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Agente 007 - Vivi e lascia morire(1973)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 22 nov
  • Tempo di lettura: 3 min
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Agente 007 - Vivi e lascia morire

(Live and Let Die) UK, USA, Giamaica 1973 2h1’

 

Regia: Guy Hamilton

Soggetto: Ian Fleming

Sceneggiatura: Tom Mankiewicz

Fotografia: Ted Moore

Montaggio: Bert Bates, Raymond Poulton, John Shirley

Musiche: George Martin

Scenografia: Syd Cain

Costumi: Julie Harris

 

Roger Moore: James Bond

Yaphet Kotto: dott. Kananga / Mr. Big

Jane Seymour: Solitaire

Clifton James: sceriffo J.W. Pepper

Julius Harris: Tee Hee Johnson

Gloria Hendry: Rosie Carver

Geoffrey Holder: Baron Samedi

David Hedison: Felix Leiter

Lois Maxwell: miss Moneypenny

Bernard Lee: M

 

TRAMA: Giunge notizia che tre agenti di Sua Maestà sono stati uccisi oltreoceano. Il giorno stesso, James Bond viene mandato in missione per indagare. 007 si sposta a Sainte Monique, un’isoletta nel Mar dei Caraibi, dove il dottor Kananga, alias Mister Big, ha impiantato la centrale di un enorme traffico di droga con cui soggiogare la popolazione bianca degli Stati Uniti. Manco a dirlo, dell’agente si innamora la bella Solitaire, una veggente al soldo del criminale, che lo aiuterà.

 

VOTO 6


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Il terzo film dell’agente segreto diretto da Guy Hamilton segna l’ingresso di Roger Moore nella saga di Bond con un mix di ironia, voodoo e inseguimenti mozzafiato: un film che divide la critica, ma che resta un tassello fondamentale per capire come la serie abbia cercato di reinventarsi negli anni ’70, una svolta dopo anni di successi e rendita di popolarità assicurata. Serviva, e infatti arriva anche dal nuovo volto.



Gli osservatori del tempo concordavano su un punto: Live and Let Die è soprattutto il film che introduce un attore che, diversamente dai suoi predecessori, ha l’urbanità, il sopracciglio alzato e la calma sotto pressione, ma anche il merito di non giocare con l’eccezionalità del personaggio come faceva Connery. In altre parole, Moore porta eleganza e compostezza, ma meno ironia consapevole. Alcuni addirittura mettevano in luce il lato più surreale e forse straniante: un Bond che passeggia con aplomb britannico nei bar di Harlem, circondato da personaggi eccentrici come Tee-Hee (il braccio destro del dottor Kananga, che ha un braccio metallico con un artiglio), il silenzioso Whisper (che parla sempre sussurrando, dettaglio che lo rende inquietante e grottesco) e il sacerdote voodoo Baron Samedi (presentato come l’uomo che non può morire). È un universo che mescola blaxploitation, pulp e fumetto, rendendo l’avventura la più diversa di sempre da come ce lo saremmo aspettati come spettatori. Stavolta la Bond girl è la bella Jane Seymour nei panni di Solitaire.



La trama, meno globale rispetto ai classici Bond, cioè più circoscritta, ruota attorno a un piano di traffico di eroina orchestrato da Kananga/Mister Big (Yaphet Kotto). Non più laser spaziali o oro da salvare, ma un business criminale radicato tra Harlem, New Orleans e i Caraibi. Quindi una storia di avventura caotica, con inseguimenti in motoscafo (celebre il volo di ben 30 metri fatto con il potente natante), salti tra alligatori e rituali voodoo. Il risultato è un Bond che si sporca le mani con ambientazioni più realistiche, ma che non rinuncia al gusto per lo spettacolo. Memorabile la sequenza sul bayou (il corso d’acqua paludoso) con lo sceriffo J.W. Pepper (l’immancabile Clifton James), caricatura del redneck americano, che aggiunge un tocco di comicità quasi da slapstick.



Indubbiamente si può riconoscere al film un certo fascino visivo e musicale: il tema di Paul McCartney è diventato un classico immediatamente, una hit, mentre la regia di Guy Hamilton gioca con colori, atmosfere e rituali che flirtano con l’horror. Tuttavia, non mancano gli stereotipi culturali, un ritmo altalenante e un villain meno incisivo rispetto ai grandi del passato. Il grande Roger Moore, però, riesce a imprimere il suo marchio: più sarcastico, più gentleman, meno fisico ma più teatrale. È l’inizio di un’era che porterà Bond verso toni più leggeri e spettacolari.


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A distanza di tempo possiamo affermare, però, che il film non si può considerare un capolavoro, ma è un film che ha osato cambiare registro. Tra voodoo, blaxploitation e ironia britannica, ha aperto la strada a un Bond diverso, più pop e meno cupo. Forse non ha la solidità dei classici, ma ha la forza di un esperimento che ancora oggi affascina per la sua eccentricità. Era pur sempre una novità.

 


 
 
 

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