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A Private War (2018)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 19 ago 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 25 mag 2023


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A Private War

UK/USA 2018 biografico 1h50’


Regia: Matthew Heineman

Soggetto: dall'articolo di Marie Brenner ‘Marie Colvin's Private War’

Sceneggiatura: Arash Amel

Fotografia: Robert Richardson

Montaggio: Nick Fenton

Musiche: H. Scott Salinas

Scenografia: Sophie Becher

Costumi: Michael O'Connor


Rosamund Pike: Marie Colvin

Jamie Dornan: Paul Conroy

Tom Hollander: Sean Ryan

Stanley Tucci: Tony Shaw

Faye Marsay: Kate Richardson

Greg Wise: Prof. David Irens

Nikki Amuka-Bird: Rita Williams

Corey Johnson: Norm Coburn

Alexandra Moen: Zoe

Hilton McRae: Adam Watkins


TRAMA: La vera storia di Marie Calvin, una giornalista americana divenuta nota per i suoi reportage di guerra da numerose zone del mondo, tra cui Kosovo, Cecenia, Timor Est e Medio Oriente.


Voto 7

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Dopo esperienze televisive e brevi documentari, Matthew Heineman decide per il suo esordio nel lungometraggio di occuparsi di una biografia non facile di un personaggio non facile, anche perché, come sostengo da sempre, questo genere è sempre altamente rischioso e spesso si va a sbattere fuori pista. Il personaggio in questione è una corrispondente di guerra, una donna tosta e volitiva, che non si tira mai indietro e che scrive reportage dai fronti caldi del mondo – in particolare del Medioriente - inviata da The Sunday Times (giornale distribuito nel Regno Unito e in Irlanda, pubblicato dalla Times Newspapers Ltd, che fa parte della News International, che è a sua volta controllata dalla statunitense News Corporation). Lei è Marie Colvin: taccuino in mano, Marie paga, noleggia, rischia pur di essere nelle zone più calde e azzardate della terra. In particolare, il film ci mostra i suoi spericolati viaggi, dopo essere stata sui fronti caldi di Kosovo, Cecenia e Timor Est, fatti in Iraq, Libia, Afghanistan, fino a quando, all'età di 56 anni, venne invitata ad Homs per seguire la guerra in Siria finendo tragicamente uccisa insieme al fotografo francese Rémi Ochlik, fedele “occhio” che la seguiva dappertutto, durante un'offensiva dell'esercito locale. Non è spoiler, tutto è vero e verificabile, anche in rete. Tutto tragicamente vero.

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Come tutto è tragicamente e drammaticamente vero quello che scriveva e riportava fedelmente dalle linee infuocate delle tante guerre che infestano questo nostro mondo, mondo che pur se si vanta di tanta modernità è ancora fermamente deciso ad allestire arsenali, rifornire di armi chi non ne ha, bombardare nazioni ostili e così via. Marie Colvin, a furia di vivere dentro la guerra, ormai anche esperta di quello che succede e che sarebbe successo, ne rimane talmente intossicata, ne è totalmente assuefatta che non sa farne più a meno. La sua professione si nutre di quella adrenalina, la respira ogni momento, è più di una droga: osservare, scrivere e inviare reportages al giornale è la sua vita. Quando poi rientra in redazione ci rimane poco, ha sporadici e frettolosi rapporti affettivo-sessuali - che sanno tanto di sfogo psicofisico - con Tony Shaw, un ricco uomo d'affari, che frequenta da quando si è separata dal marito. Forse si vogliono anche bene ma quando lei rimane in casa in quei brevi periodi Shaw nota facilmente che lei è irrequieta e non vede l’ora di rimettersi in viaggio. Il suo capo Sean Ryan la stima tanto e vorrebbe risparmiarla, concedendole periodi più lunghi di riposo ("Tu hai il grande dono di far fermare le persone a riflettere"), i premi giornalistici fioccano ma lei ha sempre e solo un pensiero fisso: tornare dove si vive tra esplosioni, bombardamenti, cannonate, attentati. Dove neanche in albergo, tra i corrispondenti di tutto il mondo, è garantita l’incolumità fisica. Solo il suo devoto fotografo cerca di limitarle gli spostamenti, avvertendola continuamente dei pericoli che li circondano, ma lei vuole vedere da vicino, deve sentire il cattivo odore delle armi che esplodono colpi di fucili automatici.

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E dire che non è una brutta donna, anzi. Ma le condizioni della vita che conduce la fanno sembrare animalesca e trasandata: bionda, capelli crespi e negli ultimi anni una benda a coprire l’occhio perso per quel maledetto lavoro. Sembra la versione moderna e femminile di Moshe Dayan, il generale israeliano salito agli onori militari durante la fatidica “Guerra dei sei giorni”. Più che una giornalista di fama internazionale sembra la donna di un pirata che non ha paura di esporsi in prima linea, beve alcol con i colleghi, risponde a tono a chiunque. Donna di carattere e senza paura, Marie Colvin. Fin quando durò, perché un giorno, in Siria, perirono lei e il suo caro fotografo.

Sembra un film di guerra ma non lo è o forse lo è “anche”. Perché è una guerra anche stare costantemente in prima linea e cavarsela tutti i giorni, tornare in albergo, sfogarsi in qualche maniera e alzarsi il mattino presto per riprendere, ammesso che durante la notte non succeda nulla, altrimenti non si dorme neanche. Ed è anche una guerra personale, quella che ci si porta dietro e dentro tutte le sere in camera, quella che non si riesce a smaltire neanche nel sonno, quella che diventa una droga, come una guerra privata, A Private War, appunto.

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Succede quindi che il debuttante Matthew Heineman cerca di raccontarci tutto ciò in maniera che possiamo anche noi respirare quella atmosfera dura e mortale, piena di feriti, morti e sangue, con esplosioni che stordiscono la mente e le orecchie, fino a rendere sordi. Il regista cerca di dare un filo logico, facendo rimbalzare la trama tra Medioriente e Stati Uniti, tra l’orrore e la vita mondana newyorkese, puntando all’introspezione caratteriale della donna. Ciò che non gli riesce tanto – ma era questo il lato più importante e difficile da descrivere – è mostrarci come la protagonista volesse liberarsi dal demone interiore che la possedeva, che la spingeva a rivivere continuamente l’orrore (come lo chiamava il generale Kurtz in Apocalypse Now [recensione]) alimentato da quel trauma che la invadeva e che riviveva ad ogni nuova occasione. Come una sindrome post-traumatica, era una ellissi che girava nella testa allontanandosi e riavvicinandosi.

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Dimentichiamo la bellissima e attraente Rosamund Pike di L'amore bugiardo - Gone Girl (recensione), dimentichiamo la combattiva e disperata vedova di Hostiles: Ostili (recensione), la bella attrice si trasforma totalmente e dà una prova di forza e di carattere attoriale, una prova muscolare, una recitazione fatta col corpo e con la voce, dando tutta se stessa. Irriconoscibile, anche perché un po’ imbruttita e poi con quella benda da pirata non sembra più lei. Brava bravissima. Di contorno, da notare il solito perfettino Stanley Tucci, come ogni volta irreprensibile con i vari ruoli che sa scegliere e che gli affibbiano, e il sempre notevole, sgusciante, ambiguo Tom Hollander, attore stimabile.

Poteva e doveva essere migliore il film, ma a un esordiente non sempre può riuscire tutto: il film è molto interessante, ben congegnato e con gli ingredienti a posto. Il biopic è un campo minato ed è facile che si calpesti nel punto sbagliato ma Matthew Heineman se la cava in maniera più che sufficiente, mentre il voto complessivo deve tenere in considerazione l’eccellenza della protagonista, tant’è che Rosamund Pike ha avuto una candidatura ai Golden Globe, assieme a quella gran donna che è l’autrice della canzone originale scritta per i titoli di coda, l’insuperabile Annie Lennox, con un titolo ben significativo: Requiem for A Private War. Motivo per cui non ci si deve alzare durante i titoli finali.

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2019 - Golden Globe

Candidatura per la migliore attrice in un film drammatico a Rosamund Pike

Candidatura per la migliore canzone originale



 
 
 

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