Ariaferma (2021)
- michemar

- 7 set 2021
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 4 dic 2023

Ariaferma
Italia/Svizzera/Francia 2021 dramma 1h57’
Regia: Leonardo Di Costanzo
Sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Carlotta Cristiani
Musiche: Pasquale Scialò
Scenografia: Luca Servino
Costumi: Florence Emir
Toni Servillo: Gaetano Gargiuolo
Silvio Orlando: Carmine Lagioia
Fabrizio Ferracane: Franco Coletti
Salvatore Striano: Cacace
Roberto De Francesco: Buonocore
Pietro Giuliano: Fantaccini
Nicola Sechi: Arzano
Leonardo Capuano: Sanna
Antonio Buil: Bertoni
Giovanni Vastarella: Mazzena
Francesca Ventriglia: direttrice
TRAMA: In un carcere in dismissione, alcuni agenti e pochi detenuti, gli ultimi rimasti, aspettano di essere trasferiti. A poco a poco, le regole, scritte e non, sembrano avere sempre meno senso, e quella degli uomini in attesa diventa una nuova, fragile, comunità.
Voto 7,5

“Fra qualche giorno voi sarete tutti trasferiti. Tutte le attività sono sospese. L'ordine di trasferimento può arrivare in qualsiasi momento. Anche domani.”
Così dice a voce alta nel reparto ridotto del carcere di Mortana (luogo di fantasia) l’ispettore a cui per anzianità è stato affidato il compito di reggente dalla direttrice che è stata trasferita altrove, dal momento che tutto il carcere è stato svuotato e i carcerati trasferiti in altri prigioni. Sono rimasti in dodici, mentre un tredicesimo, il giovane Fantaccini, è in arrivo. Loro sono pochi ma anche gli agenti di custodia non sono molti e piuttosto nervosi perché erano convinti di doversi trasferire anch’essi, dal momento che oramai il carcere è in dismissione. Ed invece, per motivi burocratici, gli ultimi detenuti rimasti non sanno ancora bene il loro destino e, come loro, i sorveglianti lasciati. Il carcere, già di per sé un luogo chiuso, claustrofobico, anche se spesso grande, si restringe ancor di più, come un nodo scorsoio che non torna indietro. L’ordine, ripete due volte nel giro di qualche minuto, può arrivare anche domani, ma lo dice ancora con meno convinzione, riguardando, questa notizia, un evento che danneggia non solo i condannati ma anche gli uomini in divisa che si rendono ben conto dell’improbo compito che spetta: controllare detenuti sempre più irrequieti con pochi uomini.

L’aria è ferma a Mortana, l’aria è immobile in un edificio alquanto fatiscente, è pericolosamente tesa nelle celle, negli uffici semivuoti, nei corridoi abbandonati: sono tutti raccolti in una piccola parte del penitenziario e i visi sono tirati e nervosi. L’espressione dell’ispettore Gargiuolo è cambiata da quando la direttrice gli ha affidata la responsabilità della situazione. Se prima scherzava con i colleghi, adesso il suo viso è serissimo e dà ordini secchi agli altri agenti e ai reclusi, sente il peso del contesto e avverte la sensazione di imminente rivolta a causa delle restrizioni, della cucina chiusa per mancanza di personale, del cibo precotto che arriva, della presenza incombente di don Carmine Lagioia, il boss camorristico rispettato e carismatico, detenuto che non si agita mai ma ha un forte ascendente sugli altri e può scatenare la loro ribellione per le ulteriori scomodità createsi. È a fine pena e ciò non gli conviene, ma è pur sempre un soggetto pericoloso, tanto che Gargiuolo lo tiene sempre sottocchio. Più si protrarrà la permanenza, più verrà ritardato il trasferimento dell’ultimo contingente, più aumenterà il nervosismo.

C’è un’aria ferma che ha il sapore de Il deserto dei tartari, in cui l’attesa esacerba gli animi e acuisce i dissidi. Tra alcuni immigrati dell’Africa e dell’est europeo, tra delinquenti “infami” che gli altri ripudiano, c’è ora anche quel giovanottino arrestato ancora una volta per reati minori ma il cui ultimo scippo ha malridotto un anziano signore adesso in fin di vita. È quello psicologicamente più debole, piange e non riesce a dormire. Quel posto, come tutte le carceri, è un campionario di differenti umanità. In questa situazione si creano attriti anche tra gli uomini dell’ordine, cominciando da Coletti, quasi mai d’accordo con le decisioni del capo reggente, soprattutto da quando questi comincia a concedere alcune facilitazioni e concessioni a Lagioia, il quale, avendo esperienza nel campo della ristorazione, si offre volontario per cucinare per tutti, agenti compresi. Gargiuolo tentenna ad ogni richiesta, ma sa che per, mantenere la calma del carcere e risolvere i problemi man mano che nascono, a qualcosa deve acconsentire. Il compromesso fa sempre parte delle trattative. E non solo: valgono ancora i rigidi regolamenti o è consigliabile una intelligente flessibilità dovuta dalle circostanze? È infatti, proprio in quella grande cucina che i due iniziano a conoscersi, duellando dialetticamente e guardandosi negli occhi. Non nasce un rapporto amichevole, anzi si scontrano ma cominciano ad accettarsi, sapendo che la guerra può solo portare maggiori disordini. La cena organizzata nello spazio comune tra le celle aperte, tutti seduti al tavolo, rappresenta un attimo di nervosa convivialità, si configura come un momentaneo armistizio, tra chiacchiere, battute e brindisi che allentano la tensione, sempre con la disapprovazione e il ghigno nervoso di Coletti.

Le recenti notizie dei gravi maltrattamenti e abusi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono più di un campanello di allarme, sono piuttosto la rivelazione dei comportamenti sbagliati che durano da sempre nelle carceri, aumentando le rivolte e le proteste dei carcerati e questo film, ovviamente girato prima di quelle rivelazioni, è un lucido sguardo alla vita e ai rapporti che si creano in quei luoghi di detenzione. Pure se in questa storia non avviene nulla di grave o di irregolare, Leonardo Di Costanzo ci avverte di come sia facile che, in situazioni di emergenza ma anche in quelle ordinarie, la situazione possa precipitare facilmente e che degeneri in atti di violenza. La tensione sale proprio in occasione di quella cena anomala, in cui, per sicurezza e prevenzione, è Coletti che chiama gli agenti a riposo e li fa schierare nel corridoio in tenuta antisommossa, pronti ad intervenire qualora la situazione degenerasse. In un film che viaggia teso e nervoso per tutta la trama ma in cui, fortunatamente, non sta succedendo nulla di grave, è proprio nel finale quindi che si creano i presupposti di un frangente di alta tensione (peraltro costantemente avvertita), che non si sa dove possa arrivare, data l’estrema situazione determinata: la corrente è saltata e non funzionano più le luci ma soprattutto le porte elettriche d’accesso allo stabile, gli allarmi e le telecamere. Nessuno può più entrare né uscire. Il regista ci fa vedere come in realtà, e non solo in quella anormale occasione, in un posto del genere siano tutti prigionieri, agenti e detenuti. Tutti coercitivamente rinchiusi. D’altronde, per quello che vediamo nel film, anche la vita condotta dagli uomini in divisa è monotona e ristretta come quella senza divisa: ispezioni e caffè, chiacchiere e riposo a letto in una camera con tanto di sbarre alle finestre. Non ci vien mostrato alcun viso di un qualsiasi familiare, tranne un piccolo accenno iniziale, non abbiamo notizie di mogli o figli. Oltre c’è solo un alto muro di cinta che limita la vista e distacca dal resto del mondo. I condannati sono sottochiave e i guardiani hanno le chiavi per aprire i cancelli dei corridoi e delle celle. Fuori la vita e il mondo. “È dura stare in carcere, eh?” dice il camorrista all’ispettore, provocandogli irritazione. “Io e te non abbiamo nulla in comune” ribadirà l’altro in un’occasione diversa.

“Non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere” dice Leonardo Di Costanzo e ce lo dimostra il suo film, che può entrare nel sottogenere del prison movie solo di striscio, perché più dei soliti avvenimenti narrati dai film simili egli ci illustra una tragedia psicologica e fisica che avviene in quel luogo chiuso, dove la convivenza porta le “persone” a guardarsi in faccia e parlarsi. Il regista racchiude ancora una volta i personaggi, come nei suoi precedenti lungometraggi, in luoghi recintati, fisicamente e mentalmente. Così è stato per l’esordio dell’Intervallo (2012, recensione) – con tanto di Premio Fipresci, Sezione Orizzonti, Venezia 2012 – in cui il giovanissimo Salvatore deve tenere a bada Veronica in un ospedale abbandonato, e come avviene di nuovo nell’altro premiato, L’intrusa (2017), dove la trama si sviluppa all’interno di una casa di accoglienza per le persone allontanate dal pericolo della camorra. Egli ha il talento di creare storie all’interno di luoghi non facili, dove tutto può avvenire ma principalmente succede che le persone lontane per mentalità e vita vengono a contatto e si parlano. Proprio come Gargiuolo e Lagioia, figure che, ognuna a suo modo, tentano di confrontarsi in una realtà inaspettata e scomoda.

Regia ineccepibile, che seguendo i personaggi ci proietta nella scomodità logistica e mentale del carcere e dirige con maestria un film corale, in cui emergono alcuni attori di primo piano. Ho letto grandi elogi su Toni Servillo (ispettore Gargiuolo) e Silvio Orlando (Lagioia) e li ho trovati fuori luogo: essi sono semplicemente quelli che ben conosciamo, cioè tra i migliori in assoluto nel parco degli attori italiani. Toni Servillo (straniante vederlo rigido in una divisa!) fa quello che sa fare e cioè interpretare qualsiasi ruolo come pochi al mondo e Silvio Orlando dipinge ancora una volta un personaggio che gli calza a pennello anche se stavolta gli è capitato quello di un boss, cosa piuttosto fuori dai suoi soliti, fatta eccezione per il diabolico Cardinale Voiello sorrentiniano. Sentirli e vederli recitare (e questa volta assieme!) rappresenta uno spettacolo nel bel film, sono da soli un’attrattiva sufficiente per apprezzare l’opera del regista ischitano. Che bravi! Ma è d’obbligo parlare anche di chi si veste con l’altra anima delle divise carcerarie: Franco Coletti è meravigliosamente interpretato da Fabrizio Ferracane, un attore straordinario che spesso viene trascurato perché oscurato dai nomi più in vista che fanno parte del cast. Così è stato ne Il traditore (recensione) dove era Pippo Calò, per esempio, ma nel bellissimo Anime nere (recensione) esce fuori in maniera prepotente, animato come sempre da una forza recitativa che lo esalta. Grande attore. Ottima sia la fotografia di Luca Bigazzi, perfettamente incupita all’ambiente, e notevolissimo è l’accompagnamento musicale di Pasquale Scialò, raramente classico ma efficacemente costruito mediante brani cadenzati con pizzicati e percussioni, con un finale che invade le ultime inquadrature con battito di mani ritmato, un irresistibile body percussion.

Basta poco per trovarsi da una parte o dall'altra di quelle sbarre e come, nella vita carceraria, i destini si confondano: la quotidianità di carcerieri e carcerati si somiglia. Ribaltando ogni luogo comune.

Riconoscimenti
David di Donatello - 2022
Migliore sceneggiatura originale
Miglior attore protagonista a Silvio Orlando
Candidatura a miglior film
Candidatura a miglior regista
Candidatura a miglior produttore
Candidatura a miglior attore non protagonista a Fabrizio Ferracane
Candidatura a migliore autore della fotografia
Candidatura a miglior musicista
Candidatura a miglior scenografo
Candidatura a miglior montatore
Candidatura a miglior suono






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