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120 battiti al minuto (2017)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 1 lug 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

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120 battiti al minuto (120 battements par minute) Francia 2017, drammatico, 2h23’


Regia: Robin Campillo Sceneggiatura: Robin Campillo, Philippe Mangeot Fotografia: Jeanne Lapoirie Montaggio: Robin Campillo, Stephanie Leger, Anita Roth Musiche: Arnaud Rebotini Scenografia: Sandra Castello, Emmanuelle Duplay Costumi: Isabelle Pannetier


Nahuel Pérez Biscayart: Sean Arnaud Valois: Nathan Adèle Haenel: Sophie Antoine Reinartz: Thibault Félix Maritaud: Max Médhi Touré: Germain Aloïse Sauvage: Eva Simon Bourgade: Luc Catherine Vinatier: Hélène Saadia Bentaieb: madre di Sean Ariel Borenstein: Jérémie


TRAMA: Agli inizi degli anni Novanta nasce Act Up, un'organizzazione di attivisti che hanno come scopo quello di richiamare l'attenzione sull'AIDS e sulle conseguenze che l'HIV ha sui malati. A fondarla è un gruppo di militanti, qualche tempo prima dell'inizio dell'applicazione della triterapia. Tra le fila di Act Up, il giovane Nathan vedrà la sua vita cambiare grazie all'incontro con il radicale Sean.


Voto 7


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Dal 1981 l'AIDS ha ucciso oltre 25 milioni di persone, diventando una delle epidemie più distruttive che la storia ricordi. Questo film parla della malattia da un punto di vista del tutto particolare e che fa molto effetto. Film tumultuoso, ritmato e montato come debba dimostrare nello svolgimento il titolo stesso, titolo che si rifà ai 120 battiti al minuto della musica pop dei primi anni Novanta, il cui commento musicale accompagna freneticamente una visione “rapita”, coinvolgente e sconvolgente, che non sembra un racconto da film ma un documentario frenetico su quegli anni ’90 che hanno scosso la gioventù parigina.


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Robin Campillo, regista/sceneggiatore franco marocchino, si occupa di questa storia vera anche perché lui stesso entrò a far parte dell’”Act Up-Paris”, associazione attivista (o meglio collettivo, che indica meglio il modo giovanile con cui si è espressa) che si è impegnata per richiamare più forte l’attenzione sul grave problema della malattia, spesso sottovalutata e mal combattuta, in quanto non pochi pensavano che potesse riguardare solo omosessuali e drogati. L’operazione di Campillo ha intenti chiari: narrarci anche con metodo didascalico gli avvenimenti di quei giorni, i dibattiti, i dissidi, le divergenze di vedute tra gli attivisti e passando abilmente e alternando le vicende pubbliche (assemblee e discussioni, lotta politica e sociale) e la storia privata quasi da mélo che nasce all’interno. Un amore intenso e altrettanto tumultuoso come il film tra Nathan e Sean è l’alternativa all’anima combattiva dell’opera.


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Dice il regista Campillo: “A interessarmi non era tanto la differenza tra realtà e finzione, quanto la possibilità di avere dimensioni spaziotemporali diverse e accentuarne il contrasto: per esempio, c’è l’anfiteatro dove si tengono le assemblee di Act Up, più realistica, alla quale ho contrapposto quella del night club dove i ragazzi si ritrovano per ballare, che ne è il negativo, i due ambienti sono come il bianco e il nero. Era molto tempo che volevo fare un film sull’AIDS. Io facevo parte di Act Up, quindi per me la rappresentazione delle azioni del gruppo era la cosa più importante. Non volevo fare un ritratto d’epoca, né evocare fantasmi: volevo parlare di persone viventi, restituire la vitalità di quei militanti. Molto di quel che metto in scena l’ho vissuto in prima persona, mi premeva rappresentare il dibattito democratico di Act Up, il confronto sul campo che ora non esiste quasi più: la gente si parla su internet, ma non di persona, è una cosa rara. Sto accompagnando il film in alcune proiezioni in Francia e mi accorgo che gli spettatori sono colpiti dall’intensità di quelle discussioni: sembrano sbucate da un’epoca molto più lontana, cui non siamo abituati.”


Il drammatico finale sarà toccante e farà riflettere, a conferma delle riuscite intenzioni dell’autore. Il film ha vinto 45 premi in tutto il mondo, di cui quattro a Cannes.



 
 
 

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