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Il profeta (2009)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 18 set 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 25 mag 2023


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Il profeta

(Un prophète) Francia/Italia 2009 noir 2h35'

Regia: Jacques Audiard

Soggetto: Abdel Raouf Dafri, Nicolas Peufaillit

Sceneggiatura: Thomas Bidegain, Jacques Audiard

Fotografia: Stéphane Fontaine

Montaggio: Juliette Welfling

Musiche: Alexandre Desplat

Scenografia: Michel Barthélémy

Costumi: Virginie Montel

Tahar Rahim: Malik El Djebena

Niels Arestrup: César Luciani

Adel Bencherif: Ryad

Hichem Yacoubi: Reyeb

Reda Kateb: Jordi lo zingaro

Jean-Philippe Ricci: Vettori

Gilles Cohen: prof

Leïla Bekhti: Djamila

TRAMA: Condannato a sei anni di prigione, Malik El Djebena, non sa leggere né scrivere. Ha diciotto anni, è solo al mondo e sembra molto più giovane e sperduto di tutti gli altri carcerati rinchiusi insieme a lui. Malik finisce presto per indurirsi e guadagnarsi il rispetto del gruppo di corsi che comanda all'interno del carcere. Ma altrettanto presto, grazie alla sua furbizia, riesce a tessere una sua rete di relazioni che sfugge al controllo dei corsi.

Voto 8,5

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Il cinema di Jacques Audiard (che meriterebbe un lungo discorso a parte) è intriso di azione ed emozioni potenti, spesso represse tante volte esplodenti. I personaggi sempre forti, di gran carattere, che operano nel sottobosco della società che lui va a scovare per seguirli con la sua macchina da presa in spalla, traballante come i personaggi. Il suo Malik El Djebena arriva nel carcere con una condanna di sei anni per una fallita rapina, contuso e spaesato, tanto giovane con i suoi 19 anni. Si guarda intorno come un animale spaventato, con lo sguardo cerca di capire in che mondo è entrato, ha il viso giovanile dei ragazzi della sua età e sta attento a come muoversi. La sua ingenuità è presto dimostrata dal tentativo di nascondere una banconota nella suola delle scarpe, facilmente scoperta dai secondini. Da questo momento in poi inizia l’apprendimento continuo della vita carceraria, delle bande che vi sono costituite, a seconda delle etnie e della vita precedente, dei boss che manovrano gli altri condannati e perfino le guardie al soldo dei potenti delle celle, che girano la testa quando necessario.

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Malik è un magrebino ma non professa alcuna religione, è pressoché analfabeta, parla francese e ovviamente arabo, è attento a non concedere spazio alle avances degli altri, si tiene a distanza per non doversi complicare la vita. Impara velocemente le leggi dell’ambiente ma subisce subito l’avvicinamento da parte del potente leader della mala còrsa, César Luciani, che spadroneggia indisturbato nel carcere, il quale lo adocchia e lo giudica come buona manovalanza per le sue trame criminali e già da subito, dopo un primo contatto importante per chiarire la gerarchia, gli affida un compito terribile. Terribile perché il giovane non ha mai ucciso nessuno e siccome nel carcere è in transito un condannato che deve testimoniare in un processo, il corso lo obbliga ad eliminarlo con una lametta nascosta nella guancia. Viene bene istruito sulle modalità dell’esecuzione e questo lo spaventa parecchio, tanto da essere abbastanza maldestro nel momento decisivo, anche se l’operazione gli riesce ugualmente. Ormai è entrato nel giro e gli ordini successivi di Luciani non tarderanno.

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È svelto, intelligente, capisce cosa imparare, ciò che è importante assimilare, quello che gli può servire per galleggiare in mezzo a tanti efferati criminali. Soprattutto comincia ad abituarsi e a destreggiarsi, intuendo che si possono trarre molti vantaggi. Si crea così, come in una fase di singolare formazione, la sua precisa personalità, che cresce fino a dargli sicurezza e a crearsi un suo personale giro d’affari. Crescerà mentalmente, sentendosi sempre più sicuro e l’ascesa lo porterà sino a farsi largo e rendersi non solo indipendente da Luciani ma addirittura ad isolarlo e renderlo un qualsiasi detenuto. Gli incubi che lo tormentano nel sonno, ritrovando continuamente lo scomodo testimone che ha eliminato, come una compagnia indesiderata che nel tempo diventa fonte di ispirazione, sogna come un profeta un gruppo di cervi che attraversano la strada, episodio che si verificherà realmente durante una delle missioni affidatagli dal boss. Evento che il trafficante di droga che viaggia con lui lo soprannominerà appunto “profeta”: “Come facevi a saperlo?”. Malick però è uno dei tanti casi tra i detenuti che in carcere crescono sino a diventare piccoli o importanti criminali e quel cambio del titolo dall’originale dai nostri distributori cancella questo significato. Che, all’opposto, può avere anche un significato di maggiore importanza: un profeta come predestinato e la bellissima sequenza finale, in cui esce a fine pena atteso dalla vedova del suo migliore amico e scortato da auto e suv, come un potente boss dalla carriera assicurata, mentre il Mack the Knife di Bertolt Brecht cantata magistralmente da Jimmie Dale Gilmore anticipa con emozione i titoli di coda.

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Sì, Malick era un predestinato, non se ne rendeva conto quando varcava come un pivello l’ingresso della prigione, ma dopo le dure prove non solo superate brillantemente ma che si sono rivelate scuola di apprendistato necessaria e propedeutica lui adesso si è definitivamente affermato. La trasformazione mentale e fisica è evidente: il viso non è più quello dell’animaletto spaventato del primo giorno, ora cammina a testa alta, il giro è creato, gli uomini a disposizione sono fidati. La facilità con cui ha imparato sin dai primi mesi di detenzione anche il dialetto italo-corso per non restare indietro a nessuno, il pensiero veloce per decidere in breve tempo quale mossa adottare sul momento, la lungimiranza dei piani che preparato per il futuro, lo spirito di sopravvivenza che lo ha sempre aiutato, tutto gli è stato utile per diventare quello che è il giorno del ritorno nel mondo libero, come un boss ormai conclamato.

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Non è mai facile stilare delle classifiche tra le opere di un autore, di qualsiasi arte si parli, ma questo film potrebbe essere il migliore di Jacques Audiard, il più vibrante, quello che tecnicamente è meglio realizzato, con intenti ben precisi. La camera a spalla così traballante addosso ai personaggi ma specialmente a Malik per dare l’impressione chi sia il nostro occhio, lì, presente; l’utilizzo della luce naturale, sempre efficace per dare maggior realismo; un sonoro a cui necessita dare molta attenzione, passando dal francese all’arabo e allo slang corso che è un italiano sporcato; le fasi della narrazione suddivise da iniziali inquadrature racchiuse in un tondo condite dal nero che ricorda il cinema muto, così come nella chiusura del capitolo, intervallate da un breve stacco di buio; i brani musicali di natura sinfonica e alcune canzoni ormai ritenute classiche, come appunto il finale su descritto. Elementi che il regista ha usato con mano felice dando spesso un senso di drammatico degno di un mélo gangster. Un linguaggio d’autore potente e trafiggente per un film che lascia il segno e che sancisce la bravura del regista e sceneggiatore francese, il quale aveva già dato segni di vitalità al cinema transalpino con Sulle mie labbra (recensione) e con il bellissimo Tutti i battiti del mio cuore, dove aveva potuto lanciare un altro giovane attore (come in questo caso), Romain Duris (mai stato così bravo), poi proseguendo tra applausi e riconoscimenti internazionali con gli altri film. Ma forse il suo “profeta” resta l’opera più poderosa.

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Si diceva l’attore protagonista: il francese di origine algerine Tahar Rahim è nell’occasione una folgorazione, una epifania, uno squarcio nei cieli del cinema. Le sue sopracciglia arcuate sono la fotografia del cucciolo arrivato nella tana del predatore, i cui occhi si accendono di luce appena impara il mestiere della delinquenza vera, non quella che gli faceva fallire le rapine da sfigato. È stato capace di mostrarci alla perfezione la mutazione che avviene in un principiante qualsiasi nel tragitto che lo conduce a guidare una gang, trasformando il fisico e la testa, accumulando le piccole quotidiane esperienze assieme alle tre missioni fuori dal carcere. Cambiandolo in meglio (in realtà in peggio) dal punto di vista della sua professione. Bravo, bravissimo, anche se ci si pone la domanda inevitabile: ma che fine ha fatto poi? Perché si è dovuto adeguare a ruoli di film molto meno importanti? Perché il cinema non ha sfruttato meglio le sue innegabili qualità, relegandolo in parti di seconda linea, sfruttando solo il suo sorriso da bravo ragazzo? Sul contraltare Audiard oppone un attore esperto capace di esprimere il lato peggiore degli uomini (in verità lo è anche per ruoli opposti) con il viso implacabile di Niels Arestrup, lo straordinario cattivo della situazione.

Storia di una straordinaria ascesa di un uomo che cercava di mimetizzarsi e rendersi invisibile tra il mondo di dentro e quello di fuori, diventando invece nel giro di qualche anno “un” boss di entrambi. Dice Jacques Audiard: “Sarebbe una banalità dire che la vita è una prigione. Ma che la prigione sia la metafora della vita è evidente: quello che impari dentro lo utilizzi fuori.

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2010 - Premio Oscar

Candidatura miglior film straniero

2010 - Golden Globe

Candidatura miglior film straniero

2010 - Premio BAFTA

Miglior film straniero

2009 - European Film Awards

Miglior attore a Tahar Rahim

Candidatura miglior film

Candidatura miglior regista

Candidatura migliore sceneggiatura

Candidatura migliore fotografia

2010 - Premio César

Miglior film

Miglior regista

Migliore attore protagonista a Tahar Rahim

Migliore attore non protagonista a Niels Arestrup

Migliore promessa maschile a Tahar Rahim

Migliore sceneggiatura originale

Miglior fotografia

Miglior montaggio

Migliore scenografia

Candidatura migliore promessa maschile a Adel Bencherif

Candidatura migliore colonna sonora

Candidatura migliori costumi

Candidatura miglior sonoro

2009 - Festival di Cannes

Grand Prix Speciale della Giuria a Jacques Audiard



 
 
 

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