Riabbracciare Parigi (2022)
- michemar

- 2 giorni fa
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Riabbracciare Parigi
(Revoir Paris) Francia 2022 dramma 1h45’
Regia: Alice Winocour
Sceneggiatura: Alice Winocour, Jean-Stéphane Bron, Marcia Romano
Fotografia: Stéphane Fontaine
Montaggio: Julien Lacheray
Musiche: Anna von Hausswolff
Scenografia: Margaux Remaury, Florian Sanson
Costumi: Caroline Spieth
Virginie Efira: Mia
Benoît Magimel: Thomas
Grégoire Colin: Vincent
Maya Sansa: Sara
Amadou Mbow: Assane
Nastya Golubeva Carax: Félicia
Anne-Lise Heimburger: Camille
Sokem Ringuet: Hakim
Sofia Lesaffre: Nour
TRAMA: Sopravvissuta a un attentato, Mia cerca di ripartire riavvolgendo il nastro dei tragici momenti vissuti.
VOTO 6,5

Nel cuore di una Parigi scossa dall’orrore degli attentati del 13 novembre 2015, il film segue il percorso intimo di Mia, una donna che sopravvive ad un attacco terroristico in una brasserie ma resta prigioniera di un vuoto interiore. La memoria, per lei, non è più lineare né affidabile: solo frammenti, flash, suoni. Per cercare di tornare a vivere, deve prima capire cosa è successo davvero quella notte. Non solo fuori da sé, ma dentro.

All’origine del soggetto del film c’è una ferita personale: Jérémie, fratello della regista Alice Winocour, era presente al Bataclan durante gli attacchi ed è sopravvissuto. Il film è dedicato a lui e l’omaggio, infatti, appare nell’ultima immagine con la scritta “A Jérémie”. Quella sera, la cineasta racconta di aver anche comunicato con lui tramite SMS ma lui la pregò di non scrivergli “perché il luogo era stato assalito da terroristi”. La regista ha poi arricchito la sceneggiatura con i ricordi di lui di quella notte e ha incontrato psichiatri e vittime per approfondire meglio la sceneggiatura.

Ma cos’era accaduto in particolare di tanto tragico nella vita della protagonista la sera della serie degli attacchi terroristici di matrice islamista? L’inizio della pellicola ci introduce nella tragedia dopo solo qualche minuto di vita ordinaria. A Parigi, Mia (Virginie Efira) lavora come interprete di russo presso una emittente televisiva mentre il compagno Vincent (Grégoire Colin) è a capo di un dipartimento dell’ospedale. Una sera, in un ristorante con lui, il pasto viene interrotto da una chiamata che lui definisce di emergenza e la donna si ritrova sola. Sulla via di casa in moto, mezzo su cui si sposta sempre, la sorprende un forte temporale, motivo per cui si rifugia in un bistrot, L’Étoile d’or. Sedutasi ad un tavolo da sola ordina da bere ma solo pochi istanti dopo il destino cambia la sua esistenza: l’affollato locale viene attaccato da terroristi che mitragliano i clienti prendendo di mira tutto ciò che si muove. Lei, ferita, si nasconde, almeno secondo la sua soggettiva, sotto un tavolo.

Traumatizzata, trascorre alcuni mesi in campagna a casa della madre mentre una ferita all’addome sta guarendo. Desiderosa di riprendersi e capire cosa è successo, dal momento che il trauma vissuto le ha cancellato quasi totalmente i ricordi dell’evento, decide di tornare alla casa con cui vive con il partner a Parigi. Non riuscendo a ricordare la maggior parte di quello che le era successo, bloccata mentalmente, fortemente limitata a riprendere la vita di prima, decide di tornare sui suoi passi: per ricostruire la memoria, vuole rivedere quel ristorante, osservare la sala, rivivere quei momenti per cercare di ricordare. È un vuoto mentale quello che la tortura ed allora vuole indagare, vuole incontrare i camerieri, magari la gente che era sopravvissuta e difatti scopre che molti di quelli si recano appositamente nel luogo per incontrarsi e riunirsi in una sorta di gruppo di auto-aiuto per parlare di sé o dei cari che hanno perso in quella maledetta notte. Il gruppo è organizzato e facilitato da Sara (Maya Sansa) che la introduce e fa conoscere gli altri, tra cui una donna che, appena la vede, la insulta accusandola di essersi barricata quella sera nel bagno del ristorante e di non aver fatto entrare nessuno che voleva salvarsi. Mia è spaventata per le offese, anche perché – pur ricordando poco – esclude assolutamente che la donna in questione fosse lei e scappa via, incontrando fuori uno dei miracolati, Thomas (Benoît Magimel), duramente colpito nel fisico (una gamba maciullata dai proiettili) ma perfettamente lucido nei ricordi, tanto da riferirle che l’aveva notata e che voleva invitarla al suo tavolo dove festeggiava il compleanno in compagnia. Lui è sicuramente la persona che può aiutarla a ricomporre la memoria e riempire i tasselli vuoti. Da qui un percorso difficile che condizionerà il resto della vita anche con decisioni importanti.

Il film, si badi bene, non racconta l’attacco terroristico, non è questo che interessa alla Winocour: racconta cosa succede dopo. Intanto il vuoto, la rabbia, la confusione, e soprattutto la ricerca di contatto umano, unico possibile argine alla dissoluzione. Per questo l’incontro con Thomas diventa essenziale. In primo luogo, il film indaga sulle conseguenze fisiche e soprattutto psicologiche delle vittime ferite nell’anima e nel corpo: ogni storia è una storia a sé, ogni persona è differente, ma quasi tutti dicono le medesime cose, le testimonianze, cioè, sono tutte diverse e tutte uguali. Ad osservarli pare che ognuno pensi che il suo sia un caso speciale che richiede più attenzione e ciò è umanamente comprensibile e merita attenzione e cura. Basta guardare il viso di Mia, così tanto espressivo seppur trattenuto per non voler eccedere nel drammatico. È piuttosto il dolore di non ricordare quello che la ferisce più di ogni altro: sprazzi di memoria che ogni tanto vengono fuori. Per esempio (particolare che diventa preponderante sempre più) il ritorno alla mente come un flash buio di uno sgabuzzino ed un giovane di colore che le tiene la mano e la incoraggia a non cedere, lui in primis, che ne ha viste di ogni colore e pericolo per poter giungere lì dall’Africa e che ora non può finire così brutalmente. Chi è quel giovane immigrato? Ah, se lo trovasse!

E poi: cosa accadde esattamente? È vero che lei si sia chiusa a chiave in bagno senza aiutare altre persone? Non lo avrebbe mai fatto, eppure quella donna l’accusa violentemente mettendola in difficoltà. E se fosse vero? Perché si sarebbe comportata in quella maniera? Forse per paura, sotto stress non se ne era resa conto? Come fare a scoprirlo è un problema che non sa risolvere. La sua mente è buia come lo schermo del film che ogni tanto diventa nero, interrompendo il decorso della trama alla ricerca dei lampi di immagini a frammenti, stante l’impossibilità di vedere per intero il quadro.

Un altro argomento che affronta il film riguarda le conseguenze sui legami preesistenti che intanto sono cambiati. Mia vive da anni con Vincent e paiono in sintonia ma dopo i fatti lei è distante, trascinata via dal suo problema personale ed il rapporto si romperà del tutto per una spiacevole scoperta, di cui lei forse già dubitava sin dalla sera del 13 novembre. Ma i cambiamenti anche più traumatici nella vita privata, in questo caso, diventano solo collaterali perché ciò che conta per questo tipo di vittime è il duro cammino per tornare, non senza fatica, alla propria vita. Anzi, a una nuova, se necessario. E per Mia lo sarà.
Poi ancora il film tocca, e non solo di striscio, l’esistenza dei sans papier, degli immigrati irregolari che giungono in Francia, come altrove, alla ricerca di una vita migliore, e sono vittime anch’essi. Pagano carissimo il viaggio sui barchini, ammesso che trovino lavoro vengono pagati in nero e sfruttati, scappano ad ogni controllo della polizia, vanno altrove e magari ritornano alla città dove sperano in meglio. Ma come dice un detto metropolitano “Se a Parigi i senegalesi, i maliani e gli cingalesi scioperassero, non potremmo più mangiare”. Il film passa anche da loro, dato che inizia ad affiorare nella mente di Mia l’immagine di una persona che l’ha tenuta per mano e rassicurata mentre era nascosta temendo di morire. Un uomo di colore, un cuoco, di cui si sono perse le tracce nonostante le ricerche complicate. E che lei - adesso lo avverte - deve assolutamente ritrovare per ricostruire i ricordi e soprattutto per dimostrare alla signora quanto l’accusa fosse infondata, che non è stata vigliacca egoista.

Alice Winocour realizza la sua opera forse più potente e compiuta, la più drammatica, la più complessa, perché è quella che prima di tutto riapre la ferita di ciò che per la Francia corrisponde all’11 settembre 2001 americano, poi perché deve percorrere i meandri sconosciuti della psicologia del dolore. Così facendo e guidando la protagonista verso una sperata rinascita, anche sentimentale, diventa un’opera che apre anche la strada verso una scandalosa possibilità di ricavare positività da un fatto terribilmente tragico. Non è un’operazione semplice e il pericolo di eccedere o di minimizzare è un tranello in cui è facile cadere ma anche con il prezioso lavoro di recitazione della sempre brava Virginie Efira si può dire che si è concluso bene risultando anche coinvolgente. Anche nella trasformazione di un fatto personale, come quello di Mia, che da intimo si universalizza e diventa un fatto sociale.

Dove è mancato un po’ di cura sono piuttosto alcuni passaggi della sceneggiatura. A prescindere dagli schemi soliti e sfruttati del compagno di vita che tradisce ma che nel frattempo non molla la partner, dell’amore che nasce tra compagni di sventura (sull’onda del dolore condiviso), della presenza dell’”uomo nero” che non è cattivo, anzi è la migliore persona che sia in giro, non tutti i dialoghi sono perfetti e alcuni risultano frettolosi: la donna che accusa compare all’improvviso e termina nel peggiore dei modi, sicuramente per giustificare uno dei tanti danni psicologici di questo dramma. Ma più in generale, pur riconoscendo la forza del tema e l’intensità dell’interpretazione dell’attrice protagonista, è innegabile come la struttura narrativa tenda a ripetersi e a rimanere troppo astratta, con un eccesso di frammenti onirici che rischiano di indebolire la tensione drammatica; oppure che non riesce sempre a dare profondità ai personaggi secondari, lasciando la protagonista quasi isolata in un percorso interiore che appare talvolta schematico. Ed infine ci sono momenti in cui il film è più evocativo che incisivo e la scrittura preferisce atmosfere e suggestioni piuttosto che un vero sviluppo narrativo.

La rinascita è però la ricompensa più bella che ci si può attendere, e quindi le sequenze finali in cui avviene il tanto sospirato ritrovamento (con il giovane Assane), il dialogo amichevole se non proprio affettuoso, l’immancabile e atteso abbraccio di ringraziamento, il sorriso che lei gli dedica attraversando il traffico parigino, il ritorno alla vita. Anzi, alla nuova vita. Perché il titolo originale è Rivedere Parigi, quindi tornare a vederla con occhi e mente guariti, a viverla di nuovo.
Cosa rimane del film, oltre la tragedia della inopinata violenza? Le lacrime della ragazza con non trova pace per la perdita dei genitori con cui aveva litigato la mattina. La difficoltà di una persona nel buio della mente, come uno che vuol parlare ma non conosce le parole perché un trauma le ha fatte dimenticare. E in ciò Virginie Efirà è stata splendida: a volte prende fiato per dire qualcosa e poi non proferisce parola, tanto da essere indotta a scegliere di vivere da sola per capire meglio. Brava Efira!

Riconoscimenti
César 2023
Miglior attrice Virginie Efira
Magritte 2023
Miglior attrice Virginie Efira













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