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The Shrouds - Segreti sepolti (2024)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 30 set
  • Tempo di lettura: 8 min
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The Shrouds - Segreti sepolti

(The Shrouds) Canada, Francia 2024 dramma/horror/fantascienza/thriller 2h

 

Regia: David Cronenberg

Sceneggiatura: David Cronenberg

Fotografia: Douglas Koch

Montaggio: Christopher Donaldson

Musiche: Howard Shore

Scenografia: Carol Spier

Costumi: Anne Dixon

 

Vincent Cassel: Karsh

Diane Kruger: Becca / Terry / Hunny

Guy Pearce: Maury

Sandrine Holt: Soo-min Zabo

Elizabeth Saunders: Gray Foner

Jennifer Dale: Myrna Slotnik

Jeff Young: dottor Roby Zhao

Eric Weinthal: dottor Jerry Hofstra

Vieslav Krystyan: Karoly Zabo

 

TRAMA: Karsh è un imprenditore rimasto vedovo che inventa una tecnologia in grado di permettere di osservare in tempo reale i propri cari estinti decomporsi all’interno delle loro bare. Una notte, vengono profanate molte tombe, tra cui quella della defunta moglie.

 

VOTO 8


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La morte è un tema ricorrente nelle opere di David Cronenberg, che, tra l’altro, avendo perso la consorte qualche anno fa, ritorna sull’argomento, non del tutto come elaborazione del lutto ma come riflessioni svolte alla sua ineguagliabile maniera. E lo fa percorrendo sentieri di differenti specie di cinema, attraversando il dramma e il thriller, senza ovviamente trascurare l’horror che ha sempre contemplato e la fantascienza che caratterizza solitamente le sue sceneggiature. Sostanzialmente però parlando della morte, della difficoltà di staccarsi dal caro estinto, della voglia di restare in contatto. Qui, almeno visivamente, tramite l’invenzione, magari anche macabra, di un software sofisticato e ingegnoso per guardare dentro la tomba, nel tecnologico sudario che ha brevettato, e seguire così – senza restarne impressionato ma con lo sguardo sempre innamorato – la decomposizione. E per stare vicino alla moglie defunta, il protagonista Karsh (Vincent Cassel) utilizza una apposita app e uno schermo digitale posto sulla lapide. La frequenta ancora, quindi, controlla e ricorda, per non staccarsene, fino al punto di aver già predisposto uno spazio accanto a lei per il momento in cui toccherà anche a lui morire.



Nel cinema di David Cronenberg, la morte non è mai un semplice epilogo: è un varco, una membrana sottile che separa il visibile dall’invisibile, il corpo dalla sua memoria, la carne dalla sua traccia. I suoi film interrogano la morte come spazio di trasformazione e quindi non è tanto ciò che finisce, ma ciò che muta, si decompone, si reinventa. In questo film, la morte diventa un evento osservabile, diciamo monitorabile. Il sistema che ha escogitato per sorvegliare la moglie ma anche gli altri corpi sepolti nel cimitero che ha aperto, serve a lui come ai parenti degli altri, come se il lutto possa essere gestito e accettato attraverso un accesso visivo. Qui Cronenberg non celebra la tecnologia, che è importante ed essenziale allo scopo, ma è solo un mezzo, e la usa per dimostrare quanto il desiderio umano di permanenza sia radicato nella paura dell’oblio. Il corpo morto, reso visibile, diventa un documento, una reliquia, un’interfaccia. Serve, quindi, a non dimenticare, casomai possa succedere. Si è sempre con il caro. Un archivio facilmente consultabile tramite lo smartphone che accede al display della lapide.



Ovviamente Cronenberg è Cronenberg, sempre, e quindi come in altre opere precedenti (vedi Crash o Crimes of the Future) la morte è intrecciata all’eros, alla chirurgia, alla mutazione. Il corpo ferito non è solo simbolo di fine, ma di apertura: una superficie su cui incidere nuovi significati. La decomposizione non è negata, ma sublimata in gesto raffinato, come un rituale artistico. Il regista sembra suggerire che la morte, se accolta, può diventare linguaggio. Le fedi religiose, che parlano sempre di sopravvivenza dell’anima, vengono perciò accantonate: ai vivi resta l’immagine e in questo senso, il suo cinema diventa un atto di resistenza contro la cancellazione e ogni inquadratura è una forma di memoria, ogni corpo filmato è un corpo che rifiuta di sparire. Un funerale permanente per non lasciarsi. Avete mai provato quel senso di abbandono quando lasciamo il corpo di un nostro caro in un cimitero e andiamo via? Perché dobbiamo lasciarlo solo e non vederlo mai più?



Nel film si narra di quando, quattro anni dopo la morte per cancro di sua moglie Becca (Diane Kruger), l’uomo d’affari Karsh inventa, con l’aiuto del fratello informatico Maury (Guy Pearce), una tecnologia chiamata GraveTech tramite la quale su un piccolo monitor posto sulla lapide viene trasmessa un’immagine tridimensionale interattiva del cadavere in decomposizione conservato nella tomba. L’immagine è creata da un sudario (shroud) (o sindone) high-tech. Nel frattempo, non desiderando una nuova relazione, mantiene una stretta amicizia con la sorella gemella (praticamente una sosia di Becca), Terry (sempre Diane Kruger). Lui sogna spessissimo la moglie che torna da lui, ricucita e cicatrizzata dopo i tanti interventi, monca ma sempre desiderabile, che ogni volta però ha appena lasciato l’uomo che l’ha curata: il dottor Jerry Eckler, il suo amante, ma ogni volta che si fa presente è sempre più debole e smembrata.



Una notte, diverse lapidi nel cimitero di GraveTech (così si chiama il luogo), tra cui quella di Becca, vengono distrutte e la rete della tecnologia viene crittografata dagli hacker, lasciando solo i sudari. Il cognato Maury - che ha codificato la sicurezza del camposanto e che ha creato un assistente virtuale per il pc di Karsh chiamato Hunny (la voce della quale è sempre quella di Diane Kruger) - scopre che l’intrusione informatica e il furto dei dati hanno avuto origine in Islanda, uno dei paesi in cui Karsh prevede di espandere la sua attività. Guardando gli screenshot del cadavere di Becca, il vedovo nota strane escrescenze sulle ossa che non possono essere state causate dalla malattia (“Quando il corpo muore, muore anche il cancro”, dice il dottore). Allo stesso tempo, viene avvicinato da Soo-Min (Sandrine Holt), la moglie cieca di un imprenditore che vuole sponsorizzare il cimitero tecnologico a Budapest. Tra loro nasce un’attrazione immediata. Ma anche tra Karsh e Terry scoppia la passione erotica che stava maturando da tempo: a lui sembra quasi di riavere tra le braccia la moglie, che, a suo tempo, lo metteva in guardia al proposito. Le implicazioni internazionali di spionaggio industriale, e non solo, spiegano molte cose e l’imprenditore ne è spiazzato: tutto poteva immaginare nella sua vita ma mai che potesse nascere in intrigo così potente da comprendere la morta della moglie, il cimitero high-tech, l’interesse dei cinesi e dei russi, hacker misteriosi e, incredibile a dirsi, anche i radiografi che aveva consultato. La chiave di tutto è proprio in quelle piccole protuberanze scoperte sulle ossa che non sono affatto naturali ma scientifiche, ad alta tecnologia. Sensori, trasmettitori, spie.



A nulla serve cercare informazioni sulla rete, perché lo spionaggio telematico evoluto è oltre, è sopra la superficie, zona che le persone normali non conoscono. “Google si può ingannare” riflette Karsh mentre deduce che non ci si può fidare di nessuno, neanche del fratello Maury o dei personaggi di Diane Kruger, donna che, come ha modo di dedurre, è un voluttuoso simulacro di sessualità, sia nella versione onirica e cicatriziale di Becca (Crash insegna), sia in carne e ossa nei panni di Terry, la sorella della moglie defunta. O addirittura in quella dell’assistente virtuale Hunny, che ha sempre la sua voce. L’eros, esplorato come in parecchi altri film di Cronenberg, è la causa che avvicina la bella tycoon non vedente di cui dovrebbe fidarsi, mentre Guy Pearce è un ambiguo Otello dei tempi moderni, ma in chiave nerd che, sbandato e ricattato, si ripresenta in uno stato di pietoso e sull’orlo della pazzia. Tutti questi elementi rendono sempre più perplesso e perso l’ingenuo Karsh, la vera ed unica vittima di una compagnia che approfitta di lui. Solo l’attraente ed erotica Soo-Min può essere la salvezza ma sul suo jet privato, quando si assopisce, la rivede accanto con i medesimi squarci corporali e le stesse menomazioni della moglie. Le figure si ripropongono e si sostituiscono, la realtà si sovrappone, Karsh si abbandona. I segreti, i misteri, il non spiegato restano sepolti.



Un finale che scombussola ma che è profondamente nel tema, coerentemente logico, un gesto profondamente simbolico e disturbante, che incarna il cuore filosofico del film: la negazione dell’irreversibilità della morte e il desiderio umano di ricostruire ciò che è perduto, anche a costo di falsificare la realtà. Soo-min non è Becca, ma si comporta come se lo fosse. Questo scambio non è solo una truffa o una manipolazione: è la manifestazione estrema del bisogno di Karsh di riavere sua moglie. Cronenberg ci mostra come il lutto possa spingere l’individuo a sostituire la perdita con una copia, un simulacro, pur di non affrontare il vuoto. È una riflessione sulla sostituibilità dell’identità in un mondo dominato dalla tecnologia e dalla rappresentazione. In maniera surrogata, Becca è ancora con lui, nonostante tutto. Infatti, mentre si baciano, Soo-min, che gli era apparsa improvvisamente con cicatrici identiche a Becca, parlando con la sua voce, si offre di essere sepolta con lui a Budapest, cosa che lui accetta.



C’è una frase del protagonista che è un’ulteriore spiegazione del pensiero di Cronenberg a riguardo del film: “Per gli ebrei il corpo deve decomporsi lentamente in modo che l’anima ossessionata da quel corpo che ama, riluttante a lasciarlo andare, che ha visto il mondo solo attraverso gli occhi di quel corpo, abbia il tempo di separarsene in modo graduale di dirgli addio e poi di ascendere al cielo.” È un’ulteriore chiave di lettura del film, che è, come ci si può attendere da un autore di questo calibro, un enigma e un sogno a cui ci si deve arrendere, senza cercare spiegazioni o verità assolute che spesso risultano inutili e frustranti. Dopo Crimes of the Future, il regista continua così la sua esplorazione dei confini tra tecnologia, corpo e mente con un’opera che è, in modo evidente, la più intima e personale dell’intera sua carriera, da lui ideata dopo la morte della moglie, scomparsa nel 2017. “Sono stato sposato per 43 anni e quando è morta ho pensato che non sarei mai più riuscito a fare un film. Da lì ho capito che dovevo affrontare un film come questo.” Inevitabile notare come il Karsh di Cassel sia una non troppo nascosta versione alter ego dello stesso, con cui condivide stile, acconciatura e pensiero religioso (“Siamo entrambi atei” ha sottolineato il regista durante un incontro con la stampa), come anche l’amore per la tecnologia, molto evidenziato, in questo caso, dall’utilizzo della Tesla (anche se “non ci sono riferimenti diretti ad Elon Musk” ha tenuto a precisare).



Infine, è molto interessante cosa ha affermato a proposito delle immagini dei morti che si desidera conservare, come fa il protagonista: “Penso che il nostro rapporto attuale con la fotografia abbia cambiato le cose: oggi la tradizione della fotografia post mortem, con la quale nell’Ottocento si simulava la vita nei morti mostrandoli accanto ai vivi, in cui i morti erano vestiti con abiti buoni e stavano seduti accanto ai vivi, sembrerebbe molto macabra. Ognuno di noi sul telefono ha molte foto dei familiari defunti e l’esigenza di preservarne l’immagine con quel tipo di foto non esiste più, se non in alcuni paesi. Oggi si tende ad evitare di avvicinarsi troppo ai morti. Nel mio film non si tratta di far finta che i defunti siano vivi, ma di partecipare al viaggio di questo corpo che cambia, che si decompone e che ritorna alla terra. E di non avere paura di farlo, ma desiderarlo”. Non so cosa può pensare chi mi legge, ma io trovo in questo film una forma smisurata di amore verso la donna che lui non avrà più accanto.



Per il mio giudizio è un film non facile ma molto bello, grandioso dal punto di vista estetico, meraviglioso da quello tecnico, rappresenta la lettura personale della perdita di cosa non si vuole perdere e ovviamente David Cronenberg l’ha realizzata alla sua inequivocabile e inimitabile maniera, guardando dentro al mistero della morte senza il filtro del comune pensiero che limita la libertà espressiva, senza porre ostacoli alle immagini disturbanti. Come ha sempre fatto, d’altronde. Per questo, anche la sua ultima opera è grandissimo cinema di un uomo coerente che fa della sua professione un’arte eccelsa. Vincent Cassel credo di poterlo giudicare nella sua migliore prestazione di sempre: lontano dai film d’azione o delle storie delle banlieue parigine, si è trasformato nell’alter ego del regista in modo straordinario (mi distraevo osservano la pettinatura uguale), recitando in maniera fluida e credibile. Diane Kruger e Sandrine Holt sono molto importanti sia nella trama che nelle interpretazioni, dividendosi la palma della donna più desiderabile e quella per la partner ideale per il protagonista, recitando molto bene per dare senso a quello che sicuramente il regista si attendeva da loro. Brave come l’altro attore importante del cast, Guy Pearce, in un ruolo in alcuni tratti sopra le righe, come tante volte vediamo nei film del grande regista canadese. Che è davvero un gran maestro, l’unico al mondo che può immaginare un ristorante di alta cucina con la vetrata che si affaccia su una necropoli, tecnologica sì, ma sempre cimitero è.

 


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