Se la strada potesse parlare (2018)
- michemar

- 10 mag 2019
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 14 giu 2023

Se la strada potesse parlare
(If Beale Street Could Talk) USA 2018 dramma 1h59’
Regia: Barry Jenkins
Soggetto: James Baldwin (romanzo)
Sceneggiatura: Barry Jenkins
Fotografia: James Laxton
Montaggio: Joi McMillon, Nat Sanders
Musiche: Nicholas Britell
Scenografia: Mark Friedberg
Costumi: Caroline Eselin
KiKi Layne: Clementine "Tish" Rivers
Stephan James: Alonzo "Fonny" Hunt
Regina King: Sharon Rivers
Teyonah Paris: Ernestine Rivers
Colman Domingo: Joseph Rivers
Brian Tyree Henry: Daniel Carty
Ed Skrein: agente Bell
Emily Rios: Victoria Rogers
Michael Beach: Frank Hunt
Aunjanue Ellis: sig.ra Hunt
Diego Luna: Pedrocito
Finn Wittrock: Hayward
TRAMA: Tish, una giovane donna di Harlem, si innamora di Fonny. La loro relazione sembra andare per il verso giusto fino al giorno in cui Fonny viene arrestato con l'accusa di aver violentato una donna. Incinta, Tish intraprenderà una dura corsa contro in tempo per provare l'innocenza di Fonny prima che il loro figlio venga al mondo.
Voto 6

Chi può urlare, vantare, elogiare, raccontare in diverse forme la “negritudine” meglio di un artista black? Lo fa con il suo mestiere, per esempio, Barry Jenkins, che con due lungometraggi prova ad affrontare con mano, ora leggera ora angosciante ma sempre drammatica, la difficoltà ancora oggi esistente ed evidente di essere nero e vivere da nero. In aggiunta, nel suo esordio premiato agli Oscar, vi aggiunse la condizione non sempre accettata dalla società di essere anche omosessuale. Lui è nero e conosce bene le condizioni in cui vive oggi, nonostante la presidenza di Obama, un afroamericano e le difficoltà che incontra nella vita quotidiana: sul lavoro, nei locali pubblici e nelle strade. Ecco, nelle strade appunto, e se le strade potessero raccontare ciò che succede e come vengono tante volte trattate le persone di colore si potrebbe restare spaventati e inorriditi.

Dopo quel meraviglioso film d’esordio, Moonlight (recensione), meraviglioso almeno per i primi due terzi, il regista di Miami si interessa ad un bel romanzo di James Baldwin, uno scrittore anch’egli afroamericano che visse dal 1924 al 1987, in cui si racconta di una giovane coppia di ragazzi, Tish e Fonny, innamoratissimi ma maltrattati per via del colore della pelle. Passa quindi da un lungo racconto di formazione ad una difficile situazione di ingiustizia penale nata prima da un abuso di potere di uno dei tanti poliziotti razzisti che vigilano nelle strade di Harlem, poi dall’impotenza di potersi difendere in maniera equa davanti al tribunale. Barry Jenkins basa in buona sostanza il suo lavoro su due piani: quello affettivo, quando ci racconta dell’amore tra i due giovani e le complicazioni pratiche per trovare una casa e mettere su famiglia, e quello dei soprusi che quella gente deve quotidianamente subire a causa del colore della pelle. Nasce così un contrasto stridente tra le sequenze sentimentali della giovane coppia e la violenza che regna nella strada, tra i momenti di estrema dolcezza con cui i due si guardano e dichiarano il loro amore e la semplicità con cui affrontano i pericoli all’aperto, dove l’innocenza di un nero è più difficile da dimostrare rispetto ad un bianco, dove il poliziotto mal sopporta la fierezza dello sguardo di Fonny. Il film diventa così una critica verso il governo e le conseguenze di certe politiche sulla vita di tutti i giorni dei neri.

Racconta infatti lo stesso regista che ha puntato il suo obiettivo sul “fatto che sia a due voci - una molto sensuale e romantica e un’altra molto arrabbiata - e che entrambe siano ugualmente appassionate” trasformando il romanzo di Baldwin in un racconto visivo. “Per me questo film e Moonlight viaggiano mano nella mano, nella rappresentazione della vita dei neri d’America, delle loro famiglie, delle madri che cercano di crescere i propri figli. Cosa sarebbe successo se Regina King fosse stata la madre di Chiron in Moonlight e Naomie Harris la madre di Tish in Se la strada potesse parlare? Tish ce l’avrebbe fatta? Dovevo completare il dittico, che per me tratta di “natura vs cultura”, per darmi una risposta. Avere questo progetto mi ha anche salvato dalle aspettative del dopo Oscar.” Un racconto visivo, dice, e in effetti questo intento ad un certo punto diventa, secondo il mio parere, un po’ la palla al piede, in quanto le lente sequenze che indugiano lungamente sugli sguardi innamorati, sulle occhiate molto espressive della bellissima Kiki Layne / Tish e quelle altrettanto amorevoli di Stephan James / Fonny, diventano alla distanza troppo pervasive ai fini della scorrevolezza del racconto, si rivelano un dilungarsi eccessivo che se nelle intenzioni era quello del contrasto con la strada cattiva pesano non poco sulla fluidità della trama.

L’aspetto intermedio tra i due citati dall’autore è la presenza e il forte incoraggiamento da parte della madre di lei, Sharon, che non abbandonerà mai la figlia e il giovane al destino dell’ingiustizia anche sociale della storia e farà tutto il possibile, sacrificando ogni risorsa, per poter dare conforto e sostegno a quella famiglia che fa fatica a nascere, ma soprattutto a dare una mano concreta sia al processo giudiziario che salverebbe Fonny, sia alla nascita del piccolo in arrivo. Come infatti dice il giovane proprietario del loft che i due giovani vogliono affittare: “I’m just my mother’s son”, “Sono solo il figlio di mia madre”. Qui infatti si parla anche di genitorialità e figliolanza, di amore paterno e materno, di quando c’è e si avverte e di quando è solo apparente e malato, perché permeato da una fede religiosa stucchevole e senza vero affetto.

Si avverte, guardando il film, che Barry Jenkins ce la mette tutta e le sue intenzioni sono ottime ma il risultato non è altrettanto apprezzabile, purtroppo. Il continuo e lungo soffermarsi sui momenti romantici ha appesantito il film, togliendo il tempo di dover sviluppare meglio il disegno di alcuni personaggi, a volte perfino un po’ macchiettistici, come nel caso dell’avvocato difensore che pare uscito da una sit-com della TV americana via cavo. Il premio Oscar poi andato alla brava Regina King credo sia scaturito solo da una scena madre, in cui lei va ad implorare la donna portoricana violentata – causa dei guai giudiziari di Fonny – di testimoniare in maniera corretta per salvare il giovanotto. È l’unico vero momento in cui l’attrice riesce ad esprimere il meglio di sé, ma è, a mio modesto parere, troppo poco per aver tolto la statuetta alle due comprimarie de La favorita (recensione), Emma Stone e Rachel Weisz in corsa assieme a lei.

Tirando le somme, è un buon film ma nulla di più, non siamo di certo ai livelli della prima opera del regista: credo che la troppa passione che Barry Jenkins dedica alla propria missione di regista di cinema e narratore di storie avverse a causa del razzismo lo hanno portato in un fuori pista inatteso, come credo che si debba attendere la terza prova per poterlo giudicare in maniera migliore.
Riconoscimenti
2019 - Premio Oscar
Miglior attrice non protagonista a Regina King
Candidatura per la miglior sceneggiatura non originale
Candidatura per la miglior colonna sonora
2019 - Golden Globe
Migliore attrice non protagonista a Regina King
Candidatura per il miglior film drammatico
Candidatura per la migliore sceneggiatura






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