La bambina segreta (2022)
- michemar

- 9 ott
- Tempo di lettura: 6 min

La bambina segreta
(Ta farda) Iran, Francia, Qatar 2022 dramma 1h26’
Regia: Ali Asgari
Sceneggiatura: Alireza Khatami, Ali Asgari
Fotografia: Rouzbeh Raiga
Montaggio: Ehsan Vaseghi
Musiche: Ali Birang, Javad Nazari
Costumi: Mohammad Hossein Karimi
Sadaf Asgari: Fereshteh
Ghazal Shojaei: Atefeh
Babak Karimi: dott. Mahmoudi
Amirreza Ranjbaran: Yaser
Nahal Dashti: Nadia
Katayoun Saleki: Mahsa
Milad Moayeri: Mehdi
TRAMA: Fereshteh deve nascondere il suo bambino illegittimo per una notte ai suoi genitori che si presentano per una visita inaspettata. La sua amica Atefeh la aiuta e si imbarcano in un’odissea tra le vie di Teheran.
VOTO 7

Ali Asgari entra con la cinepresa dentro un piccolo appartamento delle case popolari di Teheran per seguire le affannose ore di Fereshteh, una ragazza semplice, una studentessa universitaria sempre in ritardo con gli appuntamenti di studio e i lavoretti che le servono per tirare avanti nella sua trascurabile vita di ragazza madre, avendo partorito una bimba da un paio di mesi. La sua esistenza è allietata dalla minuscola creatura che cura con amore in una vita tranquilla, ma una mattina riceve la telefonata della madre che, un po’ come fanno sempre i genitori, annuncia l’intenzione dei due di volerle fare visita la sera stessa. Non essendo al corrente della nascita della nipotina, Fereshteh è spiazzata, non avendo mai confessato di aver avuto una figlia dalla relazione con un ragazzo che ormai non frequenta più. È necessario, quindi, che trovi una soluzione urgente per non far trovare la bimba in casa, compreso gli abitini, i giocattoli e ogni oggetto che riveli il segreto. Basterà telefonare alle amiche o a qualche coinquilina per risolvere il problema, almeno lo spera. D’altronde non c’è altro rimedio, l’essenziale è che qualcuna si prenda cura della piccola per la notte, tanto sicuramente il mattino seguente i genitori ripartiranno.

Lei, che vive e studia a Teheran da appena un anno, e la sua amica Atefeh, anche lei da poco in città, progettano, anelando libertà e liberazione femminile, di emigrare in Canada, motivo per cui quest’ultima sta studiando con entusiasmo l’inglese per richiedere un visto. Ma prima Fereshteh deve ottenere un passaporto per il suo bambino al mercato nero e ci vogliono molti soldi. Cominciando le telefonate per chiedere asilo per una notte per la sua bimba, o bussando alla porta delle donne che conosce nell’edificio, ottiene solo risposte negative, nessuna ha voglia di prendersi la responsabilità. Va male anche con un amico appena divorziato da un’avvocatessa che vanno a trovare ma scoprono lo studio chiuso dato che la donna è stata arrestata. Episodio utile al regista per inserire, nella turbolenta mattinata della ragazza, le condizioni restrittive in cui si vive nel clima politico rigido e oppressivo: basta un minimo sospetto di chissà quale comportamento non lecito per il regime e si perde facilmente la libertà personale.

Ogni tentativo, che pareva inizialmente a portata di mano, va a vuoto, anche con l’ex fidanzato e padre della bimba, che porta le due donne e la neonata da una sua amica infermiera in un ospedale della città, la quale accetta di tenerlo la notte, ma il direttore (si rivede il caro quasi italiano Babak Karimi) si accorge e fa saltare tutto, offrendo però ospitalità e quindi la soluzione definitiva se la sempre più disperata Fereshteh (è ormai tarda serata e i genitori sono fermi sotto casa sua) si vorrà concedere. Ci mancava solo il ricatto sessuale, povera ragazza! Al che, con uno stratagemma, le due ragazze riescono a riprendersi la bimba e a scappare, portandola, estremo espediente, nella casa per studentesse dove alloggia appunto Atefeh. Può mai una madre abbandonare la sua creatura, anche se per una sola notte?

A Fereshteh serviva solo una notte d’aiuto ma era altresì necessario avere la forza e la tranquillità per lasciare in altre mani la figlioletta e solo una madre incosciente e senza amore materno potrebbe forse fare questo. Una notte soltanto, tanto da indurre la produzione a distribuire il film con il titolo internazionale di Until Tomorrow, fino a domani. Da una parte la sincera e forte amicizia, una vera alleanza tra le due ragazze che si affannano disperate tra le strade della capitale viaggiando in bus, in taxi ed una volta spericolatamente sulla moto di Yaser tutti assieme (in tre, più la bimba, più il borsone), sempre alla ricerca di una soluzione, sempre ricevendo rifiuti con pretesti fittizi o assurdi, basati sul timore di commettere azioni illecite o per il semplice motivo di non voler fastidi: dall’altra parte un ambiente politico e sociale pervaso da controlli severi, uno stato di polizia che si respira in ogni angolo e che incute la paura di finire facilmente in cella, accusati di chissà cosa. In mezzo, la voglia di aria libera, di essere se stesse senza il timore di controlli, di poter gestire la propria vita come si desidera, lontane dai pregiudizi di mentalità arretrata. La versione di Teheran di Ali Asgari è una metropoli decadente in cui la libertà si ottiene solo con il privilegio della classe, mentre la povera gente vive alla meglio che può.

Fino a domani è la speranza di un giorno più, un altro giorno ancora di quiete prima di dover fare i conti con una tragica e irragionevole realtà che costringe le donne iraniane a non avere nemmeno il diritto di essere madri senza un uomo che in qualche modo le autorizzi e legittimi ciò che per natura e per istinto desiderano essere e di fatto sono. La storia di Fereshteh si svolge nell’arco delle poche ore di una giornata, mentre la camera di Asgari segue i suoi movimenti, i suoi spostamenti convulsi, carichi di agitazione e privi di una riflessione vera e propria. Da un piano all’altro del suo palazzo sistema e disperde pacchi e valigie tra le vicine carichi delle piccole cose della sua bambina, prima di iniziare un lungo e sempre più disperato pellegrinaggio attraverso la città con la sua leale amica Atefeh in cerca di un posto sicuro. Il suo è un girovagare instancabile e a tratti irragionevole, come irragionevole è il motivo che la costringe a farlo, che costringe una giovane donna a nascondere o meglio disperdere ogni traccia dell’esistenza di una figlia considerata illegittima perché partorita da una donna senza marito.

Asgari segue i movimenti di Fereshteh da vicino, ne coglie gli sguardi, prima persi, confusi, poi disperati e infine decisi, carichi di quella forza inaspettata che una madre, anche giovanissima, sa tirar fuori di fronte allo stato di vera necessità. E il personaggio che il regista ritrae non è un’eroina in lotta contro un sistema, ma semplicemente una giovane donna, una singola persona che per affermare un proprio diritto e un dovere a cui non vuole sottrarsi in realtà combatte contro una ideologia e un sistema sociale contorto, brutale e inumano. Non ci sono discorsi programmatici, evita la denuncia politica esplicita, ma l’assurdità di leggi repressive e di una folle cultura patriarcale traspaiono in modo efficace dai pochi, pochissimi e semplici dialoghi delle due giovani donne e dalle brevi risposte e piccole azioni delle persone che interagiscono con - o più spesso contro - di loro.

“Fino a domani” incarna il desiderio di un giorno in più, una tregua temporanea prima che la realtà - cruda e insensata - torni a imporsi. In Iran, essere madre senza il consenso di un uomo equivale a una colpa: le donne sono private persino del diritto di riconoscere ciò che la natura e l’istinto già sanciscono. In questo contesto si muove Fereshteh, protagonista di una giornata frenetica e angosciosa, seguita passo dopo passo dalla regia. La macchina da presa ne accompagna i gesti nervosi, i movimenti rapidi e disordinati, privi di tempo per pensare. Tra i piani del suo palazzo, lei affida alle vicine pacchi e valigie colmi degli oggetti della sua bambina, prima di intraprendere un pellegrinaggio urbano sempre più disperato, insieme all’amica fidata Atefeh, alla ricerca di un rifugio per una sola notte.

Il suo vagare è incessante, a tratti illogico, ma riflette l’assurdità della condizione che la obbliga a cancellare ogni traccia dell’esistenza di una figlia considerata illegittima solo perché nata fuori dal matrimonio. Asgari osserva Fereshteh da vicino e ne cattura la forza inattesa che solo una madre, anche giovanissima, riesce a trovare quando la necessità lo impone. La giovane non è ritratta come un’eroina, ma come una donna qualunque, una persona sola che, nel tentativo di difendere un diritto e adempiere a un dovere, si ritrova a fronteggiare un sistema ideologico e sociale profondamente distorto, crudele e disumano. Lo spettatore ne resta coinvolto psicologicamente, avvertendo in maniera netta l’angoscia e la tensione, sentendo compartecipazione e ansia affinché la vicenda si concluda felicemente, che tutto vada per il meglio. Ed invece ogni no, ogni difficoltà non fa che spostare più in là la conclusione aspettata e mai realizzata.

Il regista, con l’aiuto dell’ottima interpretazione della protagonista Sadaf Asgari (volto pulito, voce soave dalla dolce cantilena delle donne iraniane) e di una fotografia pallida e spenta su una città fredda e respingente, riesce soprattutto a raccontare il senso di un amore naturale costretto a lottare contro il sistema dentro il quale Fereshteh e Atefeh provano a raggirare lo sguardo ottuso e i ricatti squallidi di una legge per cui quella bambina e l’atto che l’ha generata non dovrebbero esistere.
Girato e distribuito clandestinamente in patria, è stato invitato o in concorso in molti festival di tutti i continenti, ha riscosso 9 premi e 9 candidature.






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