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Arancia meccanica (1971)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 3 mar 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 24 giu 2024

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Arancia meccanica

(A Clockwork Orange) UK/USA 1971 dramma 2h16'


Regia: Stanley Kubrick

Soggetto: Anthony Burgess (romanzo)

Sceneggiatura: Stanley Kubrick

Fotografia: John Alcott

Montaggio: Bill Butler

Scenografia: John Barry

Costumi: Milena Canonero


Malcolm McDowell: Alex DeLarge

Patrick Magee: Mr. Alexander

Michael Bates: capo guardia

Warren Clarke: Dim

Michael Tarn: Pete

John Clive: attore teatrale

Adrienne Corri: Mrs. Alexander

Carl Duering: dr. Brodsky

Paul Farrell: vagabondo

Clive Francis: pensionante

Michael Gover: governatore della prigione

Miriam Karlin: Catlady

James Marcus: Georgie

Aubrey Morris: Deltoid

Godfrey Quigley: cappellano della prigione

Sheila Raynor: mamma

Madge Ryan: dr.ssa Branom

Anthony Sharp: ministro

Philip Stone: papà


TRAMA: In un futuro indefinito, Alex, appassionato cultore della musica di Beethoven, è il capo di un quartetto di giovani teppisti abituati a commettere violenze di ogni tipo. Alla lunga, esasperati dal suo atteggiamento dispotico, i suoi compagni lo tramortiscono e lo lasciano nelle mani della polizia. Condannato e imprigionato, Alex si vede offrire una chance di libertà: in cambio, dovrà sottoporsi a una terapia sperimentale chiamata “cura Ludovico”.


Voto 10


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Il giovane e saccente Alex De Large (Malcom McDowell) è un teppista le cui passioni sono la pornografia, Beethoven e l’”ultraviolenza” che esercita al comando di una banda di drughi vestiti con calzamaglia bianca e bombetta nera. Durante le violente incursioni la banda parla un gergo particolare, ricco di neologismi. Nella prima parte del film, che dura una ventina di minuti, dopo l’aggressione di un homeless, la scena più brutale è quella che ossessionerà Alex in seguito: penetrati nella lussuosa e futuristica abitazione Alex intona ‘Singing in the Rain’ dispensando calci a tempo di musica. In seguito, in una sortita a caccia di forti emozioni, Alex uccide una donna con la scultura di un gigantesco fallo e finisce in prigione.


A proposito di quest’ultima sequenza mi viene in mente quanto ha raccontato l’autista tuttofare di Stanley Kubrick, il fidato Emilio D’Alessandro allorquando si incontrarono per la prima volta nella loro vita. Fu proprio per consegnare quella scultura fallica enorme che l’autista conobbe il regista, unico tra tutti i tassisti disposti a lavorare sotto una copiosa nevicata. Era destino che avrebbero dovuto conoscersi ed iniziare una lunghissima amicizia piena di fiducia e affetto.


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L’impressionante visione di Kubrick di un futuro - benché molto vicino – in alcune scene può sembrare anche datato a guardare questo film oggi, ma osservando lucidamente ci accorgiamo che la stessa violenza per cui il film (e prima il romanzo di Anthony Burgess) fu condannato è stata purtroppo clamorosamente superata dalla realtà contemporanea. Di certo il film rimarrà sempre agghiacciante e in momenti perfino disturbante se non addirittura insopportabile, per la sua descrizione della degradazione sociale e per il suo tema principale: ma deve risultare più importante (era giusto questo il messaggio che voleva trasmettere il Maestro?) la fragilità dell’individuo e dei suoi diritti di fronte allo stato, forse a volte troppo invadente verso il singolo cittadino, con il pretesto della giustizia ad ogni costo.


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Rimarrà sicuramente il film più controverso del grande Maestro, un apologo tra il sociale e il fantascientifico (sociale) ma di grandissimo impatto emozionale, scioccante per lo spettatore e soprattutto resta un esempio raro di coraggiosa trasposizione di un romanzo che di per sé aveva fatto clamore e che secondo il parere generale era quasi impossibile e inadatto per il cinema. Invece la forte componente di utopia negativa del film, se così si può chiamare, sollevò e solleva ancora oggi una utile riflessione di natura sociologica.


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La crudeltà della punizione che vediamo afflitta al protagonista Alex lo trasformerà in una vittima umiliata e implorante ed è spaventosa quanto lo erano le sue sciagurate imprese assieme a suoi drughi. Potremmo leggere tutto ciò come una feroce satira su ipocrisia, corruzione e sadismo della società moderna. La mano del Maestro va giù dura, ma nessuno, sottolineo, nessuno ha saputo fare come lui, certo aiutato dal soggetto di partenza. In più lui ci ha messo tutta la forza magnetica del suo cinema.


Come sempre, opera ineguagliabile. Punto.


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Ora, mi sia permessa una lunga citazione, per l'esattezza un articolo interessantissimo della grande Emanuela Martini che è straordinaria nel guardare dentro al film e alle profonde ispirazioni del Maestro. La critica scrive così.


I primi 40 minuti sono come un balletto: sulle note della Nona sinfonia di Beethoven, delle ouverture di La gazza ladra e del Guglielmo Tell di Rossini, della Musica per il funerale della regina Maria di Purcel e dell'imprevedibile ilare Singin’ in the Rain, si snoda un'unica incessante coreografia di violenza, sesso, sangue, velocità, noia, frustrazione, insopprimibili energie vitali, ironia. I quattro drughi in bianco, bombette e stivaletti neri e occhi e bocche truccate, hanno l'agilità dei ballerini, feroci, eleganti, sarcastici, e la cattiveria di una giovinezza repressa e compressa tra perbenismo tradizionale e lassismo modaiolo. Si muovono sullo sfondo di una Londra fatta di edifici comunali degradati, su un lungo Tamigi lurido e non ancora gentrificato, tra i colori squillanti di interni che sembrano arredati con il bric-à-brac dismesso dal 2001: Odissea nello spazio o usciti da una sitcom dozzinale, dove la working class indossa impermeabili di plastica lucidi e parrucche viola e la upper class tutine rosse e sciarpe indiane di cachemire. Il Korova Milk Bar, con il suo candore pretenzioso, è il fulcro della stazione immaginaria, dove il pop degrada verso la volgarità finto-estetizzante. Lo scenografo John Barry (Oscar per Guerre stellari) e la costumista Milena Canonero (all'esordio) colgono alla perfezione (e ordinano) il caos iconografico del periodo. Pop art e kitsch, statuine di cristi che ballano colando sangue e ragazze nude di plastica che stillano dei seni latte “aumentato” con LSD.

Stanley Kubrick è un genio sardonico e preveggente, con i suoi drughi non anticipa solo il movimento punk esploso a Londra di lì a poco, ma tutto l'imbastardimento della cultura di massa, la perdita di radici e tradizioni e la deriva verso il merchandising televisivo. E soprattutto, sottolinea la funzionalità di tutto questo al potere, sempre uguale a se stesso anche quando sostituisce i tristi fumi di Londra con cravattone sgargianti e i sistemi correttivi tradizionali con lungimiranti metodi di riadattamento. Aperta dal solenne Pomp and circumstance di Elgar, la seconda parte del film ci precipita nell’universo ordinario e grigiastro del carcere, tra guardie ottuse, detenuti ammiccanti e medici asettici. La macchina a mano e il grandangolo svelano e appiattiscono. La “cura Ludovico”, con Hitler e le sue truppe che danzano l'Inno alla gioia, è una sintesi di orrore e bellezza, è la perdita del gusto, del senso delle cose, dei sensi che ci aiutano a distinguere e a scegliere. La parabola di Alex, rabbonito e rivestito di panni borghesi, malmenato da tutti e da tutte le parti in gioco, è anche quella del nostro cervello sollecitato da ogni lato, sovraesposto, condizionato, sovraeccitato, finché va in tilt e si lascia andare, diventa puro istinto, magari il peggiore.

P.S. Arancia meccanica nasce dal romanzo politico e satirico del 1962 di Anthony Burgess, ambientato in un futuro distopico. Ma richiama anche un film precedente e due successivi di Lindsay Anderson: i tre del ciclo di Mick Travis, Se… (1968), O Lucky Man! (1973) e Britannia Hospital (1982), non solo per la comune presenza di Malcom McDowell, perché Alex ricorda spesso Mick, ma soprattutto per l’istintualità repressa che finisce per idealizzare la violenza, per l’animalità che non può non erompere, per la mediocrità dietro cui si maschera la maturità. Alex e Mick ci raccontano la perdita della giovinezza.


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Riconoscimenti

1972 - Premio Oscar

Candidatura miglior film

Candidatura migliore regia

Candidatura migliore sceneggiatura non originale

Candidatura miglior montaggio

1972 - Golden Globe

Candidatura miglior film drammatico

Candidatura migliore regia

Candidatura miglior attore in un film drammatico a Malcolm McDowell

1972 - Festival di Venezia

Premio Pasinetti a Stanley Kubrick

1973 - Nastro d'argento

Regista del miglior film straniero

Candidatura miglior film straniero

1973 - Premio BAFTA

Candidatura miglior film

Candidatura migliore regia

Candidatura migliore sceneggiatura non originale

Candidatura migliore fotografia

Candidatura migliore scenografia

Candidatura miglior montaggio

Candidatura miglior sonoro


 
 
 

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