A Bluebird in My Heart (2018)
- michemar

- 15 apr 2020
- Tempo di lettura: 5 min

A Bluebird in My Heart
(Tu ne tueras point) Francia/Belgio 2018 thriller 1h25’
Regia: Jérémie Guez
Soggetto: Dannie M. Martin
Sceneggiatura: Jérémie Guez
Fotografia: Dimitri Karakatsanis
Montaggio: Dieter Diependaele
Musiche: Séverin Favriau
Scenografia: Geert Paredis
Costumi: Ellen Lloyd
Roland Møller: Danny
Lola Le Lann: Clara
Veerle Baetens: Laurence
Lubna Azabal: Nadia
TRAMA: L'esistenza di un ex galeotto che aspira alla tranquillità viene brutalmente sconvolta il giorno in cui Clara, la figlia della proprietaria del motel che lo ospita, rimane vittima di un'aggressione.
Voto 8

Il cliché è abusato, ok. Di trame di galeotti, ex o in permesso, pentiti o rancorosi, resi mansueti dalle esperienze o rimasti incattiviti, in cerca di pace o di vendetta, ne conosciamo abbondantemente. Ogni schema è fertile ed è aperto a qualsiasi soluzione, a tanti percorsi facili o impervi, c’è solo da avere la pazienza di incappare non tanto nel soggetto buono quanto nel regista giusto che porti qualche novità e nel cast adatto, ché di tipastri dal brutto ceffo, muscolosi quanto vi pare, se ne trovano a bizzeffe. Ecco perché all’ennesimo film sul carcerato che esce di prigione, per un motivo o per l’altro, ci si avvicina con cautela e scetticismo. Poi succede l’inaspettato, la sorpresa che fa spalancare gli occhi e l’udito (la lingua originale è notevolmente influente, proprio e ancora una volta come in questo caso) e talvolta, come succede qui, apre il cuore. Ma cosa è stato così importante da svegliare tanto la mia attenzione e ammirazione?

Danny è appena uscito dal carcere ed è sotto sorveglianza alle condizioni dettate dal tribunale: cavigliera elettronica, comunicazione precisa e puntuale del domicilio, rientro serale nell’abitazione scelta, pena il rientro in gattabuia. Ineccepibile e rituale. Danny è il classico galeotto taciturno, provato dalla vita, che si nasconde dietro una folta barba per passare maggiormente inosservato. Non intende dare fastidio a nessuno e non vuole essere notato, dal momento che meno contatti avrà meno probabilità di ricacciarsi nei guai ci saranno. Mimetizzarsi è lo scopo del suo guardingo comportamento, limitando al minimo le occasioni. Quel minimo prevede forzatamente un lavoro, una qualsiasi mansione che preveda un degno compenso in modo da poter vivere senza dipendere dalla generosità degli altri. Un lavoro e un letto. L’essenziale. È di pochissime parole, si esprime limitatamente con lo sguardo, che non è cattivo: basta un piccolo gesto o un movimento della testa e si intuiscono le sue intenzioni.

La rieducazione, si sa, è uno dei compiti che si assume l’ambiente carcerario, unitamente al reinserimento nella società e specialmente nel cinema americano si può osservare come le persone licenziate dalle patrie galere trovino, seppur con qualche difficoltà, un’occupazione per rientrare nel tessuto sociale e produttivo e per rendersi indipendenti economicamente. Non poche volte abbiamo notato che l’occasionale datore di lavoro, dopo essersi informato sui precedenti dell’individuo che si presenta, lo accetti comunque, eventualmente stando attento al comportamento e al rendimento. In ogni caso egli viene messo, si può dire, alla prova dei fatti e quindi, se tutto va bene, la reintegrazione avviene senza intoppi. Più o meno è ciò che succede a quel pezzo d’uomo forte e robusto chiamato Danny, il cui sguardo dagli occhi chiari riesce a conquistare la fiducia di Nadia, la padrona di “Wok - Le palais du dragon”, un ristorante cinese dove ha trovato un modesto ma sicuro lavoro: il lavapiatti. Lui lavora in silenzio, duramente, senza mai eccepire alcunché, fino a conquistare ben oltre la fiducia della donna, anche una certa attrazione. E come sempre, interviene l’anello debole della catena a rompere il fragile equilibrio, sia perché il protagonista è buono ma non si fa calpestare i piedi senza reagire, sia perché inciampa in un avvenimento scomodo in cui non riesce a rimanere impassibile e passivo e fa tornare gli antichi demoni.

Quell’anello debole è Clara, la figlia Laurence, la signora single che gestisce il motel dove ha trovato una stanza, e che acconsente anche di fargli fare alcuni lavori di riparazione. La giovin ragazza è alquanto disinibita e provocatrice per natura e frequenta un amico, un giovanotto poco affidabile e dalla evidente dubbia onestà. La violenza che Clara subisce da questi in una umida notte scatena la reazione violenta del protagonista, che preso dall’ira e dal forte senso di protezione verso la ragazza va oltre le intenzioni iniziali di una semplice punizione. Ma il vero problema è che quel delinquente di bassa lega aveva un carico prezioso di droga nella sua auto, che è andata forzatamente bruciata per non lasciare tracce. I suoi criminali compari non tardano a farsi vivi per tornare in possesso del piccolo carico. Facile immaginare l’esplosione di violenze sin dal primo scontro: diventa una lotta senza quartiere. Da una parte una piccola banda senza scrupoli, dall’altra un uomo di carattere che non voleva essere molestato nella fase della sua rinascita. Una battaglia letale e cruenta che deve veder trionfare inevitabilmente una sola parte e se sarà Danny sarà però anche la sua fine di uomo tornato libero. Come il pistolero senza nome di clintiana memoria che arriva nel piccolo villaggio ove spadroneggia il bandito locale e che sente il dovere morale di intervenire e mettere fine alle angherie, così Danny è per la ragazzina e sua madre, anche se egli si rende conto benissimo che il coinvolgimento gli rovinerà il futuro che aveva pianificato e sperato.

Solito cliché, si diceva all’inizio, ma c’è modo e modo per svolgere il compito e narrarlo. Il giovane regista francese Jérémie Guez firma un esordio di tutto rispetto, con molta sicurezza, simile a quella di un navigato cineasta, dirigendo gli attori come se avesse una lunga esperienza, girando le scene con bravura clamorosa, anche quelle di azione. Uno degli aspetti più interessanti che il regista ha sapientemente illustrato è quello psicologico e di approccio tra i personaggi che ovviamente prima non si conoscevano. Un disvelamento ottimamente chiarito dalla sua eccellente sceneggiatura – ricavata dal romanzo di Dannie M. Martin – e dagli efficaci dialoghi. La trascrizione di un paio di questi esplica il motivo di tale apprezzamento. La prima scena è grosso modo il primo vero incontro tra il protagonista e la ragazza:
Clara: Di dove sei?
Danny: (silenzio)
C.: So che vieni dalla Danimarca. So che sei stati in prigione… Beh, io so molte cose su di te.
D.: Allora perché continui a fare domande?
C.: Mio padre dice di non chiedere mai per quale motivo sei stato in prigione.
D.: Beh, dovresti dar retta a tuo padre, no?
C.: Lui non è qui. Conosci Tony Jassens?
D.: No.
C.: È mio padre. È in prigione anche lui. A Fresnes
…………….
D.: Noi due avevamo un patto, parli troppo, lo sai?
La scena poi si chiude con un piccolo trucco di prestidigitazione dando così il via a una minima amicizia. È da quel momento che Clara prova empatia verso Danny e lo guarda con un po’ di ammirazione, avvertendo ancor di più l’assenza del padre e stuzzicando ancora una volta il suo piacere a provocare gli uomini.
Seconda occasione. Una breve frase della mamma Laurence detta a Danny in riferimento al carattere della figlia:
A mia figlia piace fare la furba, ok? Non farti coinvolgere. Per favore!
In pochi minuti conosciamo bene il carattere dei personaggi.


Un debutto con gli applausi, utilizzando al meglio gli attori che sconosciuti non sono affatto. Danny è quel Roland Møller che avevamo osservato nei panni del sergente dal cuore d’oro in Land of Mine - Sotto la sabbia (recensione), mentre la giovane Clara che stuzzica chiunque le passi accanto di sesso maschile è Lola Le Lann (Un momento di follia). E se la mamma Laurence è la bravissima Veerle Baetens, la notevole interprete di Alabama Monroe - Una storia d'amore (recensione), Nadia,la ristoratrice del Wok, è un’attrice che mi sta molto a cuore, Lubna Azabal, che ogni volta mi fa sobbalzare il cuore essendo stata una delle straordinarie protagoniste de La donna che canta (recensione), film che mi ha rivelato a suo tempo Denis Villeneuve (davanti a cui mi inchino sempre).
Ottimo cast, eccellente esordio di un giovane regista, film entusiasmante. Gli applausi sono meritati perché il film è un piccolo gioiello inaspettato, una visione improvvisa, un lampo di luce che promette sul futuro. Il voto inizialmente era 7 ma dopo la visione in originale me ne sono innamorato. 8.






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