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1918 - I giorni del coraggio (2017)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 14 set 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 30 giu 2023


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1918 - I giorni del coraggio

(Journey's End) UK 2017 guerra 1h47’


Regia: Saul Dibb

Soggetto: Robert Cedric Sherriff (Journey's End)

Sceneggiatura: Simon Reade

Fotografia: Laurie Rose

Montaggio: Tania Reddin

Musiche: Natalie Holt

Scenografia: Kristian Milsted

Costumi: Anushia Nieradzik


Sam Claflin: cap. Stanhope

Asa Butterfield: ten. Raleigh

Paul Bettany: ten. Osborne

Tom Sturridge: ten. Hibbert

Stephen Graham: ten. Trotter

Toby Jones: Mason


TRAMA: Jimmy Raleigh ha lasciato la scuola per arruolarsi nella compagine C del capitano Stanhope, in cui opera come generale suo zio. Ciò che non sa è che la compagine dovrà stare in trincea per sei giorni e notti per respingere il massiccio attacco tedesco che tutti si aspettano. L'arrivo di Raleigh non è ben accolto da Stanhope che, per via del suo vizio di bere, teme che il giovane possa raccontare la verità a sua sorella, di cui il capitano è innamorato. Quei sei giorni del 1918 decideranno non solo il destino del sempre più dissociato Stanhope e di Raleigh ma anche del gruppo di ufficiali che li affianca.


Voto 7

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Un film il cui titolo ci fa venire in mente un altro molto simile, ma solo in italiano, dato che i nostri distributori si divertono così tanto a cambiare per cercare di fare effetto sugli spettatori di casa nostra. Due anni prima, infatti, del successo mondiale di Sam Mendes con il suo 1917 (leggi qui), ecco Saul Dibb, già noto alle cronache per il patinato La Duchessa e per il mediocre mélo Suite francese, che al suo quarto lungometraggio propone uno squarcio della vita da trincea che ha notevolmente caratterizzato la Prima Guerra Mondiale, detta appunto guerra di posizionamento. A differenza di quello che interesserà al regista più noto, già Premio Oscar e suo connazionale, l’opera di Dibb non punta sui movimenti strettamente bellici, non è un film d’azione, anzi tutt’altro.

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Più che mai, il termine di guerra di posizionamento è ciò che maggiormente si addice a questa pellicola, dal momento che il regista - che traspone sul grande schermo il lavoro teatrale Journey End’s di Robert Cedric Sherriff del 1928, quindi scritto solo dopo qualche anno dalla fine del conflitto – si interessa unicamente all’indagine introspettiva dei personaggi, in particolar modo al protagonista, il capitano Stanhope, che comanda una Compagnia C appena giunta nelle trincee che fronteggiano la linea tedesca nel cuore della Francia. Gli alleati sono al corrente che i germanici sono pronti allo sfondamento del fronte inglese e sono quindi in preallarme, sostituendo ogni sei giorni le truppe nelle trincee: ogni compagnia che riparte prova sollievo nel cuore per aver scampato la dura battaglia ritenuta grosso modo persa in partenza, o perlomeno molto dura, e quella che arriva a dare il cambio sa che può toccare a lei il duro compito di dover opporre strenua resistenza al nemico. L’ordine è purtroppo chiaro e non illude: in caso di attacco tedesco bisogna assolutamente opporre resistenza per rallentarne l’avanzata. Non di rispondere, rintuzzare e magari spingere più dietro l’avversario, ma ritardare il più possibile l’offensiva e lo sfondamento, essendo ben consci della momentanea e locale maggior potenza del nemico.

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Non è un buon viatico per chi vi arriva, non è la migliore prospettiva per le stanche truppe inglesi che trovano mediocri fortificazioni a difesa delle loro postazioni: travi marce, filo spinato fatiscente, fango perenne, cibo di qualità scadente. La guerra è iniziata ormai da qualche anno e tanti sono stanchi, provati, non sanno se rivedranno i congiunti. Chi ci introduce nell’ambiente è Jimmy Raleigh, un bel giovin ufficiale alle prime armi, appena uscito dalla scuola militare, che pieno di entusiasmo e forse ingenuità arriva di sua spontanea volontà in quel tremendo posto perché a capo c’è un suo zio generale e il capitano della Compagnia C è proprio il pretendente la mano di sua sorella, il capitano Stanhope. L’atmosfera che regna tra quegli uomini appena giunti al fronte è di attesa ma anche di speranza che quello non sia il momento dell’attacco atteso. In pochi giorni veniamo a conoscere il carattere, i pregi e le debolezze della squadra di ufficiali che vivono assieme al capitano nel rifugio. Quel comandante è oramai allo stremo delle sue capacità psicologiche e sfoga le stanchezze, i difetti, le paure, le insicurezze, le enormi responsabilità per gli uomini al suo comando costantemente attaccato alla bottiglia di whisky. Il suo alito lo tradisce con tutti, con i suoi volenterosi uomini e con i superiori, che lo giudicano ottimo ufficiale ma pessimo uomo rovinato dal perenne stato alcolemico. Nonostante tutto è ben voluto, anche da chi soggiorna con lui nel rifugio. Il fidato tenente Osborne (un eccellente Paul Bettany) che lo sostiene come un fratello, lo conforta e lo incoraggia; il secondo tenente Trotter (il tosto Stephen Graham, un gran caratterista che quando ha avuto la possibilità di primeggiare su altri set è stato validissimo, vedi Blood, proprio con Bettany), sempre pronto ad assolvere ai doveri e a ubbidire ad ogni comando del capo; l’altro tenente in seconda Hibbert, costantemente sull’orlo del baratro del terrore fino al punto di dichiararsi sempre malato (immaginario), perfettamente interpretato con l’esile fisico giusto di Tom Sturridge; chi si aggiunge appunto è il giovane e intraprendente tenentino Raleigh, il mitico Asa Butterfield dello scorsesiano Hugo Cabret, il quale è cresciuto così tanto che oggi è alto 1,83, da dover chinare il capo per passare sotto la porta del rifugio. Essi sono serviti dai tre cucinieri personali capeggiati dal servizievole Mason (Toby Jones), pronto continuamente ad accorrere con la bottiglia di whisky, fin quando dura, e quando l’alcol finisce è proprio l’ora temuta e tanto allontanata dalla mente. Su tutti ovviamente aleggia l’intrattabilità e l’iracondia di Stanhope, interpretato con energia e foga dal sorprendente Sam Clafin, attore che mai mi sarei aspettato in questo ruolo, avendolo sfiorato solo in film da cassetta o almeno in ruoli non così impegnativi. Non so davvero se è l’attore giusto per questo protagonista, ma di certo si è molto impegnato e credo che abbia fornito una buona prestazione.

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Saul Dibb non punta, quindi, sul lavoro del lato bellico, ma esplora l’aspetto introspettivo della psicologia degli uomini, delle loro speranze, della voglia di rivedere i parenti lontani, di salvare la pelle. Ma soprattutto scava a fondo nella personalità complessa e degenerato del capitano, che dimostra nel momento giusto come comunque avesse a cuore la salvezza dei suoi soldati. Il regista sfiora appena l’argomento dell’azione solo per la sortita ordinata dal generale per sondare il numero dei tedeschi e rapire letteralmente dalla trincea opposta un militare per poterlo interrogare e sapere così la data prestabilita dell’attacco imminente. È quella l’unica azione, tra l’altro sanguinosa e con gravi perdite, a cui assistiamo, oltre a quella del finale drammatico in cui i tedeschi all’ora prestabilita sferrano l’attacco a forza di mortai e cannoni causando la carneficina come gli stessi alleati temevano. Carne da macello votata alla certa morte per poter solo ritardare l’avanzata, che neanche rallentano più di tanto. D’altronde, senza certo rifarsi all’antimilitarismo dei grandi autori (Kubrick, Rosi e tanti altri) sappiamo tutti bene che i conflitti li decidono i politici, le strategie gli ufficiali generali, le battaglie gli ufficiali da campo, ma le guerre vere e proprie sono opera dei contadini, degli operai e della gente comune, ascritti nelle liste dell’esercito spesso contro la propria volontà: carne pronta alla macellazione per diventare pagine di Storia. Come si è ripetuto nel secondo conflitto mondiale, come nell’inferno del Vietnam, Iraq, Afghanistan, dove nella massa popolare dei soldati si son aggiunti quelli di colore, che storicamente fanno parte della manovalanza votata al sacrificio. Ermanno Olmi nel suo ultimo film ne fece un’omelia laica, mostrando le tenerezze e le paure degli uomini comuni nelle trincee degli altopiani alpini, Saul Dibb ci addentra nel fango della campagna francese e nella mente di chi attende la guerra e la morte.

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Complessivamente un film che non dà grandissime emozioni e che sa farci addentrare nell’atmosfera di una guerra brutale, che è sempre brutale, che ha sacrificato un numero immenso di giovani che hanno dovuto abbandonare il lavoro, le famiglie e i loro futuro. Il triste finale ce lo illustra chiaramente con le tragiche statistiche dei caduti.


Il giudizio del film è comunque senz’altro positivo.


 
 
 

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