candidatura miglior film
Candidatura miglior attore protagonista a James Dean
Candidatura miglior attore protagonista a Rock Hudson
Candidatura miglior attrice non protagonista a Mercedes McCambridge
Candidatura migliore sceneggiatura non originale
Candidatura migliore scenografia
Candidatura migliori costumi
Candidatura miglior montaggio
Candidatura miglior colonna sonora
Golden Globe 1957:
Candidatura miglior film drammatico
Candidatura migliore regia






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