La terra dell'abbastanza (2018)
- michemar

- 15 feb 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 18 feb 2020

La terra dell'abbastanza
Italia 2018 noir 1h35’
Regia: Fabio & Damiano D'Innocenzo
Sceneggiatura: Fabio & Damiano D'Innocenzo
Fotografia: Paolo Carnera
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Toni Bruna
Scenografia: Paolo Bonfini
Costumi: Massimo Cantini Parrini
Andrea Carpenzano: Manolo
Matteo Olivetti: Mirko
Milena Mancini: Alessia
Max Tortora: Danilo
Giordano De Plano: Simone
Michela De Rossi: Ambra
Walter Toschi: Carmine
Luca Zingaretti: Angelo
Yan Lovga: il Principe
TRAMA: Mirko e Manolo sono due giovani amici della periferia di Roma. Sono due bravi ragazzi fino al momento in cui, guidando a tarda notte, investono un uomo e decidono di scappare. La tragedia si trasforma in un apparente colpo di fortuna: l'uomo che hanno ucciso è un pentito di un clan criminale di zona e facendolo fuori i due ragazzi si sono guadagnati un ruolo, rispetto e il denaro che non hanno mai avuto. Il loro è un biglietto d'entrata per l'inferno che scambiano per un lasciapassare verso il paradiso.
Voto 7

Ancora un film di autori nuovi e giovani (i fratelli D’Innocenzo) sulla periferia italiana, così ricca di spunti letterari e cinematografici. Ancora una storia maledetta sui giovani che tirano a campare in zone del Paese dove non ci sono occasioni di lavoro o meglio ancora è più facile arricchirsi con attività illecite. Ma come cominciare? Come cogliere l’occasione giusta per entrare nel giro della mala locale? A volte può succedere per un episodio imprevisto, che è ciò che succede a Manolo e Mirko, quando involontariamente investono con l’auto e uccidono un pentito “infame”: magari è questo il pretesto per presentarsi davanti al boss e farsi vanto dell’accaduto. I due intravedono allora una possibilità e decidono di farsi avanti con l’organizzazione, rivendicando l’uccisione, nella speranza di entrare a farne parte. Per loro è l’occasione d’oro per “la svorta” della vita, “finalmente è ‘na carta per svorta!” dice Danilo, il padre di Manolo.

I due registi esordienti seguono il percorso drammaturgico di Mirko e Manolo che non è prevedibile ma è estremamente chiaro. Hanno ucciso per sbaglio, non sanno come espiare il senso di colpa, e non appena colgono uno spiraglio per poter mentire a se stessi, cominciano a ripetersi di aver ucciso in realtà per scelta. Per loro tale convinzione diventa un mantra che li spinge a sforzarsi di essere ciò che non sono. Agli occhi degli altri, però, possono sembrare anaffettivi come killer a sangue freddo, persone senza emozioni, e ai registi interessava questo doppio binario: l’evoluzione psicologica dei due ragazzi e la percezione dall’esterno.
I gemelli Fabio e Damiano D'Innocenzo sono cresciuti nelle periferie e le conoscono bene, le considerano come luoghi dell’anima, come ammettono: sono nati nel 1988 nella frazione di Tor Bella Monaca, ma sono cresciuti tra Anzio, Nettuno e Lavinio seguendo il padre pescatore e si sono fatti prima notare al Festival di Berlino 2018, dove la pellicola è stata presentata nella sezione Panorama, poi ai Nastri d’Argento, dove sono stati premiati come migliori registi esordienti. Nel cast troviamo due giovani e bravissimi attori, ovvero Andrea Carpenzano (attore in forte evidenza nel panorama italiano: Il permesso - 48 ore fuori [recensione], Tutto quello che vuoi [recensione], Il campione [recensione]) e Matteo Olivetti (che tra i due ho apprezzato maggiormente per la notevole forza che ha dato al personaggio), affiancati da due veterani come Max Tortora e Luca Zingaretti e se il secondo lo conosciamo benissimo, è Tortora che si rivela ottimo interprete anche nel drammatico, una vera potente sorpresa.

La location scelta è fortemente appropriata e fa da efficace sfondo al noir. È Ponte di Nona, periferia est della capitale, luogo che i registi hanno definito pieno di scorci molto strani, quasi fiabeschi, che provoca l’effetto di contrappunto tra il degrado e l’onirico. Sono stati bravissimi come cineasti esperti pur se all’esordio, con un talento naturale nelle inquadrature in primo piano e campi lunghi, restando molto stretti sui personaggi, ma a volte allargando il campo per sfruttare i paesaggi da grande distanza. “Volevamo evitare le inquadrature medie, da intermezzo, e preferivamo un approccio più sgangherato, da western metropolitano.” A proposito della loro sceneggiatura, che lavora molto sull’ellissi, hanno il candore di affermare: “L’abbiamo scritta sei anni fa, da autodidatti, senza una formazione accademica o corsi di scrittura. Non avevamo una scaletta o una suddivisione in atti, ma una visione d’insieme che ci faceva avanzare di scena in scena. Rileggendolo adesso possiamo però dire di aver composto un testo estremamente ponderato e calibrato. Forse perché per noi si trattava di una storia talmente personale, quasi archetipica, che i pezzi andavano a posto da soli. Una sorta di fatalismo della scrittura; come se molte cose, riflettendoci ora che abbiamo acquisito più esperienza, ci venissero inconsciamente.”

Ma la loro bravura non si ferma qui, perché la gestione e la direzione dei due protagonisti è stata davvero sorprendente. Gli interpreti protagonisti paiono davvero perfetti per i due ruoli, anche se nessuno dei due pare provenga da ambienti di periferia e quindi hanno dovuto spingersi agli opposti dei loro caratteri. Andrea Carpenzano lavora di sottrazione perché il suo personaggio è abituato a dissimulare, a nascondere al padre la sua vera natura; Matteo Olivetti, che a sentire i registi ha invece un carattere più esplosivo e sanguigno, ha dovuto trovare il modo di far emergere sia la sua emotività sia il suo difficile autocontrollo, motivo per cui, come scrivevo prima, mi è piaciuto moltissimo. Da ammirare diverse sequenze, come per esempio i primissimi piano sul viso e la mano di Manolo quando osserva e maneggia la pistola come oggetto di potenza e realizzazione di vita, come promessa del futuro, infilata in una ciabatta a mo’ di fondina o il sorprendente infinito diverbio tra Mirko e la madre. Ma è ragguardevole proprio il loro modo di mettere a fuoco ciò che intendono porre in evidenza: la macchina da presa a mano è sempre vicina ai visi dei personaggi, sempre a pochi centimetri come per esplorare ogni minima sensazione, per farci cogliere ogni reazione emotiva e caratteriale, salvo poi allargare in piani profondi per indicarci l’ambiente in cui si svolgono i fatti. È così che scopriamo come Manolo e Mirko si sentono più importanti da quando sono stati assoldati dai boss e si illudono di avere almeno una minima parte nella banda, non accorgendosi mai di essere solo dei piccoli e insignificanti operai di manovalanza mandati al massacro. Come li definiscono i loro capi nel pranzo a cui hanno preso parte? “Cip e Ciop, so’ du cani sciolti, so’ du’ matti, questi non c’hanno la consapevolezza di quello che fanno”, che anche se vengono eliminati dai loro rivali nessuno se ne accorgerà mai. Parole pronunciate proprio quando vengono inquadrati due kebab appesi al soffitto, come a esplicitare la fine che li attende. I colori forti, che tendono al giallissimo, accentuano il colpo d’occhio, il buio della notte, quando avvengono molti fattacci, aumentano il noir: scelte oculate dei registi che aumentano la tensione che va e viene.

Molto interessante è dal punto di vista psicologico il cambiamento e l’adeguamento dei caratteri dei due protagonisti: Manolo reprime le reazioni intime schermandosi dietro un sorrisetto nervoso, credendosi tra l’altro un buon sicario in ascesa, mentre la sofferenza maggiore la vive Mirko, sia litigando continuamente con la mamma, verso cui invece era sempre stato premuroso e affettuoso, che con il resto dell’ambiente, scaricando l’adrenalina perfino sulla sua ragazza. I suoi occhi spiritati, le violente reazioni alle minime discussioni non potranno mai essere un buon viatico per le spedizioni a cui vengono chiamati. Il finale è fortemente inaspettato ma nello stesso tempo inevitabile e l’epilogo li condurrà verso due opposti destini, seppur uguali come risultato. La mesta scena finale fa incontrare due personaggi che non si frequentavano mai: Alessia, la madre di Mirko, e Danilo. I loro sono visi rassegnati che cercano consolazione e confluiscono in un invito desolante che racchiude la vita che li attende: “Che fai da magna’?” “Quello che c’è!”

Il film, come ambientazione e atmosfera, ricorda parecchio il garroniano Dogman (recensione), con la stessa gente sbandata,i passatempisti fannulloni, il vuoto sociale: è la terra dove manca tutto e quello che c'è deve bastare, deve riempire l'esistenza e, in un modo o nell'altro, la vita quotidiana. È la terra dell'abbastanza e deve bastare a sufficienza.
Un lavoro da veri esperti nonostante la giovane età, una piacevole sorpresa nel nuovo cinema italiano: è il frutto naturale di due gemelli in piena sintonia che daranno grandi soddisfazioni nel futuro.






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