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The Conspirator (2010)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 21 feb 2022
  • Tempo di lettura: 7 min

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The Conspirator

USA 2010 storico 2h2’


Regia: Robert Redford

Sceneggiatura: James D. Solomon

Fotografia: Newton Thomas Sigel

Montaggio: Craig McKay

Musiche: Mark Isham

Scenografia: Kalina Ivanov

Costumi: Louise Frogley


James McAvoy: Frederick Aiken

Robin Wright: Mary Surratt

Kevin Kline: Edwin Stanton

Danny Huston: Joseph Holt

Evan Rachel Wood: Anna Surratt

Justin Long: Nicholas Baker

Alexis Bledel: Sarah Weston

Tom Wilkinson: Reverdy Johnson

Toby Kebbell: John Wilkes Booth

James Badge Dale: William Hamilton

Johnny Simmons: John Surratt

Colm Meaney: David Hunter

Jonathan Groff: Louis Weichmann

Stephen Root: John Lloyd

Norman Reedus: Lewis Payne

Shea Whigham: cap. Cottingham

Chris Bauer: magg. Smith


TRAMA: 1865. Il presidente americano Abramo Lincoln rimane vittima di un attentato che gli costa la vita. Vengono accusati del complotto e dell'omicidio otto persone, tra cui una donna, Mary Surratt, colpevole di aver ospitato in casa sua l’autore materiale del delitto John Wilkes Booth. A difendere Mary è chiamato il ventottenne avvocato Frederick Aiken, che durante le fasi del processo si convince sempre più dell'innocenza della donna, presupponendo che sia colpevole solo di voler proteggere qualcuno a lei molto caro.


Voto 7,5

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Si suol dire che il popolo, nei casi di reati più eclatanti e con maggior richiamo mediatico, voglia giustizia a tutti i costi. Sono i casi in cui chi amministra la Giustizia e chi si occupa delle indagini, vuole placare la sete non di verità ma di una versione ufficiale dei fatti affinché il colpevole, anche all’ombra di diversi dubbi, venga processato il più velocemente possibile e condannato. In buona sostanza, si tratta di placare un’assurda richiesta sociale che però non ha nulla a che vedere con la giustezza della sentenza. I camposanti sono pieni di donne e uomini, impiccati, bruciati sulla sedia elettrica, gasati, fucilati, dopo un processo sommario. Non sempre giustamente, non di rado con molti dubbi.

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I casi più eclatanti sono le sentenze in tempi di guerra o subito dopo, quando, come dice la pubblica accusa in questo film, “Inter arma silent leges” (in tempi di guerra le leggi tacciono). La situazione storica del Nord America era drammatica: la Guerra di Secessione (1861/65) aveva dilaniato un paese ancora nella fase di nascita, si può dire, ancora da essere consolidato, e aveva seminato più di 600.000 morti tra entrambe le fazioni, violentemente nemiche. Quando Abramo Lincoln – solennemente celebrato nel cinema anche dal film di Steven Spielberg con un magistrale Daniel Day-Lewis, Lincoln (2012) – fu assassinato una sera di primavera del 1865, i vincitori nordisti della guerra ebbero solo voglia di chiudere rapidamente le indagini e il processo contro la donna accusata di complicità che, guarda caso, apparteneva alla popolazione che era stata nemica. Da punto di vista politico, non interessava molto allo Stato Maggiore dell’esercito e alle più importanti cariche del governo di arrivare ad una chiara ed evidente verità, quanto invece una punizione esemplare ritenuta sul momento essenziale e dimostrativa, affinché si desse un avvertimento forte alle sparse pulsioni di chi voleva sovvertire l’esito bellico. Assolvere l’accusata Mary Elizabeth Jenkins Surratt sarebbe stato un atto di debolezza del Governo che la popolazione non avrebbe gradito per nulla.

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Il film di Robert Redford non dà molto risalto alla voglia di giustizia dei cittadini e a quella della vendetta per aver perso il Presidente ideale per la fondazione di un Paese forte ed unito (sebbene in vita avesse avuto parecchi avversari contrari al suo modo di far politica, e ciò risulta chiaro nel film di Spielberg), piuttosto punta con decisione contro l’aria che regnava nell’ambito militare americano, che voleva a tutti i costi giustiziare e quindi eliminare la persona che apparentemente aveva contribuito (o perlomeno assistito) alla preparazione del criminale attentato a Lincoln. Realmente colpevole o no, Mary Surratt fu condannata e impiccata assieme ad altre tre arrestati che avevano partecipato ai tre attentati. Il regista mette in fortissima evidenza come fu svolto un processo in cui la sentenza era già scritta prima di iniziare il dibattito, presieduto da una giuria di soli militari, come se riguardasse tale ambiente, e tutti ovviamente nordisti, il cui presidente David Hunter respinse ogni possibile obiezione opposta dall’avvocato difensore, un ex capitano valoroso e apprezzato, che dopo il conflitto aveva scelto la carriera legale, Frederick Aiken. Non fu un processo che rispettava i nobili principii della giustizia secondo i quali il giovane avvocato si era dedicato a quella professione, non fu assolutamente – almeno secondo il film a tesi di Robert Redford – un dibattito onesto e obiettivo: l’accusata fu tenuta sempre in cella senza poter ricevere neanche la visita dalla figlia, mai un momento di aria, mai creduta nelle pochissime parole che in quei giorni proferì: scelse il quasi assoluto silenzio e lo sciopero della fame, trincerandosi dietro il riserbo per non far arrestare il figlio John, ricercato perché ritenuto uno dei responsabili. Ella, pur negando di aver contribuito in qualche maniera alla pianificazione e di aver aiutato i ribelli, scelse, con il rosario in mano, di sacrificarsi per salvare il figlio. Pare che il verdetto inizialmente non fu unanime ma le più alte cariche del governo gradirono e obbligarono il voto favorevole alla condanna di tutti i giurati: Mary Surratt era una cospiratrice.

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La figura centrale del film è però il veterano, poi diventato avvocato, Frederick Aiken, che il regista presenta come un patriota sempre scettico verso le dichiarazioni e l’atteggiamento della donna: come tutti condanna l’efferata uccisione del Padre della patria e, essendo stato un soldato dell’Unione, si schiera immediatamente contro la Surratt. Ma il suo mentore, uomo integerrimo, il politico e avvocato Reverdy Johnson, cercò con ogni mezzo di contrastare l’atmosfera giustizialista che regnava in quel periodo. Era profondamente convinto che ogni persona, pur presumibilmente colpevole, avesse diritto ad una difesa legale giusta e leale, che non si potesse condannare a priori chiunque solo perché ritenuto pregiudizialmente colpevole. I principii fondanti della Costituzione garantivano un processo equo ad ogni cittadino e le sue convinzioni personali sorreggevano la tesi che un avvocato difensore devesse credere ciecamente nell’innocenza di ogni imputato difeso: quindi, perché ritenere sin dall’inizio Mary Surratt colpevole e quindi già condannata? Il dovere di difenderla lo affidò proprio al giovane ed inesperto Frederick Aiken, che doveva assolvere al proprio compito di avvocato senza dare per scontata la condanna. L’ex capitano credeva in quei dogmi e l’anziano era convinto di poter affidare nelle sue mani le sorti di quella donna, benché perplesso: il giovane avvocato, infatti, pensava che fosse da condannare, che non ci fossero argomenti validi per sostenere una difesa valida, che era una partita persa sin dall’inizio. In più, fatto più grave, era convinto che lei non raccontasse la verità, ma con la frequentazione in cella e i colloqui avuti e notandola sincera, cominciò a perdere le sue sicurezze e cominciò a darle fiducia fino a crederla sinceramente innocente, che stesse immolandosi per amore di madre. Sarebbe bastato rivelare dove il giovanotto si nascondesse e avrebbero condannato lui e non lei.

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Il personaggio di Mary Surratt è simbolicamente la guerra che Robert Redford conduce contro il governo militaresco e prepotente: senza la moderazione di Lincoln i generali avevano in mano il Paese, famelici di giustizia (qualunque fosse) e del ripristino di quella che loro pensavano fosse legalità, termine sempre utilizzato e strumentalizzato dai governi destrorsi per tenere order e law come principio di Stato. Se l’imputata è il centro dell’obiettivo, la freccia nell’arco del regista è l’avvocato, un donchisciotte che dà battaglia ai poteri forti accorgendosi però dell’impotenza della sua azione: ogni obiezione viene respinta, ogni prova viene considerata secondaria e ininfluente, l’unico teste a favore giura in aula il contrario di ciò che gli aveva riferito il giorno precedente. Ogni cosa gli è contro e l’alleanza esplicita tra il presidente della giuria David Hunter e l’accusa rappresentata dal Pubblico Ministero Joseph Holt si dimostra uno sbarramento insuperabile, capace di corrompere ogni testimone trasformandolo a carico. La batosta finale arriva quando, dopo la condanna alla pena capitale, egli si illude di ottenere finalmente un nuovo processo e per giunta con una giuria civile. Qualche ora dopo invece giunge l’amarissima delusione: il quadruplo patibolo è pronto.

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Un’opera che è servita a Robert Redford per mostrarci la sua tesi, dirigendo in maniera classica, come piace a lui, con una fotografia spesso buia, come l’atmosfera che regna per tutta la durata, come l’animo con cui legge la vicenda, con campi e controcampi che illustrano le emozioni dei personaggi, senza neanche evitarci l’esecuzione sulla forca, filmata passo passo e con una inquadratura panoramica quando le botole si aprono: se voleva mostrare la disumanità della condanna a morte ci riesce in pieno. Ponendo l’avvocato difensore in mezzo alla folla che assiste, mette lo spettatore a guardare come si consuma la tragedia della pena capitale. Parte della critica si rivoltò contro il regista, colpevole di essere schierato in maniera così evidente a favore della donna. Ma è un motivo valido per essere contrari? I suoi film più incisivi in campo politico sono l’ormai vecchio Quiz Show, ma gli ultimi tre della carriera d’autore (si è limitato a soli 9 film in totale) si chiamano Leone per agnelli, The Conspirator appunto e La regola del silenzio - The Company You Keep, opere in cui non si nasconde dietro un dito e parla chiaramente del suo pensiero: che il bel Robert sia schierato come il suo cinema anni ’70 e che questa volta si scagli contro Edwin Stanton, Segretario alla Guerra, precedentemente Procuratore Generale, prima iscritto nel Partito Democratico e poi Repubblicano (che voltafaccia!), uomo che più di altri si adoperò affinché l’imputata Mary Surratt venisse condannata comunque, come esempio nazionale per tutta l’opinione pubblica, a qualcuno evidentemente non è piaciuto. Fatto sta che l’avvocato Frederick Aiken, dopo la sconfitta giudiziaria e la delusione cocente del trattamento subito, decise di rinunciare alla professione e fu assunto come redattore presso il Washington Post. Il suo atteggiamento durante il processo non era piaciuto alla gente e quando morì a soli 46 anni per un attacco cardiaco fu sepolto con una lapide priva delle sue generalità. Pagò carissimamente il voler difendere la persona che l’opinione pubblica e soprattutto il potere volevano condannare ad ogni costo e senza un giusto processo.

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Diretti da un regista apertamente schierato, i due attori principali si distinguono per una interpretazione intensa. James MvAvoy è costantemente performante in ogni occasione ma in questo film lo è particolarmente e rende il suo avvocato una persona appassionata dalla parte della giustezza e della correttezza sociale: misurato, impetuoso, un ruolo che interpreta da grande attore, con occhi fiammeggianti. Robin Wright è magnifica, la sua performance commuove. Raramente ha avuto a disposizione un personaggio così bello e difficile e lei lo ha affrontato dando tutta se stessa, lavorando sull’espressione dura e sul corpo sacrificato. Una coppia di interpreti che rende ancora più emozionante il film, che riesce a dare maggiore risalto all’opera. Senza sminuire la bravura degli altri e tanti eccellenti comprimari, da Kevin Kline a Tom Wilkinson, da Colm Meaney a Danny Huston, per finire alla ottima Evan Rachel Wood, i due veri protagonisti sono in stato di grazia e danno valore artistico ad un film così impegnativo per un regista impegnato come Robert Redford.

Film biografico e storico che ha lo sviluppo di un thriller nell’ambito di un legal movie a tutti gli effetti. In cui, però, non vince nessuno.


 
 
 

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