La chiamata dal cielo (2022)
- michemar
- 14 feb 2024
- Tempo di lettura: 5 min

La chiamata dal cielo
(Kõne taevast) Estonia/Cina/ Kirghizistan/Lituania 2022 dramma 1h21’
Regia: Kim Ki-duk
Sceneggiatura: Kim Ki-duk
Fotografia: Kim Ki-duk
Montaggio: Karolis Labutis, Tul Paloma Rodríguez, Audrius Juzenas (montaggio finale)
Musiche: Sven Grünberg
Scenografia: Orozbai Absattarov
Costumi: Nargiza Mamatkulova
Zhanel Sergazina: Zhanel
Abylai Maratov: Daniel
Seydulla Moldakhanov: voce di Dio al telefono
Nazbiike Aidarova: Lina
Aygerim Akkanat: ex fidanzata
Artykpai Suyundukov: uomo del bar
TRAMA: Una ragazza che sogna di incontrare l’amore più profondo conosce un giorno un uomo che ha vissuto molte storie d’amore e di sesso. L’incontro è determinante e lui riesce finalmente a farle sperimentare una passione pura e accecante, almeno fino a quando non è lui stesso a rimanere soggiogato dalla gelosia e dalla dipendenza nei confronti di lei.
Voto 6,5

Girato in Estonia, Lettonia e Kirghizistan nel 2019, l’ultimo film di Kim Ki-duk, postumo, è stato assemblato e ultimato dal suo collaboratore estone Artur Veeber, poi presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2022. Festival che ha sempre accolto con entusiasmo le opere del regista coreano, anche premiandolo, prima per il bellissimo Ferro 3 – La casa vuota e 8 anni dopo per lo struggente e atroce Pietà, Leone d’Oro. Non è quindi un caso che – dopo la sua morte per covid nell’inverno del 2020 all’età di 59 anni – l’ultimo film venisse proiettato al Lido, facendo calare il sipario su una carriera alquanto controversa e terminata tra le polemiche. È anche importante notare che l’inclusione del film è avvenuta nonostante le forti obiezioni da parte dei membri della comunità cinematografica coreana, a seguito di molteplici accuse di violenza sessuale e stupro fatte contro di lui e il suo frequente collaboratore Cho Jaehyun. Lui si era sempre ribellato alle accuse (come d’altronde fanno tutti, innocenti o colpevoli) e questa sua ultima opera pare una sorta di protesta e discolpa, perché la storia di amore e sesso che esplode letteralmente tra i due protagonisti vuole anche dimostrare che, quando nasce un’attrazione, non si sa mai dove si va a finire né ciò che accade sia realistico o frutto della fantasia. Tanto che qualche sito di cinema cataloga il film nel genere fantastico, ma che io ho voluto evitare perché, se anche è un aspetto preminente, è piuttosto, a mio modesto parere, un dramma sotto tutte le angolazioni.
Un indizio è la didascalia che si legge prima che la storia abba inizio: “Più si avvicinano alla morte, più gli esseri umani sentono la mancanza e ricordano la loro giovinezza. Mi mancano i miei vent’anni, anche se ho fatto molti errori in gioventù. Quindi, se torno indietro a quel periodo, voglio davvero fare del bene. Ma la vita non torna mai più”. Essendo tanto misteriosa e quasi ermetica, la prefazione incuriosisce e al limite diventa comprensibile solo a visione avvenuta. La quasi totalità del film è in bianco e nero e solo nel finale, quando tutto pare ricominciare ma chiaramente vero e non sognato, ecco il colore nel pieno di una giornata che sembra primaverile e soleggiata. Vero? Sognato? I due aggettivi si spiegano seguendo le varie sequenze.

La protagonista Zhanel sta davanti allo specchio durante la sua routine mattutina: ride, urla allegra, poi esce in strada. Mentre si trova a un semaforo, viene avvicinata da un uomo vestito elegantemente, Daniel, che vuole andare al Caffè Il Sogno e cerca indicazioni. Lei lo invita a seguirla perché è di strada. Entrambi flirtano quasi immediatamente, fino al punto che si ha l’impressione che forse quel bar è solo un pretesto. Ed invece no. Lì ci lavora la vecchia fidanzata del giovane, Lina, che ora si è legata ad un anziano che è con lei nel bar, dove avviene un aspro litigio dopo che Daniel ha insistito affinché tornino insieme. Cacciato dal locale i due protagonisti continuano a camminare e ad atteggiarsi come due innamorati timidi. Inizia così una storia d’amore che timida non sarò affatto, anzi tutt’altro. Ma la loro relazione non nasce sotto una buona stella.
Ripicche, atti di gelosia di lei quando nota che l’altro guarda un’altra ragazza, peggio quando cerca ancora contatti con la ex, poi, per giunta, si aggiunge un’altra ragazza. Vorrebbe lasciarlo ma il sentimento e ancor più l’attrazione erotica li rinsalda. Speculare il comportamento di lui quando la gelosia se ne impossessa facendolo diventare violento e restrittivo, il che vuol dire che si rinchiudono in un appartamento dimentichi del mondo che resta fuori. Sesso, desiderio, litigi violenti, senza fine. Così monotonamente? Assolutamente no! Perché questi avvenimenti, sempre filmati in bianco e nero, sono intervallati da pause extra racconto: lei dorme, vibra il cellulare ed una voce (di Dio?) le preannuncia o forse spiega ciò che sta pensando di vivere. Allora è tutto vero oppure un sogno? Addirittura preannunciato dalla chiamata di Dio? Siccome a Zhanel piace ciò che sta vivendo o che crede di stare a vivere, torna volentieri sul cuscino, sovrastata e protetta dal suo gigantesco orsacchiotto di peluche. Interrotta o ripresa dalla imperiosa voce al telefono. Un tour de force che peggiora di volta in volta, coinvolgendo anche altre persone e scende fino alla tragedia quando i terzi si intromettono. Sadismo mentale, atrocità sentimentale, rinuncia alla vita per darsi e pretendere non tutto, il tutto. Con un Terzo, il Dio che guida e sovraintende (i terzi sono spesso presenti nei film del cineasta).
Se Kim Ki-duk voleva provocare ci riesce benissimo e male fa chi demorde alla visione per monotonia, perché il lavoro psicologico che svolge l’autore sui personaggi e di riflesso sugli spettatori è sofisticato e astuto: ti accalappia e ci devi stare. Risulta evidente come qualsiasi tentativo di separare l’arte e l’artista è destinato a naufragare sulla natura psicosessuale insistentemente aggressiva del suo consueto lavoro come anche in questo addio. C’è un timido bacio iniziale, subito seguito da una richiesta più affamata, per precipitare in un amplesso che è uno stupro a condizione che noi intravediamo un rifiuto non palese. E quindi torniamo alle considerazioni di cui sopra. Tanto che è lei che in seguito pretende l’assoluta prelazione esclusiva. “Non sono quel tipo di ragazza” aveva detto Zhanel al primo accostamento, ma poi cede impotente e poi diventa prepotente. Troppo comodo metterla in questa maniera, la storia, si potrebbe dire. Innegabile.
In ogni caso una relazione tossica, con veleni reciproci, con il coltello (non metaforico) una volta in mano a lei, una volta in mano a Daniel, minacciosi entrambi. Al culmine della tragedia, il colore, la vita reale: cosa è stato del prima? Il sole splende, è suonata la sveglia, lo specchio attende la smorfia e l’urlo, si parte. O si ricomincia? Infatti si avvicina un bel giovanotto elegante che vuole informazioni riguardanti un bar chiamato Caffè Il Sogno…

Girato in Estonia, Lettonia e Kirghizistan, nulla di ciò che si vede è coreano: la bella Zhanel Sergazina è kazaka, Abylai Maratov è di origini kirghisa e lituana, ed entrambi recitano in una lingua che riassume il kirghiso e il russo. Il regista è lontano dalla patria per le note vicende ma il cinema lo accoglie sempre con benevolenza nonostante il film non sia suo al 100% e non appare del tutto impeccabile. Completato da altri, sebbene suoi eredi artistici, è il frutto di un lavoro di gruppo dei suoi studenti nella nazione satellite russa ma rimane, imperfetto, un suo tipico prodotto con l’intento di distruggere il concetto del rapporto monogamo e totalizzante, che porterebbe all’autodistruzione fisica e psicologica.

Senza dubbio bravi i due attori. Bella la fotografia (anche questa sua), commento musicale sferzante e a tratti dolcemente ansiogeno. Importanti i primi piani, stretti, a studiare i minimi movimenti e la pelle del viso, soprattutto di lei. L’alienazione del legame si dipana quasi impercettibile sui volti e Kim Ki-duk la racconta anche così.
Comments