The Outfit (2022)
- michemar

- 29 dic 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 18 giu 2023

The Outfit
UK/USA 2022 thriller 1h45’
Regia: Graham Moore
Sceneggiatura: Graham Moore, Johnathan McClain
Fotografia: Dick Pope
Montaggio: William Goldenberg
Musiche: Alexandre Desplat
Scenografia: Gemma Jackson
Costumi: Sophie O'Neill, Zac Posen
Mark Rylance: Leonard Burling
Johnny Flynn: Francis
Zoey Deutch: Mable Shaun
Dylan O'Brien: Richie Boyle
Simon Russell Beale: Roy Boyle
Nikki Amuka-Bird: Violet LaFontaine
Alan Mehdizadeh: Monk
TRAMA: Un esperto sarto deve superare in astuzia un pericoloso gruppo di mafiosi per sopravvivere a una fatidica notte.
Voto 7

La prima inquadratura è quella della grande vetrina che si affaccia su una strada innevata di Chicago degli anni ’50 che indica che in quel negozio di sartoria, la L. Burling, si confezionano abiti da uomo rifiniti su misura, quindi di qualità, non un qualsiasi bottega da sarto. E chi lo gestisce tiene sempre a precisare, appena viene appellato “sarto” che lui è prima di tutto un cutter, cioè colui che ritaglia la stoffa per poi cucire gli abiti, dando maggiore e primaria importanza all’arte del taglio. Senza quella precisa e preliminare fase, che richiede esperienza e precisione, non si otterrebbero mai, infatti, vestiti perfettamente indossabili. Il proprietario della sartoria è Leonard (Mark Rylance), un inglese finito chissà per quale motivo in quel luogo, che la gestisce con la sua assistente Mable (Zoey Deutch), giovane e bella ragazza che gli fa da segretaria fedele e affezionata, con sentimenti ricambiati con il sorriso dall’uomo che la tratta come una figlia. Certo che gli abiti, che lui confeziona con abilissima cura, non sono per tutte le tasche e lo si nota ben presto, dato che chi frequenta quell’attività ha tutta l’aria di far parte di organizzazioni criminali molto potenti. D’altronde, il titolo del film è parecchio indicativo e spiega l’ambiguità del termine outfit, che sta a significare sia “vestito” sia il nome nello slang locale delle bande di gangsters che popolano la città, che ha appena riabbracciato i reduci della Seconda Guerra Mondiale, gente che si è portata in patria la violenza e le brutalità viste e subite nei campi di battaglia d’Europa.

La macchina da presa, che inquadra la vetrina e l’ingresso, ci mostra quel signore che apre la porta e inizia la sua paziente giornata di lavoro manuale, mentre la sua voce ci spiega con precisione, pari solo alla sua artigianalità, che “A prima vista, un completo sembra costituito da due parti: giacca e pantalone. Ma quelle due parti, che all’apparenza sono compatte, sono composte da quattro differenti tessuti: cotone, seta, angora e lana. E questi quattro tessuti sono tagliati in 38 pezzi separati. Il procedimento per creare una taglia, dare forma, mettere insieme quei pezzi, necessita normalmente non meno di 238 passaggi.”. Ecco, questo è Leonard, impassibile come lo stile british che si può attendere da una persona come lui, che, appena entrato e pulito il tavolo di sartoria, prepara metodicamente il suo tè mattutino. Poco dopo arriva Mable, l’adorabile aiutante, e molto presto entrano a turno alcuni uomini, che senza proferire parola arrivano sino all’ultima stanza, lì dove opera il proprietario, e infilano una busta in una sorta di casella postale. Ed escono così come sono entrati. Mistero. Anche perché più tardi bussano alla porta anche due uomini molto ben vestiti – clienti abituali sicuramente – che fanno intuire immediatamente che questo è anche un luogo dove non accadono cose ordinarie: i due neanche salutano e neanche vengono considerati da sarto e segretaria, come un rito quotidiano scontato, come se li attendessero già e li conoscessero da sempre. I due aprono la cassetta, controllano il contenuto e portano via le buste. E sempre in silenzio e totalmente ignorati escono, mentre i due sartoriali riprendono le loro chiacchiere quotidiane come se nulla sia accaduto.

L’ingresso del negozio sarà inquadrato raramente: tutto il film si svolge nelle tre stanze che compongono il locale, una specie di kammerpsiel che acquisterà sempre più tensione, pur partendo con calma, pochi dialoghi, ritmo lentissimo (pari solo a quello del sarto) ma molto mistero. Un’atmosfera iniziale imperscrutabile che può far pensare ad un film con poche emozioni. E ci si sbaglia. Ogni personaggio si svelerà doppio, qualcuno forse anche triplo, di cui, man mano che la trama si evolve, non si può intuire con sicurezza chi realmente sia, quale passato abbia alle spalle e quali intenzioni reali pensi, non per il futuro che sarebbe un azzardo inimmaginabile, ma per i minuti appena seguenti. Tutto sta nel fragile equilibrio che cambia ad ogni piccolo avvenimento, per ogni persona che entra ed esce, per ciò che si è appena detto o udito, con un continuo scambio di frasi che tante volte non rivelano la verità. Menzogne, falsità, bluff, sorrisi che sono minacce, frasi ad effetto, rapporti subdolamente amichevoli che nascondono scopi reconditi.

In gioco c’è una registrazione, un nastro magnetico di primitiva realizzazione (aggiustamento storico di comodo, essendo stata l’audiocassetta inventata anni dopo) ma già in mano all’FBI, dove il mitico capo J. Edgar Hoover si sta impiegando per bloccare le gangs che attanagliano Chicago. Chi è la talpa che si è messa in contatto con il Bureau? Chi tra il sarto, la sua dipendente, oppure tra il figlio del capo Roy Boyle, Richie, sempre in compagnia del (mal)fidato Francis, dal comportamento sempre ambiguo, pronto a tirar fuori la pistola? La tensione crescente arriverà ad essere così densa da poter essere tagliata con il filo, mentre si susseguono sparatorie fuori, irruzioni nel negozio, trattative sotterranee con la banda rivale, i temuti francofoni LaFontaine, anch’essi interessati al nastro registrato. Cosa è diventata, o meglio, cosa è in realtà quella sartoria? E il mite Leonard è davvero quello che lui racconta di sé, della sua fuga precipitosa da Londra, dove la sua quotata bottega stava andando a gambe all’aria per colpa di quelli che lui chiama “blue jeans”, cioè dalla maledetta moda che induceva gli uomini a comprare quei pantaloni e a non rivolgersi più ad un bravo sarto per abiti su misura? Dalla metà in poi, il film ha stravolgimenti senza discontinuità, senza che il regista dia davvero un indirizzo di thriller tradizionale ma indirizzandolo verso quello psicologico, con colpi di scena tipici del mistery, in cui ognuno (anche chi pare impensabile) può essere la talpa e quindi la causa del giallo. Un thriller in camera chiusa, con andirivieni da porte girevoli e qualche morto, qualche sparatoria e un sarto costretto a fare il chirurgo d’emergenza. Ed un finale a sorpresa perfino doppio.

In pratica, un’opera teatrale, con un valido gruppo di attori su cui emerge l’attore sopraffino che è Mark Rylance, capace di intrattenere una recitazione di alto livello alla pari delle pregiate confezioni del suo personaggio: sorrisi e sguardi che si adattano alla contingenza, frasi ambivalenti, dubbi comportamenti che blandiscono l’interlocutore aggressivo e che ammorbidiscono i frangenti violenti. Tutto con l’estrema calma che lo contraddistingue. Dall’eccellente protagonista del meraviglioso Intimacy - Nell'intimità - che ha dovuto attendere lo spielberghiano Il ponte delle spie per tornare prepotentemente sullo schermo, dopo retroguardie in vari film e moltissimo teatro inglese – giunge un’altra ottima performance ancora da primattore, come merita. E qui il suo personaggio sembra cucito (è il caso di dirlo) sulle grandi possibilità di attore dalle inesauribili sfumature.

La regia è di Graham Moore, qui al suo esordio ma già premio Oscar come sceneggiatore per The Imitation Game, e anche autore dello script assieme all’altro esordiente Johnathan McClain: i due hanno stilato una buonissima scrittura per un film che non ha mai visto da noi l’uscita in sala, forse perché ritenuto troppo elegante e piccola opera per il cinema italico in crisi
Un bel film (tutto in una notte, si potrebbe definire, rifacendosi ad un famoso film di John Landis) la cui storia origina da un incendio londinese per approdarne ad un altro chicagoen e mentre tutto (ri)brucia ognuno prende la sua via. D’altronde, Burling è quasi burning. E dopo, cosa succederà per ricominciare? Semplice, lo spiega lui stesso come nell’incipit e dopo il finale inaspettatamente cruento: “Non è perfetto e devi fartene una ragione, Come? Beh, ti siedi al tavolo, prepari i tuoi strumenti e… ricominci da capo.” Lapalissiano!


Dimostrazione come si possa fare del buon cinema con pochi ingredienti e un pugno di attori, purché sia una bella storia originale, una scrittura adeguata ed una regia attenta. Qui non manca neanche il direttore della fotografia esperto, Dick Pope, tecnico che ha collaborato a moltissimi film di successo e che crea una eccellente atmosfera, condita dalle musiche di Alexandre Desplat e completata da grandi firme per il montaggio (William Goldenberg), per l’ottima scenografia (Gemma Jackson) e i notevoli costumi dei tempi (Sophie O'Neill e Zac Posen). Non manca nulla, insomma, per essere il buon film che è.






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