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Il traditore (2019)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 28 mag 2019
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 11 ott 2024

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Il traditore

Italia/Francia/Brasile/Germania 2019 dramma biografico 2h15'


Regia: Marco Bellocchio

Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Valia Santella, Ludovica Rampoldi, Francesco Piccolo

Fotografia: Vladan Radovic

Montaggio: Francesca Calvelli

Musiche: Nicola Piovani

Scenografia: Andrea Castorina, Jutta Freyer

Costumi: Daria Calvelli


Pierfrancesco Favino: Tommaso Buscetta

Maria Fernanda Cândido: Maria Cristina de Almeida Guimarães

Fabrizio Ferracane: Pippo Calò

Fausto Russo Alesi: Giovanni Falcone

Luigi Lo Cascio: Salvatore Contorno

Nicola Calì: Totò Riina

Giovanni Calcagno: Gaetano Badalamenti

Bruno Cariello: Alfonso Giordano

Bebo Storti: avv. Franco Coppi

Vincenzo Pirrotta: Luciano Liggio

Goffredo Maria Bruno: Stefano Bontade


TRAMA: Vendette e tradimenti girano intorno a Tommaso Buscetta, "boss dei due mondi". La storia inizia con il carismatico personaggio di Cosa Nostra braccato in Brasile dai "corleonesi" di Riina e passa attraverso l’amicizia con il giudice Giovanni Falcone e la testimonianza al maxiprocesso che mise in ginocchio l'organizzazione mafiosa per concludersi, dopo le accuse al processo Andreotti, con la sua scomparsa nel 2000 a Miami, dove Buscetta morì per malattia e non per mano della mafia.


Voto 8,5

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Il pericolo maggiore per l’autore di un film biografico di questo tipo, cioè sulla figura di un criminale famoso e potente, è sicuramente quello di mitizzarlo, di renderlo un eroe. Abbiamo visto tante volte questo fenomeno e ciò non rende mai giustizia né alle storie raccontate né alla vita delle vittime, che passerebbero così come semplici intralci sfortunati, come effetti collaterali. Questo bellissimo film evita ampiamente il pericolo perché Marco Bellocchio esalta il personaggio di Tommaso Buscetta non nel senso etimologico di celebrare e magnificare, bensì in quello di ritrarre e spiegare quanto meglio possibile la figura di un importante uomo di mafia. Non per renderlo un mito attraente, come d’altronde era effettivamente nel suo mondo, ma per mostrare chiaramente cosa volesse dire essere un “uomo d’onore”. Buscetta era un personaggio complesso e pericoloso, pieno di contraddizioni: ignorante e intelligente, criminale e onestamente fedele ai suoi insani principî, amante dell’eleganza e sornionamente adattabile ad ogni circostanza e ambiente, a seconda delle situazioni. E amante delle belle donne, come amava dire di sé. La ricostruzione dei colloqui tra lui e il giudice Giovanni Falcone ne sono una dimostrazione pratica e sono delle sequenze straordinarie di scrittura cinematografica e di eccellente recitazione dei due attori: una serie di botta e risposta concepita alla pari di un duello di fioretto e a tratti di sciabola, in cui si percepisce l’abilità dialettica di due persone moralmente lontane come i due poli terrestri ma che cominciano a guardarsi come non avrebbero mai pensato prima. Due persone che impararono a “stimarsi” nei limiti ammissibili e concepibili, ben consci di militare in campi opposti, ma sempre con l’intento da parte del magistrato di ottenere, con calma e strategia, il massimo delle rivelazioni da parte dell’uomo che si sedeva all’altro capo del tavolo.


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Il meraviglioso lavoro di Marco Bellocchio è stato quello di inquadrare alla perfezione la mafia di quegli anni e l’organizzazione delle cosche, esaltando (questa volta sì) il compito che Falcone si era assunto e con cui si prefiggeva di combattere Cosa Nostra e sconfiggerla (“La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”). I due si annusano, si studiano, poi si avvicinano, dando il via così alla collaborazione che porterà finalmente al famoso Maxiprocesso di Palermo, che avrà inizio il 10 febbraio 1986, durando quasi due anni solo per il primo grado (ci vollero in tutto 6 anni per arrivare al giorno della sentenza finale della Corte di Cassazione con un numero impressionante di ergastoli comminati).

Vengono ben inquadrati altri aspetti di questa lunghissima storia: la figura del giudice fino alla strage di Capaci e la connessione Stato-mafia, rivelata proprio da quegli interrogatori, sia da Buscetta che dall’altro pentito Salvatore Contorno. In buona sostanza è proprio qui che il film di Bellocchio è riuscito a mostrarci chiaramente queste facce, questi atteggiamenti opposti, ovviamente mai messi sullo stesso piano morale. Da una parte la legalità e la giustizia, dall’altra la criminalità più efferata e senza scrupoli. Mostrata e filmata sin dalle prime sequenze allorquando viene spiegato che alla vecchia mafia palermitana si contrappose quella nuova dei corleonesi di Totò Riina, motivo che portò ad una guerra senza quartiere (la cosiddetta “prima guerra di mafia”) e senza risparmiare neanche i parenti più lontani, uomini, giovani e bambini. E se il termine “corleonesi” fa tornare in mente il paese che dette origine al più famoso padrino della storia del cinema, come non collegare la scena iniziale della festa di Santa Rosalia in casa del boss (con tanto di musiche tradizionali, balli e fotografia ricordo) a quella del matrimonio del Padrino di Francis Ford Coppola? L’incipit in cui i mafiosi tutti riuniti levano alto il grido della loro devozione alla Santa Patrona ci scaraventa immediatamente nell’atmosfera di quell’ambiente.


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È necessario ricordare che anche quando Marco Bellocchio filmava storie solo apparentemente riguardanti vicende umane, familiari e di costume ci ha sempre parlato in realtà della società civile che ci circonda: basti ricordarsi del suo straordinario esordio nel 1965 con I pugni in tasca con il crollo del mito della famiglia o rileggersi con calma la lunga lista dei suoi film, fino ad arrivare a temi di attualità a lui cari perché rappresentano i problemi della nostra società (vedi Bella addormentata, recensione, L’ora di religione, Vincere, ecc.) e soprattutto il bellissimo Buongiorno, notte (recensione). Come lui stesso ha affermato, questo film è sì diverso da tutti i precedenti però assomiglia un po' a quest’ultimo, “perché i personaggi si chiamano coi loro veri nomi, ma lo sguardo è più esposto, all'esterno, i protagonisti sono spesso in pubblico, per esempio nel gran teatro del Maxiprocesso di Palermo e in altri teatri di altri processi con un copione diverso, pur essendo i personaggi spesso ripresi a distanza ravvicinata, trascurando però quei tempi psicologici, quelle nevrosi e psicosi "borghesi" che sono state spesso la materia prima di molti film che ho fatto in passato. Il traditore è anche un film civile (o di denuncia sociale come si diceva una volta) evitando però ogni retorica e ideologia."

Ed è tanto vero, tutto ciò, perché a me è sembrato uno straordinario film “asciutto”, senza ghirigori, senza la smania di farsi piacere o di avere per forza successo, caratteristica sempre presente nel cinema di Bellocchio, che ne ha fatto una sua peculiare proprietà autoriale. In questa occasione, per esempio, ho avuto l’impressione in certi momenti che non sia un film ma un documentario, tanto è scevro di finzione o forzature spettacolari, tanto è naturale perfino nella recitazione corale. Perché sì, al centro c’è Buscetta ma il film lo trovo come cantato da un coro di personaggi tutti importanti e, ognuno di loro, decisivi, con la maggior parte di loro descritti così bene che alla fine li conosciamo tutti. È un film complesso pur nella linearità della narrazione, derivata dallo studio delle migliaia di pagine scritte dalle confessioni del protagonista e dai verbali del processo celebrato nella aule-bunker, come veniva raccontato dalle cronache di quei tempi.


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Personaggi senza scrupoli, ottimamente trasportati sullo schermo, che seguiamo con stupore e spavento per la loro mentalità e per come agivano, serenamente allacciati con uomini potenti dello Stato. Lungo più di due ore, non annoia mai nonostante le lunghe sequenze che ci mostrano i dibattiti nei tribunali, come fosse un legal-thriller, pieni di insulti tra i mafiosi e il (non pentito ma) “collaboratore” – così come Buscetta amava autodefinirsi – e i colloqui preliminari tra il protagonista e il giudice Falcone, qui celebrato e giustamente santificato. A questo proposito non capisco come mai siano scoppiate le polemiche sul fatto che il film sia uscito nelle sale e proiettato al Festival di Cannes in contemporanea con l’anniversario di Capaci, strage che nel film viene ricordata con una sequenza spaventosa filmata nella stessa auto del magistrato: un sussulto nella sala che colpisce lo stomaco ed emoziona quando e quanto meno te lo aspetti.

Un grande film, una memorabile opera, guidata da una regia ineccepibile, precisa e significativa, in cui la prestazione del gigantesco Pierfrancesco Favino riempie la durata del film in maniera impressionante: l’attore dà una prova definitiva delle sue qualità, parlando in siciliano e portoghese (la moglie Maria Cristina è brasiliana, la bellissima e brava Maria Fernanda Cândido) come lingua propria, imponendo il suo fisico (potenziato da una decina di chili in più) in ogni sequenza, dominando la scena, controbattendo in ogni dibattito la sua versione dei fatti, ormai deciso a rivelare particolari da far tremare i polsi a mezzo mondo politico e mafioso, determinato ad arrivare fino in fondo per un motivo per lui molto importante: quegli uomini avevano tradito la “famiglia” e si erano affiliati ai nemici, alla cosca di Riina. Loro erano i veri traditori, non lui che aveva deciso di collaborare con la magistratura palermitana. Era rimasto fedele alle sue tradizioni e a chi lo aveva accolto già all’età di 17 anni nella cosca di Porta Nuova dopo le giovanili attività illegali nel mercato nero di Palermo, dove lo avevano battezzato don Masino. Un fenomenale Favino che si adegua alla perfezione in un film d’autore e che rimarrà scolpito nella storia del nostro cinema

E non è il solo a rendere grande questo film perché al suo fianco si può anche ammirare un esuberante Luigi Lo Cascio, prevedibilmente a suo agio con un personaggio palermitano fino alle ossa come Totuccio Contorno, che ruba la scena a tutti per dieci minuti di gloria nella sequenza della deposizione in tribunale e nel confronto con i suoi ex amici, in cui il violento diverbio diventa improvvisamente uno spettacolo a parte, con un piccolo stacco comico e surreale quando ammette che non sa parlare italiano e si esprime solo con un dialetto così stretto e veloce che non lo capisce nessuno. Ed un doveroso elogio va fatto anche ad un attore che è colpevolmente trascurato, Fabrizio Ferracane, rivelatosi al grande pubblico con il bellissimo Anime nere (recensione), ma che meriterebbe molte altre importanti occasioni: il suo Pippo Calò è stupefacente. Impetuoso, arrabbiato, irrefrenabile, dagli occhi fiammeggianti che promettono vendetta.


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Un film da vedere assolutamente, per imparare quello che non si conosce, perché è molto bello e poi, non ultimo, per non dimenticare! O semplicemente perché Marco Bellocchio non delude mai!


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Riconoscimenti

2020 - David di Donatello

Miglior film

Miglior regia

Migliore sceneggiatura originale

Miglior attore protagonista a Pierfrancesco Favino

Miglior attore non protagonista a Luigi Lo Cascio

Miglior montaggio

Candidatura per miglior produttore

Candidatura migliore attrice non protagonista a Maria Amato

Candidatura miglior attore non protagonista a Fabrizio Ferracane

Candidatura miglior fotografia

Candidatura miglior musicista

Candidatura miglior scenografia

Candidatura migliori costumi

Candidatura miglior trucco

Candidatura migliori acconciature

Candidatura per il miglior suono

Candidatura per i migliori effetti speciali visivi

Candidatura per il David Giovani



 
 
 

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