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Voci d’oro (2019)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 9 ott 2024
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 10 ago

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Voci d’oro

(Golden Voices) Israele 2019 commedia drammatica 1h38

 

Regia: Evgeny Ruman

Sceneggiatura: Evgeny Ruman, Ziv Berkovich

Fotografia: Ziv Berkovich

Montaggio: Evgeny Ruman

Musiche: Asher Goldschmidt

Scenografia: Sandra Gutman

Costumi: Rona Doron

 

Maria Belkina: Raya Frenkel

Vladimir Friedman: Victor Frenkel

Evelin Hagoel: Dvora

Uri Klauzner: Shaul

Elizabeth Kon: Nadia

Nadia Kucher: Irina

Alexander Senderovich: Gera

Vitali Voskoboinkov: Shurik

 

TRAMA: Raya e Victor hanno costruito una carriera condivisa come doppiatori cinematografici, i più amati dell’Unione Sovietica. Mentre l’URSS crolla, la coppia ebrea deve emigrare in Israele e reinventarsi per trovare un nuovo lavoro.

 

Voto 6,5


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Ogni tanto qualche cineasta russo o limitrofo, avendo vissuto o - essendo più giovane - ascoltato le storie di quell’epoca, scrive e gira un film del disfacimento dell’impero sovietico, del crollo del famigerato Muro, della Cortina di Ferro e della Guerra Fredda. Spesso anche dell’incertezza dei cittadini impauriti dai cambiamenti in atto: la vita agra che conducevano non li faceva sentire felici ma per loro era contemporaneamente una sicurezza, un’esistenza prevedibile e quindi senza scossoni. Li animavano solo i sogni di un maggior benessere. Quando poi tutto si è avverato, ognuno ha cercato il suo futuro, restando oppure partendo se appartenenti ad una stirpe o religione non prettamente dell’est europeo. Lo dimostra la significativa migrazione di ebrei da quei territori in quel periodo e questo movimento ebbe un impatto notevole sulla demografia ebraica globale. Israele e Stati Uniti furono le principali destinazioni. Nel primo stato la popolazione ebraica crebbe rapidamente grazie proprio all’afflusso degli ebrei dall’ex-URSS, contribuendo in modo significativo alla crescita demografica del paese.


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Su questo argomento, come tanti altri, rivolge lo sguardo anche Evgeny Ruman, regista, sceneggiatore e montatore israeliano, nato nel 1979 a Minsk, in Bielorussia, che nel 1990 si è trasferito in Israele con la sua famiglia studiando presso l’Università di Tel Aviv, dove ha iniziato a scrivere e dirigere prima alcuni corti e poi diversi lungometraggi con alterno successo, ma affermandosi in campo internazionale con questo film carinissimo, che racconta di una vicenda seriosa con il registro della commedia. Divertendo e facendo riflettere.


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Rispettando quanto detto, si segue la storia di una coppia affiatata e matura, quella di Victor e Raya Frenkel, che in patria, cioè nell’Unione Sovietica, erano tra le voci più celebri del doppiaggio cinematografico da decenni. Moltissimi film occidentali arrivati nel Paese erano stati doppiati dalle loro voci, voci dorate, ma nel 1990, con il crollo di quella che poi è diventata una Confederazione di stati (apparentemente) indipendenti, decidono di fare “aliyah”, ovvero quel fenomeno di emigrare in Israele come intanto hanno fatto negli anni centinaia di migliaia di ebrei sovietici. Quando però si accorgono con grande stupore che il Paese che li ha accettati non ha bisogno di doppiatori russi, i tentativi dei due di usare il loro talento finiranno per causare eventi bizzarri e inaspettati.


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Il film racconta in modo un po’ divertente ma anche drammatico gli sforzi di questa coppia che nel frattempo deve pure affrontare i problemi normali per adattarsi alla vita in quel paese e gli sforzi necessari di ambientamento. Intanto i risparmi portati dietro, senza una occupazione adeguata, stanno esaurendosi: hanno affittato un appartamento carino e si son messi a cercare lavoro, magari offrendo la loro esperienza di doppiatori, dato che sono conosciuti anche lì. La storia appare subito intrigante quanto la sua narrazione. I due, alla disperata ricerca di un nuovo lavoro per coprire le spese di sostentamento, si rendono conto appunto che la loro specializzazione, lì, non serve a nulla. Si assiste allora ad una nuova pagina della loro vita di coppia, dovendo ancora scoprire il modo di vivere, le consuetudini. E non sanno neanche parlare la lingua. Ce ne rendiamo conto anche nei passaggi del film che paiono banali e che non lo sono, come quando ricevono le maschere antigas che in Israele sono la normalità ma che loro non riescono ad accettare, non riescono a metabolizzare quel modo di vivere.


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Fin qui parrebbe tutto normale, fino a quando Raya, rispondendo ad un annuncio del giornale, a proposito di un impiego dove bisogna lavorare al telefono per conto di una ditta, scopre con sconcerto che si tratta di una linea telefonica hot: bisogna essere disposta, come le tante colleghe che vi lavorano, a rispondere con voce sexy alle chiamate di uomini che hanno frenesie erotiche. Mentre Victor riesce a barcamenarsi doppiando film pirata per una ditta fuorilegge e si ritrova tutte le sere solo in casa, stanco di questa vita, scopre per caso che razza di lavoro svolge la moglie. Facile immaginare lo sconforto e l’inquietudine della scoperta e il litigio conseguente. Il lato divertente della faccenda è che lei, abituata al vecchio lavoro in patria, è bravissima a sembrare una giovane ragazza molto invitante al telefono, tanto che la sua linea è caldissima e si guadagna più di un ammiratore solitario, che vuole addirittura incontrarla. Gioco che la riempie di stima sentendosi desiderata proprio nel periodo in cui il marito la trascura perché stanco e preoccupato. Una sbandata di qua, un lucido e obiettivo esame di coscienza e una tranquilla disamina della situazione di là, tutto serve per chiarirsi e prendere le giuste decisioni.



Per questo e per altri aspetti, il bel film risulta una commedia agrodolce che esplora con delicatezza e intelligenza il tema dell’emigrazione e dell’adattamento culturale, oltre che degli equilibri delicati all’interno di una coppia che si ama. La pellicola diventa un viaggio emotivo dei due protagonisti che tocca temi come l’appartenenza, la nostalgia e la rinascita, mostrando come l’arte del doppiaggio sia stata una parte fondamentale della loro identità e come la perdita di questa arte influenzi profondamente le loro vite.



In molte inquadrature, le espressioni attonite, la posizione della camera da presa, la postura degli attori, i colori della fotografia (qui meno pastello e più freddi) fanno venire in mente il cinema di Aki Kaurismäki e i suoi personaggi disadattati, che per fortuna prendono sempre la vita per quella che è e vi si adattano per sopravvivere. Per la riuscita del film, oltre alle buone idee di Evgeny Ruman e Ziv Berkovich, che si dividono il lavoro di regia, sceneggiatura, montaggio e fotografia, contribuiscono i due attori protagonisti: Maria Belkina e Vladimir Friedman sono davvero bravi e simpatici, una coppia affiatata sul set come nel copione.



Per concludere va detto che il film non solo rende omaggio al cinema (la foto che ritrae i due personaggi con Fellini è un aneddoto politico formidabile oltre che una grande brillante idea) e ai suoi artisti ma anche alla resilienza umana di fronte ai cambiamenti della vita. Simpatico, divertente il giusto, malinconico a tratti, un film piacevole da guardare. Lo dimostrano i vari premi e le candidature aggiudicati in Israele, Estonia, Gran Bretagna, Cina e perfino al BIFEST di Bari, dove ha vinto come miglior regia.


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Certo, vedere questa opera in questo momento delicatissimo della Storia mediorientale, e israeliana in particolare, fa molto effetto. Speriamo che l’Umanità torni alla pace e a storie come queste.



Commenti


Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

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