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The Mauritanian (2021)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 6 giu 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 2 ott

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The Mauritanian

UK, USA 2021 dramma 2h9’


Regia: Kevin Macdonald

Soggetto: Mohamedou Ould Slahi (Guantanamo Diary)

Sceneggiatura: Michael Bronner, Rory Haines, Sohrab Noshirvani

Fotografia: Alwin H. Küchler

Montaggio: Justine Wright

Musiche: Tom Hodge

Scenografia: Michael Carlin

Costumi: Alexandra Byrne


Tahar Rahim: Mohamedou Ould Slahi

Jodie Foster: Nancy Hollander

Shailene Woodley: Teri Duncan

Benedict Cumberbatch: Stu Couch

Zachary Levi: Neil Buckland

Langley Kirkwood: sergente Sands

Corey Johnson: Bill Seidel

Matthew Marsh: generale Miller

Denis Ménochet: Emmanuel


TRAMA: Mohamedou Ould Slahi, in seguito all'attentato dell'11 settembre, viene arrestato dal governo degli Stati Uniti e viene trasferito presso il campo di prigionia di Guantánamo, dove viene trattenuto senza un'accusa o un processo. Slahi trova degli alleati nell'avvocato difensore Nancy Hollander e nella sua associata Teri Duncan. Insieme, affrontano innumerevoli ostacoli. La loro controversa difesa, insieme alla scoperta di prove fabbricate per incolparlo, porteranno alla ricerca della giustizia.


Voto 7,5


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Riferimenti storici.

Gli attentati dell'11 settembre 2001 sono considerati i più gravi atti terroristici della nostra epoca, avendo causato almeno direttamente la morte di 2977 persone, più i 19 dirottatori, per non far cenno di tutti decessi avvenuti in seguito a causa dei tumori e delle malattie respiratorie.

Dopo poco più di quattro mesi, l’11 gennaio 2002, il governo degli Stati Uniti d'America, allora presieduto da George W. Bush, aprì un campo di prigionia all'interno della base navale nella baia di Guantánamo, sull'isola di Cuba, finalizzandolo alla detenzione di prigionieri catturati in Afghanistan e in Pakistan, anche tramite extraordinary rendition (cioè la cattura, la deportazione e la detenzione, tutte attività ritenute dal diritto internazionale come illegali), prigionieri ritenuti (?) collegati ad attività terroristiche, coniando il nuovo status di "combattenti nemici illegali", anche questo non contemplato nel lessico del diritto umanitario. A proposito delle modalità di funzionamento del carcere, si sono levate negli anni moltissime polemiche riguardo alle condizioni di reclusione e all'effettivo stato giuridico dei reclusi. Molti osservatori internazionali sostennero infatti che i detenuti non furono classificati dal governo USA come prigionieri di guerra, né come imputati di reati ordinari (il che avrebbe potuto garantire loro processi e garanzie ordinarie), ma sarebbero stati invece imprigionati come detainees (detenuti) senza altro dichiarato titolo: l’eminente giudice sudafricano Lord Steyn lo definì un vero e proprio "buco nero legale". Solo con l’avvento di Barak Obama si iniziò a parlare della chiusura della prigione, processo che però non si è mai verificato.


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Due menzioni storiche e geopolitiche importanti per introdurre il film, per capire come e quali sofferenze psicofisiche abbia dovuto sopportare il protagonista della storia girata dallo scozzese Kevin Macdonald, regista che si è occupato altre volte di scandali e affari politici americani e africani (vedi State of Play e L'ultimo re di Scozia), film che nasce dopo l’interesse dei produttori per il libro autobiografico dello stesso protagonista del film, Mohamedou Ould Slahi, un mauritano catturato dal governo degli Stati Uniti e rinchiuso per anni a Guantanamo Bay senza aver subito un processo. Una storia che sa dell’incredibile, sia per le disavventure non capitategli ma causategli dalla CIA con il suo arresto abusivo, sia per la forza di carattere e resistenza fisica che l’uomo ha saputo opporre al destino. Un uomo la cui umanità è riuscita a trionfare cambiando tutti coloro che lo hanno avvicinato. Ma tutto sarebbe rimasto nell’oblio e nessuno ne sarebbe stato al corrente se non si fossero interessate alla vicenda due avvocatesse: Nancy Hollander e Theresa Duncan. La prima è una donna tenace con una volontà di ferro che ha sempre preso le parti dei più deboli per i principi personali che la animano in ogni momento della sua esistenza. Quando veniva accusata dai colleghi, dalla stampa, dall’opinione pubblica, dall’esercito americano, di difendere un terrorista, Nancy opponeva una risposta lapidaria e limpida: lei difende lo stato di diritto e i principi della legalità e desidera che ogni uomo, presunto colpevole, abbia diritto ad una difesa legale in un processo legale. L’altra era una associata che si era interessata al caso e che collaborò non poco per difendere i diritti di Slahi. Senza l’impegno profuso dalle due donne oggi non si starebbe a commentare la storia e non si conoscerebbero a fondo i soprusi subiti dalle centinaia di uomini detenuti, a torto o a ragione, nella terribile prigione americana e delle disumane torture inflitte loro. Brutale sistema antiterroristico voluto da George W. Bush e dal Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, le cui foto il regista fa campeggiare all’ingresso della Corte dove si discute il dibattimento processuale, in seguito sostituite polemicamente da quelle di Obama e Biden come segnale della continuità, nonostante i tanti proclami di chiusura del discusso centro di reclusione. L’altro personaggio importante è il tenente colonnello Stuart Couch, delegato dall’esercito americano a prendere il gravoso incarico di pubblico ministero: fortemente intenzionato a mandare sulla sedia elettrica il presunto colpevole, quale reclutatore del gruppo che aveva organizzato gli attentati dell’11 settembre, egli, studiando i documenti prima “classificati”, cioè secretati, e poi invece ottenuti, cambia radicalmente idea sull’accusato, scoprendo prima la debolezza dell’accusa, in mancanza di chiare prove, e poi i crudeli trattamenti della base cubana. Rimanendo talmente scosso e inorridito da rinunciare clamorosamente al compito assegnatoli.


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Un film che esprime un intenso e sacrosanto sdegno per uno stato di diritto che ha calpestato le più elementari norme di diritto, ben oltre l’habeas corpus sollevato per citare in giudizio il governo Usa accusato di aver detenuto illegalmente una persona per quasi 15 anni. È una amarissima riflessione sull’importanza essenziale della Stato di Diritto e sull’esistenza dell’estremismo che può esistere anche sull’altro fronte della guerra tra terrorismo e società civile e Kevin Macdonald ne fa anche un’opera tenera, costruttiva, umana, mostrandoci il lato familiare del protagonista, uomo sempre positivo e ottimista per il futuro nonostante la precaria posizione una volta nelle mani dei carcerieri. Mohamedou Ould Slahi era ed è tutt’oggi (basti guardare i titoli di coda in cui i veri personaggi vengono mostrati come sono oggi) una persona pieno di forza d’animo, sorridente, che guarda avanti nella vita, soddisfatto padre di famiglia, con gli occhi sinceri che, pur con una piccola ombra in cui sono rimaste impresse per sempre le immagini di ciò che ha passato, esprimono speranza e felicità. Questi sentimenti, provati durante la prigionia e dopo in tribunale e quindi in libertà, avvenuta però dopo molti anni dall’assoluzione, non era facile mostrarli, perché l’atteggiamento poteva sembrare poco credibile, ed invece il bravissimo Tahar Rahim, recitando al livello eccellente de Il profeta (recensione), rende tutto ciò in maniera impressionante, calandosi anima e corpo nel personaggio: bravo davvero!


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Detto che la regia di Kevin Macdonald ci fa vivere intensamente la vicenda, quindi risultando ineccepibile anche se non straordinaria, i grandi meriti del film vanno soprattutto ai notevoli interpreti principali, iniziando dalla sempre promettente Shailene Woodley (ne scrissi presto molto bene vedendola in Paradiso amaro [recensione], che sta maturando bene e son curioso di vedere la sua futura carriera), e continuando con una menzione speciale per l’ottimo Benedict Cumberbatch, in una prova robusta e molto incisiva, recitando in un inglese forzatamente non britannico: ma che vocione! Risulta però evidente che il film è tutto sulle spalle di due grandi attori: non solo il bravo francese (di origini algerine) Tahar Rahim ma soprattutto una meravigliosa Jodie Foster, magra e grintosa come mai si era vista. Capelli bianchi (per rassomigliarsi alla vera Nancy Hollander), occhi chiari puntati come armi verso gli interlocutori, naso appuntito usato come un timone verso il traguardo da raggiungere, ogni scena in cui compare attira su di sé tutta l’attenzione dello spettatore, catalizzando anche quella degli altri in scena, intimorendo gli ufficiali di Guantánamo come quelli di Washington, imponendosi come persona determinata che non si ferma davanti a nulla, cacciando momentaneamente la collaboratrice Teri solo perché non la vedeva convinta del lavoro da svolgere. Era da tempo che non si ammirava una Foster di questa portata e i riconoscimenti sono arrivati: un Golden Globe per lei e una meritata candidatura per Tahar Rahim. Il libro da cui è tratto il film, ci spiega il regista, è denso di arguzia, poesia, umorismo e saggezza, proprio come si può dedurre nella visione del film quando le due avvocatesse chiedono al prigioniero di scrivere in cella la sua storia per poter essere utilizzata come base del dibattimento processuale. È già da allora che lo spettatore, ignaro delle qualità letterarie di Mohamedou, scopre quale potenziale scrittore sia e lo dimostra il fatto che il suo Guantanamo Diary, scritto nella lingua inglese che aveva imparato stando in prigione, ascoltando e ripetendo le frasi dei sodati, è stato tradotto in moltissime lingue in tutto il mondo. Che fosse intelligente lo aveva già dimostrato da ragazzo del deserto mauritano allorquando vinse una borsa di studio per andare a studiare in Germania (luogo che per gli inquisitori gli servì per contattare i potenziali terroristi), ma la predisposizione allo studio, l’intelligenza attiva, l’attitudine ad imparare una lingua sconosciuta soltanto ascoltando i carcerieri, la dote naturale per la scrittura, esercitata in cella, tutti elementi che lo hanno facilitato nella stesura delle sue importanti memorie, mescolando sapientemente dramma e umorismo, sempre compagne della sua travagliata vita.


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Un bel film, scritto anche bene, fondamentale per fare chiarezza sulle oscure pagine dei governi statunitensi e sui diritti civili di ogni cittadino, americano o no, ma anche importante per capire cosa succedesse nella baia di Cuba: umiliazioni, waterboarding, privazione del sonno tramite il gelo delle celle e i brani di heavy metal suonati al massimo volume. Sospettati di terrorismo trattati con accertato terrorismo mentale: né la CIA né il Dipartimento della Difesa né altre Agenzie Governative hanno ammesso la loro responsabilità o offerto scuse per gli abusi avvenuti a Guantánamo. Dei 779 detenuti passati in quel luogo, solo 8 sono stati condannati per reato e 3 di queste condanne sono state poi rovesciate in appello. Raccapricciante.


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Riconoscimenti

Golden Globe 2021

Migliore attrice non protagonista a Jodie Foster

Candidatura migliore attore in un film drammatico Tahar Rahim

BAFTA 2021

Candidatura miglior film

Candidatura miglior film britannico

Candidatura miglior sceneggiatura non originale

Candidatura miglior attore protagonista Tahar Rahim

Candidatura miglior fotografia

EFA 2021

Candidatura miglior attore Tahar Rahim



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