Il seme del fico sacro (2024)
- michemar
- 1 giorno fa
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Il seme del fico sacro
(Dane-ye anjir-e ma’abed) Francia Germania Iran 2024 dramma 2h47’
Regia: Mohammad Rasoulof
Sceneggiatura: Mohammad Rasoulof
Fotografia: Pooyan Aghababaei
Montaggio: Andrew Bird
Musiche: Karzan Mahmood
Scenografia: Amir Panahifar
Costumi: Nazanin Tavassoli
Missagh Zareh: Iman
Soheila Golestani: Najmeh
Mahsa Rostami: Rezvan
Setareh Maleki: Sana
Niusha Akhshi: Sadaf
Reza Akhlaghi: Qaderi
Shiva Ordooei: Fateme
TRAMA: Il giudice istruttore Iman è sempre più paranoico, sensazione inevitabilmente acuita dagli spaventosi disordini politici che infiammano Teheran. Quando la sua pistola svanisce nel nulla dal nascondiglio in cui la teneva al sicuro in casa, sospetta della moglie e delle figlie, imponendo misure durissime che mettono a dura prova i legami familiari.
VOTO 8

Iman è un avvocato fedele e onesto che vive con la moglie Najmeh e le due figlie, Rezvan e Sana. Di recente è stato nominato giudice istruttore del Tribunale Rivoluzionario di Teheran. Questa posizione gli fornisce uno stipendio più alto e sicuramente, quanto prima, un appartamento più grande per la sua famiglia, come desiderato dalla moglie.

Mentre le proteste politiche a livello nazionale contro il governo autoritario si diffondono – e ci si riferisce chiaramente all’uccisione da parte della polizia morale della giovane 22enne Mahsa Amini per essersi spogliata dal velo obbligatorio (hijab) per protesta -, l’uomo si rende conto di non essere stato assunto per esaminare i casi a causa della sua esperienza legale: da lui si aspettano che sostenga le sentenze emesse dai suoi superiori, comprese le condanne a morte senza valutare le prove, e scopre che il suo predecessore è stato licenziato per essersi rifiutato di farlo. Questa situazione richiede assoluta fedeltà, tanto da chiedergli di nascondere le informazioni ai suoi amici e familiari, poiché potrebbero essere presi di mira dai rivoltosi. Per proteggere la sua famiglia, il governo gli consegna una pistola anche se lui è impreparato all’uso delle armi e l’unico posto in cui può conservarla è il cassetto del suo comodino.

Quando l’amica studentessa di Rezvan, Sadaf, viene colpita per strada durante una manifestazione, Najmeh e le sue figlie prestano il primo soccorso nel loro appartamento e scelgono di mantenere la storia segreta anche a Iman. Ma quando il giorno seguente la ragazza viene arrestata, la mamma consiglia alle sue figlie di stare lontane dai loro amici rivoluzionari, il che mette sotto pressione la famiglia.

Con l’intensificarsi delle proteste politiche a livello nazionale, la sfiducia e la paranoia si impadroniscono della vita del neogiudice e di conseguenza, con il suo comportamento parossistico, le proteste a livello nazionale lo costringono a firmare diverse centinaia di decreti ogni giorno, senza alcuna prova a carico. Intanto Rezvan e Sana, tramite gli inseparabili smartphone, seguono con orrore le proteste sui social. La prima, più grande, finisce per ribellarsi a suo padre, facendo sì che questi la incolpi per la sua sensibilità femminista, che vede come propaganda dei nemici.

La situazione nel Paese è caotica e pericolosa, mentre in casa, a causa della sparizione della pistola conservata, i rapporti già tesi tra i familiari precipita sino a continui litigi, accuse, assenza di fiducia tra il padre e le tre donne. Iman è convinto che una tra loro ha fatto scomparire l’arma per protesta o per metterlo nei guai per l’attività che sta svolgendo, anche se controvoglia. Lui fa parte integrante, ormai, del sistema oppressivo della repubblica islamica e teocratica, è divenuto, suo malgrado, una pedina del potere. Non è più il dubbioso funzionario del primo momento, ora è integrato e, spinto dall’amico e collega Qaderi, che lo mette in guardia, esegue il compito affidatogli e ora è anche molto spaventato dalla sparizione della pistola, che, se venuta a conoscenza dei superiori, potrebbe costargli la fresca promozione e il carcere.

Questa non è la trama del film, è solo l’introduzione, il presupposto di ciò che ne segue e il motivo scatenante del precipizio in cui cade casa Iman. La famiglia diventa lo specchio del Paese, del terrore vigente, della tensione palpabile della repressione oltremodo violenta. Alla pari degli spaventosi filmati reali che il regista Mohammad Rasoulof inserisce nel montaggio della realistica fiction domestica, le tre donne sono preoccupate della situazione nervosa e psicologica creatasi, con la posizione della madre Najmeh, che ama molto il marito, che cerca di intermediare tra le pretese dell’uomo e le esigenze e le aspirazioni di libera espressione delle due figlie, tra l’altro preoccupate del peggioramento delle condizioni familiari. Si guardano in faccia scrutandosi, sperando che una si decida ad ammettere di aver sottratto la pistola, ma nessuna confessa, anzi l’espressione di ognuna è di chiara innocenza, e anche di meraviglia per tale sfiducia. Eppure, l’arma è introvabile e qualcuno sarà pure stato, dato che Iman la teneva sempre con sé al rientro in casa la sera.
Il nervosismo e l’agitazione prendono il possesso della famiglia e i rapporti diventano tesi: l’unica soluzione pare un breve periodo di assenza, diciamo pure di fuga, a maggior ragione quando si scopre che i ribelli hanno individuato il nome e l’indirizzo di Iman. La famiglia, ora, è veramente in pericolo. La partenza diventa una fuga precipitosa verso il villaggio abbandonato una volta residenza del nonno. Solo ora inizia davvero il film e la tragedia che incombe. Pesante, evitabile, ma ormai l’uomo non è più lucido ed è certo che le donne di casa lo hanno tradito e non si fida più di loro. Una, è certo, gli ha rubato la pistola, gli ha messo in pericolo la carriera, i facinorosi lo cercano, deve trovare una soluzione radicale. Giunti a destinazione in una sorta di presepe non vivente, disabitato e deserto, inizia l’inferno come, nel frattempo, sta agitando le strade di Teheran.
Il dramma vira all’horror familiare: un esagitato fuori di sé si aggira nella casa nel deserto iraniano, le donne devono difendersi, devono allearsi per non subire, se non soccombere, perché oramai non è più lucido, come la sua nazione. Vuole punire, pur se sangue del suo sangue, chi si è ribellato, chi non ubbidisce, chi non osserva i principi morali che impone lui alla pari di quelli del potere istituito che rappresenta. La moglie che lo ha accudito amorevolmente nei giorni scorsi, vedendolo affranto e debole, è la sua nuova nemica alleata con le ragazze che pretendono di tingere i capelli di blu (il colore della povera Masha) e tingere di smalto le unghie. Orpelli occidentali e decadenti, lontani dagli insegnamenti teocratici del Corano, che, tra un maltrattamento e l’altro, legge con devozione cieca. Trascinare per i capelli la moglie, incarcerare le figlie, infierire sulla donna non è contrario alle scritture? Purtroppo, la tensione accumulata, l’inseguimento di due ribelli, la fuga, i sospetti, la mancanza totale di fiducia nei familiari, sono ingredienti di una miscela mentale che è esplosa e non risponde più alla logica, neanche affettiva.
Il dialogo all’interno del nucleo era da tempo che, date le condizioni, era affievolito e le conversazioni era diventate discussioni, con carte ormai scoperte. “Se non come padre, perlomeno come esperto al servizio di questo regime da 20 anni, pensi non sappia come stanno le cose?”. “No, non lo sai papà, perché ci sei dentro. Ci credi. Vuoi preservarlo a tutti i costi.” Dialogo paradigmatico dei rapporti padre-figlie che stavano mutando. Innanzitutto, a causa del cambiamento e della presa di coscienza dei giovani, le ragazze in primis, verso una mentalità di società imposta dal regime e da chi ha il potere (quindi gli uomini maturi), secondo dai riverberi che di questo nuovo clima arrivano anche nelle famiglie più tranquille. Inoltre, sono anni che i dispositivi tecnologici hanno compattato gli adolescenti e i giovani che possono scambiarsi informazioni e video in tempo reale, diffondendo all’istante avvenimenti felici ora solo drammatici: Rezvan e Sana seguivano minuto per minuto le vicende della violenza perpetrata dalla polizia morale (maschile e femminile) ai loro coetanei e loro, prigioniere in casa costretta dall’ansiosa madre, sapevano e capivano la legittimità delle proteste. Ecco perché, per prima cosa, Amin ha sequestrato gli smartphone, simbolo di una generazione a misura di tecnologia, dove spesso, altrimenti, si è tagliati fuori e gli anziani vedono lo strumento come un pericolo al loro predominio.

Dopo i quattro episodi incentrati sulla pena di morte nel suo precedente Il male non esiste, Orso d’oro alla Berlinale 2020, Mohammad Rasoulof intesse qui una profonda riflessione su un uomo ingabbiato (come sarà poi destino della sua stessa famiglia) nel lavoro di giudice passacarte: "Scrivi l’accusa e firmala”, gli viene detto senza che abbia letto nemmeno le carte. Pur facendosi tanti scrupoli, alla fine si arrende con un passivo e definitivo “Cos’altro posso fare?”. Già, se nessuno di noi facesse nulla, nulla migliorerebbe. Se lo avessero pensato anche i nostri partigiani, ora saremmo altro. Intanto, l’ottimo regista usa un cinema classico per scrivere e parlare di politica del suo Paese e la pistola, al centro del racconto, è solo un pretesto perché se non fosse stata quello ci sarebbe stato un altro pretesto per far imporre le volontà del “padrone”. L’impianto perverso dei regimi resiste solo su una base essenziale: l’obbedienza da parte delle pedine che quello tiene in pugno. Quando gli sfuggono si apre una vera rivoluzione e perde il controllo.

Proprio come può succedere in natura con una pianta che pare innocua ma che può distruggere anche cosa l’ha aiutata a prosperare. La didascalia raggelante prima dei titoli di testa è chiara e spiega l’intero film:
Il Ficus Religiosa è un albero dal ciclo vitale insolito. Contenuti negli escrementi degli uccelli, i suoi semi cadono su altri alberi. Spuntano delle radici aeree e crescono fino al suolo. Poi, i rami avvolgono l’albero ospite e lo strangolano. Alla fine, il fico sacro prevale.
Evidente allegoria centrale del film, un’immagine simbolica del rapporto tra le nuove generazioni e il regime teocratico iraniano. La famiglia del protagonista rappresenta in miniatura la società iraniana. Le figlie, giovani e ribelli, sono i “semi” che germogliano all’interno di un sistema oppressivo. La loro crescita, il loro desiderio di libertà e giustizia, minaccia di soffocare l’albero ospite: il padre, simbolo del potere patriarcale e del regime stesso. Il fico sacro, quindi, non è solo una pianta, ma un’immagine di trasformazione e sovversione: i semi che crescono dentro il sistema, lo avvolgono, lo mettono in crisi e, forse, lo superano. È un messaggio di speranza e resistenza, ma anche di conflitto inevitabile. La natura stessa del fico — che si impone silenziosamente ma inesorabilmente — riflette la tensione crescente all’interno della famiglia e del Paese. Un’apertura così poetica e inquietante non è solo decorativa: è la chiave per leggere ogni gesto, ogni sguardo, ogni frattura che si consuma nel film.
Dice il regista: Per anni mi sono chiesto: “Chi è che fa funzionare il sistema giudiziario iraniano?” Che tipo di persone sono? Che cosa pensano? Quali sono le loro motivazioni? Per che cosa vivono esattamente? Poi venendo io stesso interrogato, finendo più volte in tribunale e poi in prigione, ho avuto l’opportunità di osservare questa gente da vicino e provare a trovare una risposta alla mia domanda. Questo film parla delle risposte che ho trovato e del tipo di persone che ho potuto osservare.

Il film, ovviamente, è stato girato clandestinamente e a due terzi delle riprese, Rasoulof è venuto a conoscenza che era stata emessa una sentenza di otto anni di carcere per il suo caso precedente. Alcuni mesi dopo, durante la post-produzione, un tribunale ha riconfermato la condanna e il regista è riuscito a trasferire il film all’estero, al suo montatore inglese due ore prima che la sentenza diventasse esecutiva. La regia, il montaggio, tutto il lavoro del cast tecnico è esemplare e produce un’opera che fa stare sulle spine come fossimo in un film di Hitchcock, anzi lo è davvero per la suspence che domina sin dal primo istante, con un finale di giallo incattivito. L’angoscia che prevale sullo spettatore non è solo quella di un thriller ma riguarda il senso sociale e umano di persone ormai ostaggio di un regime autoritario che può condannare a morte per reati minori o addirittura non commessi, solo perché la gioventù si è permessa di alzare la testa e pretendere libertà di opinione, parola, religione. Il regime ha paura del fico sacro, considerato così da culture e religioni dell’Asia meridionale, in particolare nel buddhismo, induismo e giainismo. Una pianta che è un ponte tra il mondo naturale e quello spirituale.

Alle direttive dell’ottimo Mohammad Rasoulof si muove un gruppo di attori sorprendenti, interpreti eccellenti che si muovono e recitano in modo magnifico. Non solo Missagh Zareh e Soheila Golestani che sono due esperti ed affermati attori di cinema e teatro (la seconda anche attivista e già carcerata), ma anche le due giovani Mahsa Rostami e Setareh Maleki sono state bravissime. Se il film è palpitante per le quasi tre ore il merito è anche di questi eccellenti attori.
Ma che coraggio, Mohammad Rasoulof!
Riconoscimenti (tra i tantissimi)
Premio Oscar 2025
Candidatura per il miglior film internazionale (Germania)
Golden Globe 2025
Candidatura per il miglior film in lingua straniera
Festival di Cannes 2024
Premio speciale della giuria
Premio FIPRESCI (Concorso)
Premio della giuria ecumenica
Premio François-Chalais
Premio AFCAE
(tutti premi ricevuti in assenza dei due attori, senza permesso di uscire dall’Iran, mentre Rasoulof è riuscito ad arrivare in Europa attraversando le montagne a piedi, senza documenti)
European Film Awards 2024
Candidatura per il miglior film
Candidatura per il miglior regista
Candidatura per la miglior sceneggiatura
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