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La vita davanti a sé (2020)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 26 mar 2021
  • Tempo di lettura: 6 min

La vita davanti a sé

Italia 2020 dramma 1h34’


Regia: Edoardo Ponti

Soggetto: Romain Gary (romanzo)

Sceneggiatura: Ugo Chiti, Edoardo Ponti, Fabio Natale

Fotografia: Angus Hudson

Montaggio: Jacopo Quadri, Nicolò Tettamanti

Musiche: Gabriel Yared

Scenografia: Maurizio Sabatini

Costumi: Ursula Patzak


Sophia Loren: Madame Rosa

Ibrahima Gueye: Momò

Renato Carpentieri: dottor Cohen

Diego Iosif Pirvu: Joseph

Massimiliano Rossi: spacciatore

Abril Zamora: Lola

Babak Karimi: Hamil


TRAMA: Madame Rosa, un'anziana ebrea ed ex prostituta, seppur riluttante, accetta di prendersi cura di Momò, un turbolento dodicenne di strada di origini senegalesi. I due sono diversi in tutto e per tale ragione all'inizio il loro rapporto è molto conflittuale, ma inaspettatamente la loro relazione si trasformerà in una profonda amicizia. Si renderanno infatti ben presto conto di essere anime affini, legate da un destino comune.


Voto 6 -

La retorica, se usata con saggezza, si avverte in tono minore e non rovina nel complesso l’opera che si vuole realizzare. Nello specifico, il cinema deve stare sempre attento e quando si eccede con la dose di questo aspetto avvertiamo subito un certo fastidio, a volte persino senza intuire subito che deriva proprio dal tono retorico e dall’abuso di enfasi drammatica per esaltare alcune sequenze o l’intera pellicola. Il film di Edoardo Ponti ha persino puntato sulla retorica della tolleranza e dell’inclusione, sentimenti nobili che andrebbero premiati ed esaltati ogni giorno della nostra vita ma che se vengono banalizzati vuol dire che lo scopo viene completamente mancato.

La trama del film si ispira ad un celebre romanzo omonimo di Romain Gary, già portato sul grande schermo col film del 1977 con il medesimo titolo da Moshé Mizrahi (regista israeliano) addirittura vincitore del Premio Oscar come miglior film straniero con Simone Signoret come protagonista. La storia è quella di Madame Rosa (Sophia Loren), un'anziana ex prostituta ebrea che nel suo appartamento di Bari (curiosamente nel film si parla con accento napoletano ma si svolge in Puglia) si prende cura dei figli delle immigrate clandestine che si vendono per strada. Con riluttanza, Rosa accetta di farsi carico di un rissoso preadolescente senegalese musulmano di nome Momò (Ibrahima Gueye), affidatole, come in altre occasioni, dal caritatevole dottor Choen (coèn, in gergo napoletano). Con un approccio molto difficoltoso, sia perché lei che non vuole un altro ragazzino in casa, sia perché Momò è tanto ribelle che rifiuta ogni approccio di accoglienza da parte della anziana signora. È un incontro che porta solo, almeno al principio, una prima relazione tesa ed esplosiva che in seguito, man mano che ci si avvicina al finale, si trasforma in un'inattesa e sentita amicizia se non di vera figliolanza. Rosa e Momò sono due persone profondamente diverse per cultura, razza, religione e generazione e tuttavia scoprono di avere delle affinità. Ponti si affida (ahimè) ad inquadrature simboliche che però sanno di facile e retorico, come per esempio le mani bianchissime di Rosa e quelle nerissime del ragazzino le cui dita intrecciate sembrano il manifesto di una réclame a favore dell’uguaglianza della fratellanza e dell’antirazzismo. Un primo piano che potrebbe valere l’interruzione anticipata del film.

Come prevedibile, i sentimenti che muteranno e che porteranno al forte legame della signora verso il piccolo immigrato e viceversa, alla pari con quelli verso gli altri bambini, saranno il fulcro della narrazione, fino ad arrivare al lacrimevole finale e alla conclusione dell’abbracciamoci tutti nel cimitero ebraico. Con un grave particolare: Edoardo Ponti si dimentica di raccontarci la maturazione di quei sentimenti, di mostrarci la progressiva mutazione del rapporto tra le persone, la lenta ma sentita maturazione che cresce nello scontroso e immalinconito piccolo ex ragazzo di strada. Il film doveva centrare quel cambiamento e accompagnarci nel percorso mentale e affettivo di Momò. Invece ci troviamo davanti al fatto compiuto, ad un tratto e senza essersene resi conto. Era quel passaggio emozionale che andava raccontato e mostrato con cuore e scrittura ed invece siamo davanti alla nuova situazione dopo aver percorso solo qualche metro del cambiamento affettivo. Arriva però il giorno in cui l’ultimo ospite della casa (accoglienza) di Madame Rosa, dopo aver visto portare via il suo compagno di stanza riaccolto dalla mamma, il piccolissimo bimbo partito con la mamma trans per la Spagna, la padrona di casa ricoverata in ospedale per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, si accorge che proprio adesso, che ha accettato e goduto la nuova vita familiare-affettiva e che ha rifiutato i facili guadagni dello spaccio, sta restando di nuovo solo: come dopo aver assaggiato un dolce devi tornare a nutrirti con il pane secco. Ora è durissima e avverte l’assenza di quella donna, fintamente severa, che elargisce amore e protezione morale a ragazzi affamati di sicurezza e affetto. Inevitabile il colpo di testa mosso da una promessa e dalla voglia di preservare la persona che è divenuta la mamma che non ha e che rimpiange. L’adolescente duro, litigioso, sprezzante, spericolato è pronto per il salto di qualità del suo carattere e del porsi verso le persone che lo capiscono, aiutano e proteggono dalle insidie della strada. Lui ha conosciuto una donna magnifica, un dottore che si preoccupa veramente dei bisognosi (non solo di cure) e Hamil, un piccolo commerciante venuto dal Medioriente che ha sempre una parola buona per ogni sua marachella, anche gravemente offensiva. Per strada c’è il guadagno facile e il pericolo, nelle amicizie giuste si trovano le braccia aperte di chi sa sorridere.

Un film quindi che fa un salto tra due stati d’animo differenti senza mostrarne il percorso, senza inquadrare lo sguardo che muta: da due occhi sospettosi, stretti e sfuggenti, a quelli aperti per capire meglio, lucidi di commozione e colmi di bene ricevuto, con la consapevolezza di poterlo/doverlo ricambiare. Perché Edoardo Ponti lo salta? Perché è troppo intento a regalare alla famosa madre/diva l’inquadratura giusta e l’esaltazione di un’attrice ahimè sul viale della vecchiaia. È l’amore di un figlio che celebra la mamma che non ha più l’appeal della giovinezza straripante che riempiva lo schermo, che inondava le storie di De Sica di esuberanza tutta partenopea, che rideva, urlava e piangeva come seppe fare con il matrimonio con un uomo benestante nonostante tre figli avuti da chissà chi. Sophia Loren (con il nome scritto in quella maniera è sempre stato superfluo il cognome) non è la solita che conosciamo, il tempo passa inesorabile e l’andatura è quella di un’anziana. Lei non ha avuto bisogno di una regia (il Ponti non è un’aquila di cineasta), è andata con il pilota automatico e il figlio non si sarà mai sognato di suggerirle questo o quello; lei sa come si recita e lo ha fatto come sa e come può oggi, dando cuore e anima al suo personaggio. Il piccolo Ibrahima Gueye è un tipino sveglio, ha sicuramente imparato alla svelta cosa gli veniva detto di fare, ma non è il solito ragazzino che (come ho sempre scritto) fa fare brutta figura agli adulti: è evidentemente forzato nelle espressioni reattive e recita come da copione, con manca assoluta di spontaneità. Per fortuna sul set si aggirano anche due attori che fanno dell’umanità la loro cifra stilistica: Renato Carpentieri è uno degli attori anziani che commuovono ogni volta che compaiono sullo schermo, anche se stavolta l’ho visto pure lui vittima di una regia non brillante; l’altro è Babak Karimi, ormai italianizzato a tutti gli effetti: è l’attore iraniano che tutti cercano in Italia e in patria per come è bravo e naturale nella interpretazione dei personaggi a cavallo tra occidente e oriente. Che bravi! La sorpresa è piuttosto Abril Zamora, un’attrice transgender spagnola che svolge molto bene il suo ruolo, perfetto per le sue capacità e scelte sessuali, trovando quindi una buona occasione per la sua carriera, anche perché il film è presto diventato famoso per le candidature ai premi più importanti in campo internazionale, compreso la canzone dei titoli di coda, Io sì, di Laura Pausini (che non è assolutamente il mio genere, buona fortuna per l’Oscar, dopo il Golden Globe).


Ma perché riproporre oggi sullo schermo il romanzo di Romain Gary? Edoardo Ponti: “Mi ha sempre colpito e commosso la storia d’amicizia e d’amore tra Momò e Madame Rosa, due anime che tutto e niente separano. Sono diversi per generazione, cultura, religione, etnia, però entrambi sono dei sopravvissuti: lei a una guerra vera e propria, ai campi di concentramento, lui a una guerra più personale e quotidiana. Sentivo che era una storia che si adattava molto bene al mondo di oggi, dove tutti siamo sempre più separati dai confini reali, ma anche da quelli virtuali. È un libro molto difficile da adattare per tante ragioni. Mi premeva soprattutto sviluppare in modo coerente la relazione tra Momò e Madame Rosa nell’arco di tempo consentito da un film. La scelta a monte è stata quella di concentrarsi in particolare su questo, che per me e Ugo Chiti (il co-sceneggiatore) era il cuore del film, da rendere nei momenti e negli sguardi tra loro, nei non detti tra le righe del romanzo.” Bari come ambientazione: “Cercavo un luogo che fosse un incrocio di culture, di colori, di bellezze, e l’abbiamo trovato in Puglia, a Bari, e anche a Trani, dove c’è questa luce incredibile, quasi rosa, che ha contribuito a dare un tocco fiabesco, che c’è anche nelle pagine di Gary, in cui il tono terra terra convive con la poesia.


Io resto convinto della mia semi-delusione e trovo la sufficienza un traguardo non pienamente raggiunto.



 
 
 

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Il Cinema secondo me,

michemar

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