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Pietà (2012)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 8 set 2022
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 13 feb 2024


Pietà

(Pieta) Corea del Sud 2012 thriller 1h43’


Regia: Kim Ki-duk

Sceneggiatura: Kim Ki-duk

Fotografia: Cho Young-Jik

Montaggio: Kim Ki-duk

Musiche: Park In-Young

Scenografia: Lee Hyun-joo

Costumi: Ji Ji-Yeon


Lee Jung-jin: Lee Kang-do

Cho Min-soo: Jang Mi-seon

Gang Eun-jin: Myeong-ja, madre di Hun-cheol

Jo Jae-ryong: Tae-seung

Lee Myeong-ja: vecchia donna

Heo Jun-seok: Kang-cheol

Gwon Se-in: chitarrista

Song Mun-su: uomo caduto

Kim Beom-jun: uomo di Myeongdong

Son Jong-hak: boss

Jin Yong-ok: uomo sulla sedia a rotelle

Kim Seo-hyeon: vecchia donna

Yu Ha-bok: uomo del container


TRAMA: Lee Kang-do lavora per uno spietato strozzino. Il suo compito è quello di recuperare le somme dovute dai pagatori insolventi e per farlo ricorre a metodi più che violenti, dimostrando di non provare pietà per alcuno. Cresciuto senza famiglia e abituato alla solitudine, un giorno riceve la visita di una misteriosa donna di mezza età che gli rivela di essere sua madre. Nonostante non ricordi niente di lei, Kang-do con il passare dei giorni comincia a manifestare delle prime forme di affetto nei suoi confronti fino a quando non scopre il terribile e triste segreto che lei si porta appresso.


Voto 8

Lee Kang-do è un trentenne che fa ciò che faceva Rocky Balboa a inizi carriera e cioè l’esattore per conto di uno strozzino che presta danaro, o perlomeno fa desiderare danaro, principalmente agli artigiani della zona più povera della città, ma a un tasso di interesse insostenibile, che arriva perfino al 1.000 per cento. Ma la sostanziale differenza, oltre alla estrema crudeltà del feroce comportamento del giovanotto, è che se il famoso Rocky menava solo qualche sganassone intimidatorio, qui il coreano – un senza famiglia privo di ogni scrupolo, di cui non conosciamo amici o parenti, un giovane assolutamente solitario, che non vive che per la sua attività – è una macchina spietata che non disdegna alcuna forma di violenza: chi non paga (e non vediamo alcun artigiano in possesso di soldi per saldare, ma che sono disperati ogniqualvolta lo vedono arrivare in bottega) viene prima maltrattato e poi costretto a firmare una dichiarazione in cui cedono il diritto a riscuotere l’assicurazione infortunistica, in quanto la punizione prevista è la mutilazione di parti del corpo. Mani, gambe e così via, arrivando perfino a gettarli nel vuoto dall’ultimo piano di palazzi in costruzione. La sua è una negazione di vita in cui la legge del fine giustificato dai mezzi è lo scontato protocollo di ogni gesto, mentre la ferocia assassina con cui le “operazioni” vengono portate a termine è la sola modalità con cui si sa relazionare col resto del mondo. Non conosce altro modo di vita né di comportamento.

Il monotono e ripetitivo ruolino di marcia della sua irresponsabile e feroce azione procederebbe senza scossoni tra una mutilazione e l’altra e un suicidio concausato ad arte (come notiamo nella prima scena del film, dove un giovane in sedia a rotelle, ormai esausto, decide di impiccarsi mediante una catena legata all’argano che ha nel laboratorio) se all’improvviso non gli venisse a mettere i bastoni tra le ruote una misteriosa donna sconosciuta, del tutto estranea ai gironi infernali di reietti in cui la giovane canaglia si aggira di solito. Minuta (è quasi la metà di lui in un efficacissimo e voluto contrasto visivo) ma ancora piacente, molto bella e ben truccata, la donna si converte in pochi giorni in una specie di incubo privato seguendolo ovunque nelle sue missioni punitive e parandoglisi innanzi nei momenti più inattesi fino al giorno della rivelazione destinata a imprimere una svolta decisiva negli sviluppi del racconto: stando a quanto sostiene, sarebbe sua madre e sarebbe venuta a cercarlo per ottenere da lui il perdono per averlo abbandonato dopo averlo avuto giovanissima, momento nel quale non se l’era sentita di tenerlo.

Incapace di credere a una verità tanto gridata pur nel suo silenzio dimesso, il ragazzone mette alla prova la donna spingendola a forme estreme di verifica (ivi inclusi uno stupro obbrobrioso e umiliazioni psicofisiche da devianza mentale). Ma quando la dolcezza e la capacità di sopportazione hanno la meglio sul cuore nero dell’esattore spingendolo a una forma di conversione, ecco irrompere sulla scena la seconda parte del piano concepito dalla donna per rimettere le cose in pari ed ergersi a giudice supremo, come una giustizia divina. Lui non capisce la definizione che la donna dà al denaro, fulcro della sua attività, non è sufficientemente aperto per intuire che lei gli sta cominciando a spiegare la sua presenza. “I soldi? L’inizio e alla fine di tutte le cose. Amore, onore, rabbia, violenza, odio, gelosia. Vendetta. Morte.” Vendetta?” “Sì, vendetta.”.

Si comincia ad intuire così la presenza e l’agire della donna, che intanto è riuscita a compiere la prima metà del suo scopo: far avvertire allo spietato giovane il bisogno di un affetto familiare, specialmente quello di una mamma. La necessità della presenza materna e di un legame affettivo forte e irrinunciabile. E dello sconquassante dolore che si può provare con la perdita del caro quando, soprattutto, viene a mancare per un atto violento. Quando Kang-do si convince che quella persona è sincera ed è veramente sua madre, non sa farne più a meno, le si attacca come un vero figlio mentre la signora fa scattare la seconda e finale parte della sua opera. La rivelazione della sua vera natura e del motivo per cui ha inscenato un teatrino tanto efficace sono una sorpresa forse ancora più agghiacciante di tutta la ferocia messa in mostra fino a quel momento: piegato dalla pietà che la donna gli ha mostrato anche se sottoposta a ogni forma di vessazione fisica e morale, l’ormai ex esattore, folgorato sulla strada di Damasco e pronto a convertirsi da boia in buon samaritano, ormai pienamente in crisi e forse pentito per tutto ciò che ha commesso in quegli anni, viene stroncato da una trovata geniale della donna, che lo abbandona proprio nel momento in cui gli si è resa necessaria, condannandolo a quella stessa fragilità emotiva in cui versavano le sue vittime di un tempo e riuscendo a resistere alla pietà che alla fine non riesce a non provare vedendo il falso figlio piegato e piagato da quel che crede un sussulto di amore materno mai provato in vita e che invece è un piano perfetto di vendetta in tutti i suoi dettagli.

Film feroce e programmaticamente ripugnante dal punto di vista visivo in molti suoi momenti (al punto da costringere anche gli spettatori più navigati a non accettare ciò che viene mostrato), il film aggiunge un nuovo e diremmo quasi necessario capitolo al romanzo di critica sociale di Kim Ki-duk. Questa celebrazione dell’esagerazione (il denaro che domina ogni cosa e che porta gli umani a compiere azioni di crudeltà inaudita, prima fra tutte una donna che risana un balordo a colpi di pietà materna per poi colpirlo al cuore con quegli stessi strumenti che ha usato per ripulirne il cuore di tenebra) è la cifra più evidente di tutta la sceneggiatura, tesa a puntare ancora una volta il dito contro il potere mistificatorio dell’arricchimento forzato e le relative conseguenze. Dice Kim Ki-duk: “Questo mio film vuole mettere in discussione il processo che vede avidità denaro e successo distruggere la purezza, che instaura tra gli esseri umani solo relazioni basate sull'odio e porta il mondo contemporaneo, e anche me stesso, verso la distruzione.” Più esplicativo non poteva essere. Perché il film è in effetti spietato, come il protagonista. ammesso che tale poi sia proprio lui, perché Jang Mi-seon (la bellissima Cho Min-soo) assurge, man mano che la trama si sviluppa, a vera artefice dell’opera del regista sudcoreano, feroce e struggente assieme. Attrice che svolge questo ruolo in maniera straordinaria.

Come ci ha sempre abituato, le relazioni tra i protagonisti dei film di Kim Ki-duk sono spinte oltre il limite: ciò che il regista vuole mostrare è la caricatura di una realtà agghiacciante per farne risaltare tutte le fragilità. E questo film non fa eccezione. Quando Kang-do non vuole credere alla donna, le chiede più volte di mostrargli di dire la verità. All’inizio è solo una semplice domanda alla quale solo la vera madre potrebbe rispondere e si giunge fino allo stupro: ponendole una mano tra le gambe, le dice “Se sono uscito da qui, posso anche rientrarci. Fermami, se non sei mia madre”. Questo rapporto violento, contornato da epiteti che Kang-do attribuisce alla donna ben poco lusinghieri, a poco a poco si trasforma in un rapporto di dipendenza: l’uomo torna ad uno stato infantile e la sua vita diventa totalmente dipendente dalla donna. Da essere distruttivo, punitore e sadico, diventa in qualche modo tenero e decisamente più umano. Proteggere la madre e recuperare quell’infanzia che, in quanto orfano, non ha mai potuto vivere diventa la sua nuova ragione di vita. Per tutta la durata del film, a partire dal momento in cui la donna fa la sua comparsa, non possiamo che chiederci: perché è tornata? È solo un bisogno affettivo da madre? I minuti finali daranno risposta a questo quesito.

Nonostante il titolo, di pietà non ce n’è quindi per nessuno.


Riconoscimenti

2012 - Festival di Venezia

Leone d’Oro



 
 
 

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