Il signore delle formiche (2022)
- michemar

- 13 feb 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 20 mag 2023

Il signore delle formiche
Italia 2022 dramma biografico 2h14’
Regia: Gianni Amelio
Sceneggiatura: Gianni Amelio, Edoardo Petti, Federico Fava
Fotografia: Luan Amelio
Montaggio: Simona Paggi
Scenografia: Marta Maffucci
Costumi: Valentina Monticelli
Luigi Lo Cascio: Aldo Braibanti
Elio Germano: Ennio Scribani
Leonardo Maltese: Ettore Tagliaferri
Davide Vecchi: Riccardo Tagliaferri
Sara Serraiocco: Graziella
Anna Caterina Antonacci: madre di Ettore
Giovanni Visentin: direttore del giornale
Valerio Binasco: pubblico ministero
Alberto Cracco: presidente del collegio giudicante
Rita Bosello: Susanna, madre di Aldo Braibanti
Roberto Infurna: Manrico
TRAMA: La vicenda umana e il caso processuale di Aldo Braibanti - partigiano e pensatore, oltre che scrittore e poeta - che venne condannato nel 1968 per plagio (reato istituito dal fascismo, poi cancellato dal Codice Penale), imputazione dietro cui si celava un’accusa di omosessualità, suscitando nell'Italia dei tempi un ampio e profondo dibattito e un sollevamento degli intellettuali che intervennero a sua difesa.
Voto 7

Alla fine degli anni ‘60 si celebrò a Roma un processo che fece scalpore. Il drammaturgo e poeta Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) fu condannato a nove anni di reclusione con l'accusa di plagio, cioè di aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico da poco maggiorenne. Il ragazzo, per volere della famiglia, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock, perché "guarisse" da quell'influsso "diabolico". Alcuni anni dopo, il reato di plagio venne cancellato dal Codice Penale. Ma in realtà era servito per mettere sotto accusa i "diversi" di ogni genere, i fuorilegge della norma. Prendendo spunto da fatti realmente accaduti, il film racconta una storia a più voci, dove, accanto all'imputato, prendono corpo i famigliari e gli amici, gli accusatori e i sostenitori, e un'opinione pubblica per lo più distratta o indifferente. Nel film, solo un giornalista dell’Unità, organo del Partito Comunista Italiano – quotidiano che comunque secondo la sceneggiatura scritta a sei mani non si schiera mai a favore dell’imputato -, s'impegna a ricostruire la verità, affrontando sospetti e censure, avvicinandosi al poliedrico intellettuale, che fu anche scrittore, filosofo, artista, sceneggiatore, regista, curatore di trasmissioni radio e mirmecologo (studioso delle formiche). Ed omosessuale, che per l’opinione pubblica e per l’arretratezza dei cosiddetti benpensanti era inammissibile e contro natura, senza essere mai contemplato come reato.

Infatti, come dice il giornalista Ennio Scribani (Elio Germano) in una scena, sul Codice non è rintracciabile il termine “frocio” perché, scritto ai tempi del ventennio mussoliniano, significava ammetterne l’esistenza e perché “Se io condanno i froci, ammetto che in Italia ci sono. Cosa che, come tutti sanno, è impossibile, perché in Italia siamo tutti maschi, per carità!”. In questo clima retorico e ipocrita, la vita di una persona in quelle condizioni era difficilissima per l’interessato e per i suoi familiari, tanto che da una parte la madre del Braibanti è evitata dalla gente e trova scritte ingiuriose e volgari sul muro di casa, e dall’altra la madre dell’amico dell’intellettuale, il giovane Ettore (Leonardo Maltese), va personalmente nella pensione di Roma dove i due convivono per rapirlo e farlo ricoverare in un istituto psichiatrico dove il povero subisce violenti elettroshock che lo riducono a individuo totalmente rimbambito e insicuro, ma sempre spinto dall’affetto mai cancellato dalla mente martoriata verso il suo punto di riferimento culturale e umano.

La sceneggiatura, che Amelio ha scritto con due giovani autori, Edoardo Petti e Federico Fava, torna appunto indietro nel tempo, fino a quegli anni Cinquanta e Sessanta quando essere omosessuali era ancora considerato una cosa da nascondere. Il fascismo, che aveva stigmatizzato quella sessualità, sembrava ormai lontano, ma non abbastanza. Così si colpivano le persone non etero - tanto più se intellettuali - attraverso altre forme, come si racconta in questo film dove protagonista senza volto è anche l’allora reato di plagio, poi abolito solo nel 1981 perché giudicato dalla Consulta “una mina vagante nel nostro ordinamento potendo essere applicata a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di un essere umano da un altro essere umano, e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l'intensità”. La storia raccontata nel film dice molto di un'epoca in cui gli omosessuali erano “invertiti da curare, come fu detto anche a me in Calabria quando avevo 16 anni - racconta lo stesso Amelio -. Una cosa che in dialetto calabrese faccio dire a un personaggio del film”.

Il film inizia quando Aldo Braibanti nel 1947 si trasferisce da Fiorenzuola d'Arda (Piacenza), dove era nato il 23 settembre 1922, a Castell'Arquato, dove stabilisce nel torrione Farnese un laboratorio artistico che per anni diventa poi uno studio polivalente. Un luogo molto frequentato anche da ragazzi, a cui insegna filosofia e arti figurative. Tra i giovani, due diciottenni in particolare si rivelano i discepoli più affezionati ed entusiasti del professore, tanto che uno di loro lo segue poi a Roma all’inizio degli anni Sessanta. È il padre di quest’ultimo a presentare denuncia alla Procura di Roma contro Braibanti con l'accusa di plagio, sostenendo che l’intellettuale aveva convinto il figlio ad abbandonare la famiglia e ad andare a vivere con lui, omosessuale, sottomettendolo completamente alla sua volontà. Viene arrestato il 5 dicembre 1967 e a nulla serve il tentativo del ragazzo di difenderlo – con una commovente e drammatica testimonianza in tribunale durante il vergognoso processo - dichiarando di aver scelto spontaneamente (e lo ribadisce più volte) il rapporto con lui. Ma neanche questo non basta per una giuria chiaramente prevenuta e schierata come la gran parte dell’opinione pubblica, anche se largamente disinteressata al caso. Per giunta con una stampa nazionale volontariamente distante, che non voleva compromettersi con una storia scomoda. Come il protagonista. Aldo Braibanti era ed è stato rimosso, obnubilato, dimenticato. Nei documenti dell’epoca era presente solo qualche amena boutade sul fatto che fosse un mirmecologo, ovvero, uno studioso di formiche, da cui il titolo del bellissimo film.

“Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi re di uno spazio infinito”, dice in una delle prime scene il protagonista, citando l’Amleto di William Shakespeare, sintetizzando tutta la poesia e la profondità dell’opera di Amelio, un cineasta capace di raccontare l'Italia dei Festival dell'Unita con tanto di proiezione del film russo Quando volano le cicogne, ma pure il paese dove si scrivevano pesanti insulti sui muri contro gli omosessuali. Come dice sempre l’ostinato giornalista, che assume quasi le vesti del narratore e del commentatore (scettico, ironico, deluso dalla società italiana), ma anche di coscienza critica, se la passione del Braibanti fossero state le ragazze, l’artista invece di finire in galera, avrebbe avuto pacche sulle spalle e bianchini gratis al bar del paese. Amara verità. Ed invece i familiari delle persone in questione, rappresentate da una mamma, cattolica osservante ma cattiva verso la madre del protagonista, pensavano bene di portare il figlio “malato” da Padre Pio.

La delicatezza e, contemporaneamente, la fermezza con cui Amelio narra la vicenda sono commoventi e in modo crescente: il film inizia piano, dando l’impressione di volare basso e di raccontare la storia come una cronaca ed invece pian piano si eleva ad opera potente. Più l’intellettuale (che mi ha dato più volte l’impressione di trovarmi davanti al Pasolini giustiziato ferocemente) si esprime, più egli svela la sua mentalità aperta e altamente acculturata, più viene mostrata l’arretratezza dei tempi e del metodo giudiziario dettato dai retaggi fascisti, più viene fatto evidenziare la limpidezza e la sincerità del legame tra i Braibanti ed Ettore, più viene messa in evidenza la sofferenza mentale e fisica di quest’ultimo a seguito dei maltrattamenti sanitari, tutto ciò non fa che rendere il film di Amelio un messaggio potente ed un urlo di rabbia verso una società legata ad idee arcaiche e antropologicamente irragionevoli. Riflessioni, queste, che purtroppo bisogna fare ancora oggi, nel XXII secolo, quando tuttora si sentono e si leggono considerazioni aberranti anche da parte di esponenti politici che siedono in Parlamento e nelle amministrazioni locali.

C’è la storia biografica di un intellettuale scomodo e quella d’amore tra due uomini, che vanno parallele e su cui Gianni Amelio ci invita a riflettere. Un processo ad un gay e ad un amore da parte di un’Italia omofoba e ottusa e non ancora razzista solo perché erano lontani i tempi delle migrazioni. Gli intenti, però, del regista non sono quelli di costruire la figura di un martire (e forse Braibanti lo è stato), bensì quelli di disegnare la copertina di una Domenica del Corriere mai stampata e che mai sarebbe stata pubblicata, firmando un’opera in cui contrasta il carattere ispido e severo, dalla idee artistiche ben definite e rigide pur nella piena libertà d’espressione, di un personaggio non facile, con il bellissimo rapporto d’affetto sincero e delicato basato sull’innamoramento che commuove ed emoziona. Ci voleva poco a sbagliare dosi e tempi, scrittura e recitazione. Ed invece la regia è precisa come da sempre ci ha abituati Gianni Amelio e il cast, nei personaggi principali è indovinatissimo.

Luigi Lo Cascio ed Elio Germano sono tra i migliori in assoluto che girano i teatri e i set cinematografici italiani e qui danno un’ulteriore dimostrazione. Il primo è misuratissimo, accurato e rigoroso come ampiamente manifestato in tutte le occasioni e persino bravo a pronunciare l’accento piacentino. Miracolosamente dentro al personaggio. Del secondo è perfino inutile ribadire le enormi qualità di naturalezza di cui è dotato, della forza attoriale che esprime ogni volta, della carica umana pronta ad esplodere per rendere sincero il suo personaggio di giornalista fuori dagli schemi imposti dal perbenismo e dalla volontà di un direttore di giornale che non vuole patate bollenti in redazione. Straordinari i colloqui che si svolgono in carcere, divisi dalle sbarre ma lentamente uniti negli intenti, dopo un’iniziale diffidenza da parte protagonista. Davvero bravi!
Nel frattempo, Sara Serraiocco cresce di film in film, sempre migliorandosi e affermandosi come una delle giovani attrici in grado, ne sono certo, di affrontare ruoli importanti e lo vedremo sicuramente. Elogio a parte per la buona prova del giovane Leonardo Maltese, esordiente come la maggior parte degli attori di questo cast, autore di una eccellente recitazione, certamente non facile.

Malinconico il finale con il breve addio dei due amanti, con l’Aida di Verdi che accompagna le ultime inquadrature, dopo le quali la didascalia ci ricorda che, poco dopo la definitiva condanna alla detenzione, “Aldo Braibanti uscì dal carcere dopo due anni. Il resto della pena gli fu condonato per i suoi meriti di partigiano. Visse a Roma e morì nella sua terra. Aldo e Ettore non si sono incontrati mai più.”.
Bellissimo film a cui si possono perdonare le inesattezze storiche, ma l’importante è ciò che racconta e come lo racconta.
“Questo processo è lo specchio del nostro Paese!”

2022 - Festival di Venezia
Premio Brian
2023 - David di Donatello
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Candidatura alla miglior sceneggiatura originale
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